Capitolo 4 – La Torà
Il Libro della Torà
I racconti della Torà
Le norme della Torà: a) Generalità; b) Il culto (i sacrifici e gli addetti ad esso); c) Divisione del paese; d) Norme morali e sociali; e) Norme sulla santità della famiglia; f) Schiavitù; g) Feste; hi Anno sabbatico e Giubileo; i) Norme relative ai cibi; l) Leggi relative al terreno; m) Consacrazione dei primogeniti; n) Segni materiali a ricordo della Torà o) Pene; p) Rapporti con gli stranieri: guerre
Gli ammonimenti della Torà
La Torà e le leggi dei popoli dell’antico Oriente
Il Libro della Torà
Come abbiamo visto sopra, negli anni che passarono dall’uscita dall’Egitto alla morte di Moshè, questi comunicò al popolo d’Israele le leggi che dovevano regolare la sua vita. Queste leggi sono contenute nel libro che complessivamente è detto Sèfer Torà, “Libro dell’Insegnamento”, che è quel libro che per antichissima consuetudine noi leggiamo interamente nel corso dell’anno, una porzione (parashà) per ogni shabbàt, e che nei luoghi destinati alla tefillà pubblica, si legge in un libro scritto su pelle a forma di rotolo. Esso si divide in cinque parti (Chamishà Chumshè Hatorà, “i cinque quinti della Torà”); ciascuna delle quali prende usualmente nome, in ebraico, da una delle sue prime parole, e nelle altre lingue da parola di origine greca o latina che si riferisce al suo contenuto o a una parte di esso. Questi nomi sono: Bereshìt – Genesi; Shemòt – Esodo; Vayikrà – levitico; Bemidbàr – Numeri; Devarìm – Deuteronomio. Il complesso dei libri viene talvolta designato, con parola derivata dal greco, Pentateuco.
L’antica tradizione attribuisce interamente questo libro a Moshè, a eccezione degli ultimi versi dove si parla della sua morte e sepoltura, e si dà un giudizio complessivo su di lui. Opinioni espresse da autori moderni secondo cui il libro sarebbe stato messo per iscritto, tutto o in parte, in età posteriori, non hanno serio fondamento; comunque, non vi è dubbio che il libro contiene l’insegnamento che Moshè, sentendosi ispirato da Dio, diede al popolo d’Israele.
Per quanto questo insegnamento miri soprattutto a dare delle leggi (e per questo la parola Torà viene qualche volta tradotta Legge), il contenuto della Torà non è tutto legislativo, ma in parte narrativo; esso contiene pure, come detto sopra, i discorsi che tenne Moshè negli ultimi giorni della sua vita. Le narrazioni che occupano specialmente tutto il libro di Bereshìt, una parte di quelli di Shemòt, Bemidbàr e Devarìm, riguardano il tempo che va dalle origini del mondo alla morte di Moshè; a partire dai tempi di Avrahàm, la Torà si occupa solo degli avvenimenti che riguardano lui e i suoi discendenti; e dalla generazione dei figli di Ya’akòv, i racconti riguardano soltanto più questi e poi il popolo d’Israele.
I racconti della Torà
Nella sua parte narrativa la Torà non ha lo scopo di fare la storia del mondo né quella del popolo d’Israele, ma di inculcare dei principi; a questo scopo essa, anziché enunciarli in forma astratta, guida il lettore a rilevarli da racconti. Diamo alcuni esempi. Narrando la creazione del mondo, vuole la Torà insegnare che tutto quanto esiste è apparso gradatamente per opera di un unico Dio contrariamente alle idee correnti, al tempo in cui la Torà fu data, fra i vari popoli che credevano nell’esistenza di molti dèi e li identificavano spesso con gli astri o con altre cose esistenti nel mondo. L’unico Creatore, insegna la Torà, è assoluto padrone di tutto il creato e ne concede l’uso agli uomini, a condizioni che Egli stesso ha stabilito. Il racconto secondo cui tutti gli uomini derivano da un’unica coppia creata dall’unico Dio serve ad inculcare il principio che tutti gli uomini sono fratelli, né alcuno può vantare, in conseguenza della sua origine, diritti maggiori di quelli di un altro, e a sradicare l’idea, molto diffusa fra gli antichi, che alcuni uomini fossero discendenti di dèi o nati dall’unione di divinità con esseri umani. Presso le antiche popolazioni, specialmente nella Mesopotamia, erano diffusi racconti secondo i quali, certe divinità, per vendicarsi di uomini che li avevano offesi, avevano distrutto il mondo e salvato un loro amico; anche la Torà ci parla di una distruzione quasi totale del mondo e della salvezza di una sola famiglia umana, ma essa narra il fatto in modo da darci un insegnamento morale: la distruzione avviene, per volere dell’unico Dio, come punizione di gravi colpe che gli uomini avevano commesso, e la famiglia che scampò alla distruzione dovette la sua salvezza al fatto che il suo capo Nòach (Noè) si mantenne giusto ed onesto in mezzo alla corruzione generale. Così pure, secondo la Torà, la distruzione di alcune città che si trovavano nel luogo dove sorse poi il Mar Morto avvenne come punizione di gravi colpe, e venne salvata la famiglia di Lot, nipote di Avrahàm, che di quelle colpe non si era macchiato. Gli episodi narrati nella Torà relativi ai patriarchi servono a darci dei modelli di virtù private, familiari e sociali, per quanto anch’essi, come uomini, abbiano qualche volta commesso delle azioni non del tutto lodevoli, a instillare il principio del legame indissolubile fra Israele e la sua terra, a mostrare che Dio, nel fissare i destini degli uomini e dei popoli, tiene molto conto delle loro azioni. I racconti sull’uscita dall’Egitto e sul viaggio dei nostri padri nel deserto servono a farci sentire che Dio veglia continuamente sul nostro popolo che, primo e solo nell’antichità, Lo ha conosciuto, e che Egli lo guida nei suoi destini. Alcuni dei racconti della Torà hanno poi dei grandi pregi letterari, e sono scritti in modo che, con la loro semplicità e con la cura che hanno di mettere in rilievo, facendo parlare i fatti stessi, i caratteri dei personaggi, fanno profonda impressione sul lettore. Fra questi sono da notarsi in modo particolare la narrazione su Avrahàm, disposto a sacrificare il proprio figlio in obbedienza a Dio, quella sul soggiorno di Ya’akòv presso lo zio Labano, e soprattutto quelle che riguardano i rapporti fra Yosèf e i suoi fratelli.
Le norme della Torà
a) Generalità
La Torà contiene una grande quantità di norme presentate come comandi (mitzvòt) divini al popolo d’Israele. La tradizione dei nostri Maestri ne fissa il numero a 613 di cui 365 negativi, che cioè contengono divieti o norme che abbracciano tutte le manifestazioni della vita individuale e collettiva nei loro vari aspetti, e hanno lo scopo generale, esplicitamente dichiarato nella Torà stessa, di santificare la vita, di fare cioè di Israele il popolo santo. Alcune di esse riguardano il culto, cioè gli atti da compiersi o da non compiersi, per dimostrare sensibilmente la devozione a Dio e l’adesione ai principi inculcati dalla Torà. Altre si riferiscono ai rapporti fra uomo e uomo, sicché essi vengano regolati con rettitudine, giustizia ed amore. Altre infine, senza avere uno scopo determinato a noi conosciuto per ciascuna di esse, tendono a fare si che il modo di vivere degli appartenenti al popolo d’Israele sia tale che tutti gli atti, anche quelli che non sono compiuti in obbedienza ad un particolare comando della Torà e che quindi sogliono essere compiuti da tutti gli uomini, persino anche dagli animali, abbiano qualche cosa che conferisca loro un carattere spirituale, cioè di santità (kedushà) che faccia sentire all’uomo ebreo che anche compiendo tali atti, egli è sottoposto alla disciplina della Torà per la quale nessuna azione è indifferente.
b) Il culto dei sacrifici e gli addetti ad esso.
Ai tempi in cui fu data la Torà il culto di tutti i popoli era fondato sui sacrifici, cioè su offerte alla divinità. La Torà non si oppone a tale consuetudine, ma vuole evitare che atti di culto degenerino in atti immorali, come avvenne in genere presso i popoli antichi. Per questo viene assolutamente vietato il sacrificio umano e vengono stabilite norme precise sulla natura, il luogo e il tempo dei sacrifici. Essi consistono in bovini e ovini, tortore e piccioni, olio, vino, fior di farina, pani; alcuni di essi vanno arsi interamente in onore di Dio; di altri alcune parti vanno arse, altre possono essere mangiate con l’osservanza di certe speciali norme.
I sacrifici debbono servire anche a cementare l’unità del popolo, e per questo la Torà prescrive che quando esiste un santuario centrale i sacrifici vengano offerti solo in esso: il Tabernacolo nel deserto, e un luogo da destinarsi quando Israele possiederà la sua terra. Gli atti relativi ai sacrifici, siano essi presentati in nome di privati o di tutto il popolo, vanno compiuti dai sacerdoti (kohanìm) discendenti di Aharòn, fratello di Moshè, coadiuvati dai leviti, dai membri cioè della tribù a cui appartenevano Moshè e Aharòn. Allo scopo che i leviti, compresi naturalmente anche i sacerdoti, non fossero costretti, come i loro fratelli, a dedicare la maggior parte del loro tempo e delle loro attività alla coltivazione della terra, la Torà stabilisce che, dopo la conquista della terra di Kanà’an, non venga loro assegnato un territorio speciale, ma solo quarantotto città, sparse per tutto il paese, con una zona di terreno all’intorno, per abitarvi e che essi traggano il loro sostentamento specialmente da contributi loro dati in natura o in danaro, dal popolo; la Torà stabilisce la misura di questi contributi e le norme che ad essi si riferiscono. Ai sacerdoti la Torà stabilisce anche il diritto di godere di alcune parti dei sacrifici. Ad assicurare che il culto si svolga col dovuto decoro, la Torà determina quali abiti debbano indossare i sacerdoti quando compiono le loro funzioni. A dimostrare il carattere di particolare santità che i sacerdoti debbono avere, la Torà impone loro alcune restrizioni che non sono in vigore per il resto del popolo. Affinché poi tutti, sacerdoti e popolo, si comportino con grande riguardo verso i sacrifici e il luogo destinato al culto, la Torà vieta l’ingresso a questo e la partecipazione a quelli a chi si trovi affetto da certe malattie od imperfezioni, o a chi si trovi in certe condizioni speciali dette di impurità.
c) Divisione del paese
La Torà stabilisce che, conquistato il paese di Kanà’an, di cui essa determina i confini, esso venga diviso fra le tribù e le famiglie in proporzione al numero dei loro componenti. Da questa divisione sono naturalmente escluse le tribù di Ruben, di Gad e di parte di quella di Menashè che si erano stanziate nei paesi occupati ad oriente del Giordano. Inoltre, per la ragione già indicata, non è assegnato territorio alla tribù di Levì.
La Torà vuole evitare per quanto possibile il passaggio di proprietà da una tribù all’altra. Alla morte del proprietario il suo possesso viene diviso tra i suoi figli maschi; al primogenito spetta una parte doppia. In mancanza di figli maschi, l’eredità viene divisa tra le figlie; se non c’è discendenza il possesso passa al padre se vivente o ai fratelli o, in mancanza di questi, ai parenti più prossimi.
d) Norme morali e sociali
I rapporti fra uomo e uomo sono fondati, secondo la Torà, sul principio: «Ama per il tuo compagno quello che ami per te stesso». Sono vietate la menzogna e la frode, l’uso di pesi e di misure non esatte, l’omicidio, il furto. I bisognosi, specialmente gli orfani e le vedove, debbono essere aiutati con doni o con prestiti senza interesse. Trascorso l’anno sabbatico (vedi più avanti), è vietato al creditore esigere il pagamento del debito dal debitore bisognoso. È permesso prendere pegni a garanzia del pagamento dei debiti, ma il creditore non può prendere oggetti di prima necessità e, comunque, deve concedere al debitore l’uso di oggetti presi in pegno di cui questi abbia bisogno assoluto. Particolare rispetto è dovuto ai vecchi; chi è in pericolo o ha bisogno di aiuto deve essere soccorso, anche se è un nemico personale. Speciali diritti hanno i lavoratori mercenari e specialmente quello di percepire la mercede nel tempo convenuto. La Torà stabilisce norme speciali per l’indennizzo di danni arrecati, direttamente o indirettamente, ad altri o ai loro animali e, in genere, ai loro averi.
e) Norme sulla santità della famiglia
La Torà vieta l’adulterio e una quantità di matrimoni fra parenti, consanguinei ed affini; non vieta la poligamia, già praticata dai patriarchi, e ammette il divorzio. Essa considera irregolari le unioni non legittimate dal matrimonio, e pone alcune limitazioni ai rapporti fra i coniugi.
f) Schiavitù
La Torà non prescrive, ma ammette la schiavitù in due forme diverse, quella dello schiavo ebreo (’èved ‘ivrì) e quella dello schiavo cananeo (’èved kena’anì). Lo schiavo ebreo non è un vero e proprio schiavo nel senso che si dà generalmente alla parola, ma è un Ebreo che, trovandosi in ristrettezze finanziarie (il che avveniva specialmente se dopo aver venduto il suo possesso aveva consumato il denaro ricavato prima che giungesse l’anno del Giubileo; vedi più avanti) o per non essere in grado di pagare debiti contratti o indennizzi od obblighi impostigli dalla legge, entra spontaneamente o per decisione dell’autorità giudiziaria a servizio di altra persona. Questo servizio deve durare normalmente sei anni, e può essere, per desiderio dello schiavo, prolungato fino al prossimo Giubileo. Durante il periodo del servizio, lo schiavo è a completa disposizione del padrone, il quale ha l’obbligo di mantenere lui e la sua famiglia e non sottoporlo a lavori troppo duri. Per tutto il resto lo schiavo ebreo ha diritti e doveri pari a quelli di tutti gli altri Ebrei.
Lo schiavo cananeo è un prigioniero di guerra o persona che, essendo già in precedenza in condizione di schiavitù, viene acquistato da un Ebreo. Egli e i suoi discendenti non escono dalla condizione di schiavo se non nel caso che il padrone voglia liberarli, od essi stessi si riscattino con mezzi che abbiano a loro disposizione. Lo schiavo cananeo entra a far parte del popolo d’Israele, ne assume gran parte degli obblighi e ne acquista parte dei diritti. A differenza di quello che avveniva presso gli altri popoli antichi, la Torà attribuisce allo schiavo cananeo dignità umana: se il padrone lo ferisce gravemente, deve concedergli la libertà; se lo uccide è punito come ogni altro omicida.
g) Feste
Alcuni giorni dell’anno sono dalla Torà designati come specialmente consacrati a Dio, allo scopo di confermare il sentimento che tutto a Lui appartiene, di commemorare alcuni fatti nei quali è da vedersi in modo speciale l’azione divina sullo svolgersi di fatti umani, di segnare i momenti specialmente importanti dell’anno agricolo. La principale delle feste è il sabato, che cade nel settimo giorno di ogni settimana. In esso la Torà vieta tutti i lavori, siano essi eseguiti direttamente o a mezzo di schiavi o di animali, l’accensione del fuoco, la cottura e la preparazione degli alimenti. Il sabato è presentato nella Torà come uno dei segni distintivi d’Israele, fu comandato subito dopo il passaggio del Mar Rosso, prima ancora della promulgazione del Decalogo, ricorda la creazione del mondo e l’uscita dall’Egitto e serve a coltivare i sentimenti della sovranità di Dio sull’universo e dell’uguaglianza degli uomini.
In occasione di tre ricorrenze liete la Torà prescrive che tutti i maschi si rechino al santuario centrale. Esse (Shalòsh Regalìm – “le tre volte”) sono: la festa delle azzime (Chag Hamatzòt) che dura sette giorni, la festa delle settimane (Chag Hashavu’òt) di un giorno, la festa delle capanne (Chag Hasukkòt) di sette giorni, più un ottavo di chiusura. Per ciascuna di queste feste la Torà prescrive speciali sacrifici, l’astensione dal lavoro, salvo quello che occorre per la preparazione dei cibi, limitata però al primo e all’ultimo giorno di quelle che durano più di un giorno. La festa delle azzime, che comincia la sera che segue il 14 di nisàn, e dura fino alla sera che segue il 21 dello stesso mese, segna la stagione dell’inizio della maturazione dei cereali, e ricorda l’uscita dall’Egitto; in essa la Torà vieta l’uso di cibi fermentati e prescrive l’uso di pane azzimo in luogo del pane comune. Per il pomeriggio della sua vigilia, prescrive un particolare sacrificio (korbàn Pèsach), consistente in un agnello o capretto da consumarsi in casa nelle prime ore della festa, in ricordo dell’animale che sacrificarono i figli d’Israele nel giorno precedente a quello dell’uscita dall’Egitto, e col sangue del quale segnarono le porte delle loro case. A chi in causa di impurità non possa celebrare il sacrificio nel giorno fissato, la Torà prescrive di celebrarlo un mese dopo, il 14 di iyàr.
La festa delle settimane, sette settimane dopo quella di Pesàch, detta anche Yom Habikkurìm (giorno delle primizie), segna la stagione della maturazione del frumento. La Torà prescrive, fra l’altro, che in quel giorno vengano nel Santuario offerti pani fatti con grano dell’anno nuovo.
La festa delle capanne, il 15 tishrì, detta anche Chag Haasìf, festa della raccolta, ricorda la dimora dei figli d’Israele nel deserto e segna la stagione in cui termina la raccolta dei principali prodotti agricoli. La Torà prescrive che in essa si dimori in capanne, anziché nelle abitazioni abituali, e che si prenda un ramo di palma (lulàv), un frutto di bell’aspetto (secondo la tradizione, frutto di cedro, etròg), e rami di salice (‘aravà) e di mirto (hadàs).
Una ricorrenza che la Torà chiama Yom Teru’à, giorno di suono, e Zikhròn Teru’à, ricordo del suono, e della quale non determina il carattere speciale, cade il 1 di tishrì e in essa la Torà vieta i lavori come nelle ricorrenze liete. Un giorno dell’anno, il 10 di tishrì, detto Yom Hakippurìm, giorno dell’espiazione, è destinato alla penitenza. Per esso la Torà prescrive digiuno ed astensione del lavoro come nel sabato, dalla sera del 9 alla sera del 10.
La Torà prescrive pure che sia segnalato con uno speciale sacrificio ogni giorno di novilunio (Rosh Chòdesh).
h) Anno sabbatico e Giubileo
Per ogni anno che chiude un periodo settennale (shenàt hashemittà) la Torà prescrive che la terra riposi, che cioè non si compia in esso alcuno dei lavori agricoli principali, e che i prodotti che nascono in detto anno siano da considerarsi possesso comune di tutti, e non appartenenti al proprietario del terreno. Alla fine di ogni periodo di cinquanta anni, cade l’anno del Yovèl (Giubileo). In esso tutti gli schiavi ebrei devono riacquistare la libertà, e ogni terreno che il proprietario abbia in precedenza venduto deve ritornare a lui o ai suoi eredi senza che si debba sborsare alcuna somma. La Torà stabilisce pure che, nell’intervallo di tempo fra la vendita e il Giubileo, il proprietario primitivo o altra persona per conto di questo, abbia il diritto di riavere il terreno, sborsando la parte del prezzo di acquisto proporzionale agli anni che mancano per giungere al Giubileo. In sostanza, non è ammessa vera e propria vendita di terreni, ma solo affitto fino all’anno del Giubileo, con diritto da parte del proprietario di annullare il contratto di affitto quando voglia. Due sono i motivi per tali prescrizioni: uno è che non venga definitivamente privato del suo possesso chi, trovandosi in bisogno, è costretto a trasformare in denaro il terreno che egli possiede; l’altro è che si tenga sempre presente che l’unico vero possessore della terra è Dio, che la concede in uso agli uomini, sotto determinate condizioni. Conseguenza di queste disposizioni è che non si formino grandi proprietà in mano dei ricchi, con il corrispondente impoverimento dei piccoli proprietari.
i) Norme relative ai cibi
Fra le prescrizioni della Torà che hanno lo scopo di santificare la vita e di distinguere Israele dagli altri popoli occupano un posto particolarmente importante quelle relative ai cibi. Rigorosamente vietato è il cibarsi di sangue, di carne con sangue, di membra staccate da animali vivi. Non tutti gli animali sono permessi per l’alimentazione. Dei quadrupedi sono vietati tutti quelli nei quali non concorrano le condizioni di essere ruminanti e di avere il piede a forma di zoccolo biforcuto. Così, fra gli animali più comuni, sono permessi i bovini e gli ovini, vietati i suini e gli equini, la lepre, il coniglio. Degli animali acquatici sono vietati tutti quelli che non hanno pinne e squame; dei volatili, i rapaci ed alcune specie particolarmente indicate. Tutte le altre specie di animali, ad eccezione di alcune cavallette, sono parimenti vietate. Speciali norme sono prescritte per la macellazione dei quadrupedi e dei volatili permessi. La Torà stabilisce pure il principio del divieto di mescolanza di carne e latte e vieta l’uso per l’alimentazione di animali affetti da gravi malattie o imperfezioni.
l) Leggi relative al terreno
Oltre alla legge dell’anno sabbatico di cui abbiamo parlato sopra, la Torà dà altre norme relative al terreno e ai suoi prodotti, e queste hanno lo scopo principale di accentuare il carattere sacro che ha la terra. Fra l’altro la Torà vieta la semina promiscua di certe specie, l’uso dei frutti di albero nei primi anni dopo la piantagione, e prescrive che vengano prelevate dai prodotti parti da darsi ai sacerdoti e ai leviti, e che altre parti debbano essere godute nel luogo dove ha sede il Santuario. Altre norme, fra cui quella di lasciare non mietuta una parte del campo, hanno lo scopo di sostenere i poveri, che non hanno terreno proprio: la parte non mietuta è a loro disposizione.
m) Consacrazione dei primogeniti
Subito dopo l’uscita dall’Egitto, e prima ancora della promulgazione del Decalogo, la Torà stabilisce il principio che, in ricordo dell’ultima delle punizioni inflitte agli Egiziani, consistente nella morte dei loro primogeniti, tutti i primogeniti di Israele, sia uomini che quadrupedi ammessi ad essere sacrificati, sia animali normalmente usati in antico per il trasporto (asini) vengano consacrati a Dio. La consacrazione dei primogeniti umani consisteva in origine nel fatto che essi fungevano come addetti al culto. Dopo che, in seguito alla colpa dell’adorazione del vitello d’oro, di cui non si macchiarono i leviti, questi soli furono destinati al culto, la Torà prescrive che ogni primogenito maschio di madre vada riscattato con una somma di danaro da darsi ad un sacerdote. I primogeniti di animali bovini e ovini vanno dati ad un sacerdote, al quale è permesso mangiarli; ma non farli lavorare o goderne in altro modo; i primogeniti di bestie da soma vanno riscattati per mezzo di animale ovino da consegnarsi a un sacerdote, che se ne può servire come di ogni primogenito ovino.
n) Segni materiali a ricordo della Torà.
Oltre al rito della circoncisione, imposto ad Avrahàm ed alla sua discendenza e confermato poi nella Torà, e che è segno materiale dell’appartenenza ad Israele, allo scopo che l’Ebreo, in tutti i momenti della sua vita, anche quando non sta compiendo alcun precetto, abbia presente che egli è sottoposto alla disciplina della Torà, questa prescrive l’uso di alcuni segni materiali. Essi sono: un segnale sul braccio e uno sulla fronte, uno sullo stipite (mezuzà) delle porte, e fiocchi (tzitziyòt) agli angoli dei vestiti. I primi due sopra indicati, designati oggi col nome di tefillìn, furono prescritti prima ancora della promulgazione del Decalogo, subito dopo l’uscita dall’Egitto, in ricordo anche di questa.
o) Pene
La Torà stabilisce, per i trasgressori alle norme da essa stabilite, pene divine e umane. Tra le prime sono da ricordare: la morte prematura, la mancanza di discendenza, e la pena di essere reciso da in mezzo al popolo, detta karèt, che non è chiaro in che cosa consista. Pene umane, stabilite da tribunali, in seguito a deposizioni di non meno di due testimoni, sono: la condanna a morte, la flagellazione, multe in denaro. La prima è stabilita per le colpe più gravi, come omicidio volontario, adulterio, incesto, profanazione del sabato, percossa o vilipendio dei genitori.
La flagellazione, consistente in un numero di percosse che non può in nessun caso superare le quaranta, viene applicata a trasgressioni di minore gravità, che la Torà non indica in modo particolare.
Il furto è punito col pagamento del doppio, quadruplo o quintuplo, a seconda dei casi, del valore della refurtiva. Colpe commesse involontariamente vengono, in certi casi, espiate con sacrifici. L’omicida involontario deve abbandonare il luogo di sua residenza e non uscire, per un certo tempo, da una delle città di rifugio (‘arè hamiklàt) a ciò destinate, a cui egli è ammesso dopo che il tribunale abbia constatato che l’omicidio era involontario. Le città di rifugio sono sei fra le quarantotto assegnate ai leviti. In caso di omicidio, che il tribunale abbia constatato essere stato volontario, l’esecuzione può essere compiuta da un parente dell’ucciso (goèl hadàm) se egli lo desidera.
La detenzione in carcere non è, secondo la Torà, una pena; vengono talvolta posti sotto custodia colpevoli in attesa della sentenza.
p) Rapporti cogli stranieri: Guerre
Gli stranieri residenti in terra d’Israele hanno diritti e doveri pari ai figli d’Israele. Non sono però vincolati alle leggi che mirano a distinguere Israele dagli altri popoli, e quindi sono esenti da alcune delle norme relative ai cibi. Essi sono soggetti a tutte quelle norme che, secondo la Torà stessa, sono obbligatorie per tutti gli uomini, in quanto discendenti da Nòach scampato al diluvio (Benè Nòach). Tali sono, ad esempio: i divieti di omicidio, furto o incesto, e l’obbligo di dirimere per mezzo di tribunali le controversie fra uomini. Non avendo territorio proprio, gli stranieri hanno diritto ad assistenza come tutti i bisognosi, e possono essere assunti come lavoratori mercenari.
La Torà mira a rapporti pacifici fra Israele e gli altri popoli. Soltanto gli antichi abitatori del paese di Kanà’an, che la Torà rappresenta come dediti ad ogni sorta di immoralità, sono per questo destinati alla distruzione in occasione della conquista. In caso di contestazioni con altri popoli, è dovere, secondo la Torà, cercare di dirimerle in via pacifica; se questo non è possibile e non si può evitare la guerra, scopo di questa non deve essere annientare il nemico, ma sottometterlo; in nessun caso vanno uccisi i non combattenti, come donne e bambini. Sono obbligatorie le guerre per la conquista e la difesa del paese; permesse quelle necessarie per la vita del popolo. Di altre specie di guerre non parla la Torà, e implicitamente le vieta.
Gli ammonimenti della Torà
Oltre a dare le sue norme, la Torà ammonisce spesso il popolo d’Israele ad osservarle, annunziandogli che solo uniformandosi ad esse potrà vivere tranquillo e prosperare nella sua terra. Se invece le trasgredisce, il popolo sarà severamente punito da Dio, e la più grave delle punizioni consisterà nell’essere espulso dalla sua terra, dover andare ramingo tra le altre nazioni, dove, soggetto a popoli stranieri, avrà molto da soffrire, e non potrà, neppure volendo, osservare interamente quella Torà che egli aveva trasgredito quando era libero di osservarla. Dio però non permetterà che il Suo popolo venga annientato, e, se nell’esilio si mostrerà pentito e fedele a Dio, Egli lo raccoglierà un giorno da in mezzo ai popoli e lo farà ritornare al suo paese.
La Torà e le leggi dei popoli dell’antico Oriente
La Torà contiene molte disposizioni che presentano delle analogie con quelle, a noi conosciute, che vigevano presso antichi popoli orientali coi quali i patriarchi e i loro immediati discendenti furono in rapporto, come Assiri, Babilonesi, Egiziani, Hittiti. Ciò è naturale perché prima che fosse stata data la Torà, i nostri padri adottarono consuetudini e leggi dei popoli in mezzo ai quali vissero, e la Torà tenne conto di queste e, a seconda dei casi, le confermò, le modificò, le abrogò o le dichiarò tali da non dovere essere seguite.
In genere le disposizioni della Torà, per quello che riguarda i rapporti fra uomini, si distinguono da quelle di altre leggi antiche per un più vivo fondamento morale delle disposizioni, per una maggiore mitezza delle pene, per la tendenza a migliorare le condizioni delle donne, degli schiavi e degli stranieri, a diminuire per quanto possibile, le differenze fra uomo e uomo, per un addolcimento delle consuetudini che vigevano in caso di guerra.