Capitolo 3 – Costituzione e prime conquiste del popolo d’Israele
Le fonti
I figli d’Israele al momento dell’uscita dall’Egitto
Viaggio dall’Egitto al Sinài
Promulgazione del decalogo
Il viaggio fino al paese di Moàv
Prime conquiste e i primi stanziamenti di tribù israelitiche: a) Occupazione di territori degli Emorei; b) Tentativo dei Moabiti di impedire l’avanzata di Israele
Gli ultimi giorni e la morte di Moshè
Le fonti
Le notizie contenute in questo capitolo si desumono dal racconto della Torà, specialmente dai libri dell’Esodo, di Bemidbàr (Numeri) e di Devarìm (Deuteronomio).
I figli d’Israele al momento dell’uscita dall’Egitto
Fin dalle origini del popolo la storia d’Israele è profondamente diversa da quella degli altri popoli: i più antichi avvenimenti sono come il simbolo di quelli che si verificheranno in seguito: questo hanno riconosciuto i nostri antichi Maestri affermando che «i fatti dei padri sono segno dei fatti dei figli».
II popolo d’Israele nasce in terra di esilio e di schiavitù, in Egitto: entratovi come famiglia o come piccolo raggruppamento di tribù, ne esce come popolo numeroso e compatto: così, fin dai primordi della sua esistenza, Israele acquistò la capacità di vivere a lungo in esilio, cosa che non avvenne ad alcun altro popolo. I figli d’Israele continuarono la tradizione dei patriarchi e, differenziandosi nettamente dagli Egiziani, adoravano un solo Dio. In Egitto si manifestarono talvolta delle tendenze ad adorare un solo Dio, ma comunque questo era creduto Dio speciale degli Egiziani che, al pari degli altri popoli, pensavano che ognuno di questi avesse il proprio Dio o i propri dèi e che quindi ci fossero per lo meno tanti dèi quanti sono i popoli. I discendenti dei patriarchi invece sentivano che il loro Dio, cioè la divinità che essi adoravano, era in realtà Dio di tutto il mondo, per quanto Egli non fosse riconosciuto da altri che da loro. Questi loro sentimenti furono loro instillati in modo particolare da Moshè, che annunziò loro la liberazione dalla schiavitù in nome della divinità che avevano adorato i patriarchi, riconoscendo in esso l’unico Dio. Moshè comunicò al popolo il nome di questo, che noi non pronunciamo e che è formato dalle lettere ebraiche yod, he, vav, he (Y, H, V, H). Così avvenne che i nostri padri non parteciparono al culto che gli Egiziani prestavano ai loro dèi. Nell’antichità il culto e la religione facevano una cosa sola con la nazionalità, e così nonostante il lungo soggiorno in Egitto, i nostri padri furono sempre considerati e si considerarono essi stessi stranieri, e conservarono la lingua e i costumi dei patriarchi; ma, appunto perché sentivano di essere in terra straniera, non offrirono a Dio sacrifici, fino alla vigilia del giorno dell’uscita, imitando anche in questo i patriarchi che solo nella terra di Kanà’an, destinata a diventare terra d’Israele, eressero altari e presentarono offerte a Dio. E anche un’altra ragione li indusse a questo: gli Egiziani consideravano come sacri gli animali che i patriarchi solevano immolare, e quindi si sarebbero opposti a che essi venissero offerti a una divinità per loro straniera, e, secondo le loro idee, nemica delle divinità che essi adoravano. L’Egitto era, ai tempi in cui vi si trovarono gli Ebrei, un paese molto civile nel quale erano coltivate le arti e le scienze. Non vi è dubbio che Moshè che, come sappiamo, visse molti anni nella corte del Faraone, non rimase estraneo alla civiltà d’Egitto, e è probabile che anche fra il popolo ci furono di quelli che ne approfittarono. Così i nostri padri, senza assimilarsi agli Egiziani, fecero proprio quello che di buono aveva la loro civiltà, come avevano fatto i patriarchi a contatto della civiltà della Mesopotamia e della terra di Kanà’an.
I figli d’Israele, quando uscirono dall’Egitto, non solo sentivano che non andavano in esilio, ma che ne uscivano; essi sapevano anche quale era il loro paese per quanto né essi né i loro antenati per parecchie generazioni lo avessero abitato e neppure lo avessero visto: esso era la terra di Kanà’an che dall’insegnamento dei padri e specialmente di Moshè, avevano appreso essere il paese che Dio aveva loro destinato. E così, mentre in genere nell’antichità le tribù destinate a diventare popolo, quando abbandonavano la vita di nomadi, si stanziavano nel paese dove si trovavano per combinazione o in uno qualunque che fosse loro riuscito di conquistare, i nostri padri, dopo aver cessato da secoli di essere nomadi, aspiravano a stanziarsi in un paese determinato, che già consideravano come il loro paese, e non pensarono mai che un’altra terra potesse essere la loro sede. Per questo, prima ancora che i nostri padri possedessero una terra propria, il popolo d’Israele si sentì legato a un determinato paese e questo legame non cessò mai, anche quando di nuovo il popolo, o la quasi totalità di esso fu obbligato a vivere altrove. I figli d’Israele, pur avendo la coscienza di appartenere a tribù diverse, uscirono dall’Egitto sentendosi membri di un unico popolo che si avviava compatto ad occupare il proprio paese.
Viaggio dall’Egitto al Sinài
Usciti dall’Egitto diretti al paese di Kanà’an, i figli d’Israele non seguirono la via più breve, quella cioè della costa mediterranea, che presentava vari pericoli, perché occupata da popolazioni forti e molto sorvegliata dagli Egiziani, ma invece si diressero a sud, attraverso paesi deserti, verso una regione occupata da acque, che la Torà designa come Yam Suf (Mare del giunco o dell’alga) che si identifica generalmente col ramo del Mar Rosso che si trova ad occidente della penisola del Sinài. Giunti alla riva di questo, i figli d’Israele furono vivamente preoccupati sul modo di attraversarlo, tanto più che frattanto un potente esercito egiziano si era mosso al loro inseguimento. Moshè incoraggiò il popolo rassicurandolo, in nome di Dio, che sarebbe giunto sano e salvo all’altra riva, e così avvenne: essi, così narra la Torà, lo attraversarono per una via apertasi tra le sue acque; gli inseguitori cercarono di fare altrettanto, ma furono sommersi dalle acque che ripresero la loro posizione abituale. Il popolo riconobbe in questo un miracolo di Dio (divisione del Mar Rosso, keri‘àt Yam Suf) e, guidato da Moshè e da sua sorella Miriàm, intonò un inno di ringraziamento a Dio (Shiràt Hayàm) che è conservato nella Torà.
Non è possibile determinare con precisione il punto nel quale avvenne il passaggio. Alcuni ritengono si tratti di una delle paludi di acqua salmastra a nord di Suez, che forse anticamente comunicava con il Mar Rosso ed era considerata come parte di questo.
Ripresa la via attraverso il deserto, il popolo ebbe a soffrire per mancanza di acqua e di cibo, tanto che alcuni si rammaricarono perfino di essere usciti dall’Egitto ed espressero il desiderio di ritornarvi. Moshè riuscì a calmare il popolo, a persuaderlo che Dio non lo avrebbe abbandonato; si trovarono fonti d’acqua, scesero sull’accampamento delle quaglie, si trovò sul terreno una sostanza commestibile (manna – man) e il popolo riconobbe, in tutto questo, segni prodigiosi della Provvidenza divina che, così narra la Torà, guidò il popolo di giorno con una nube e di notte con una colonna di fuoco. Per quel che riguarda la manna, il popolo riconobbe che essa scendeva per volere di Dio specialmente dal fatto che essa si trovava tutti i giorni ad eccezione che nel sabato, giorno che Moshè aveva, in nome di Dio, dichiarato giorno sacro di riposo, in cui era vietato uscire per raccogliere la manna che, comunque, non si sarebbe trovata.
Poco dopo il passaggio del Mar Rosso, i figli d’Israele furono assaliti a tradimento dagli Amaleciti, tribù che abitava nei pressi della penisola del Sinài. Gli Ebrei incoraggiati da Moshè che teneva le braccia alzate in segno di preghiera a Dio e guidati da Yehoshùa’ (Giosuè) suo discepolo e aiutante, sconfissero il nemico. Al popolo venne ordinato di distruggere gli Amaleciti una volta conquistata la propria terra.
Promulgazione del Decalogo
Per essere popolo nel senso più pieno della parola mancava ancora ad Israele una legislazione. Le basi di questa furono poste alle falde del monte Sinài, nei pressi del luogo dove Moshè aveva avuto la sua prima visione, e al quale di conseguenza si attribuiva un particolare carattere di santità. Quale sia esattamente il monte che la Torà designa come Sinài o come Chòrev non si può dire; certamente si trova nella penisola del Sinài.
Il popolo d’Israele sentì che le basi della sua legislazione non avevano origine umana, ma furono stabilite direttamente da Dio. Moshè propose al popolo, ripetendogli le parole che egli sentiva essergli state dette da Dio stesso, di stabilire con Questo un patto: impegnandosi all’osservanza delle leggi che Egli avrebbe dato, Israele sarebbe divenuto un popolo distinto dagli altri, a lui Dio stesso avrebbe conferito dignità di sacerdote affidandogli l’incarico di essere guida morale e spirituale di tutte le genti dell’universo. Israele unanime accettò e, dopo alcuni giorni di preparazione nei quali si uniformò alle istruzioni che Moshè gli aveva dato in nome di Dio, e dopo che Moshè, sentitosi chiamare da una voce che riconobbe come divina, salì sul monte, avvennero dei fenomeni straordinari. Si udirono potentissimi tuoni e voce di shofàr eccezionalmente forte, si videro lampi che si succedevano a brevi intervalli, e finalmente si udì una voce, nella quale il popolo intero, assembrato ai piedi del Sinài, riconobbe, senz’ombra di dubbio, la voce divina. Chi parlava si manifestava come Dio che aveva prodigiosamente liberato Israele dalla schiavitù egiziana, che imponeva di considerare Lui solo divinità e vietava di adorarlo sotto forma di figure di esseri esistenti al mondo; vietava di pronunciare il Suo nome senza necessità e specialmente per confermare asserzioni false, imponeva il riposo settimanale nel giorno di sabato, il rispetto ai genitori, alla vita umana, alla santità della famiglia, alla libertà e alla proprietà del prossimo, proibiva la testimonianza falsa e azioni mosse dal desiderio di impossessarsi di ciò che appartiene ad altri. Questi comandi sono contenuti in dieci espressioni che si designarono complessivamente col nome di Decalogo (’Asèret Hadevarìm, o ’Asèret Hadibberòt) o Dieci comandamenti. Il Decalogo venne promulgato cinquanta giorni dopo l’uscita dall’Egitto.
Con l’accettazione da parte degli Ebrei usciti dall’Egitto del patto proposto, come detto sopra, da Moshè in nome di Dio, è definitivamente costituito il popolo d’Israele: appartengono ad esso tutti coloro che accettarono il patto, i loro discendenti e tutti coloro che da allora in poi vogliono entrare a far parte di questo popolo impegnandosi ad osservarne le leggi. Il complesso di queste, comunicate in seguito da Moshè al popolo, costituisce la legislazione della Torà, e il popolo d’Israele è il popolo della Torà, è formato cioè da tutti coloro che sono obbligati all’osservanza delle norme di questa. Alla condizione dell’osservanza della Torà diventa, da questo momento, subordinato il diritto di Israele a possedere la sua terra, e la Torà insiste ripetutamente sul concetto che Dio. sovrano dell’universo, che ha concesso ad Israele il suo paese perché in esso adempia ai doveri derivanti dal patto che ha stipulato con Dio, scaccerà da esso il popolo se questo non adempirà per parte sua agli obblighi assunti. Così viene a stabilirsi il triplice legame: Israele, terra d’Israele, Torà: la vita d’Israele è normale soltanto quando esso vive nella sua terra e in essa osserva la Torà.
Il viaggio fino al paese di Moàv
Conosciute le basi della sua legislazione, Israele, sotto la guida di Moshè, riprese il suo cammino attraverso i deserti diretto al paese di Kanà’an. Il viaggio durò molto a lungo. Secondo quanto ci narra la Torà, la durata straordinaria del viaggio, quarant’anni, fu in punizione per il comportamento non sempre fedele a Dio del popolo o di una notevole parte di esso. La Torà ci ricorda alcune di queste colpe, oltre al ripetersi di ammutinamenti quando scarseggiavano l’acqua ed il cibo, per quanto la manna continuasse a scendere e siano tornate a comparire le quaglie. Mentre Moshè si trovava sul monte Sinài, subito dopo la promulgazione del Decalogo, una notevole parte del popolo si diede all’adorazione di un vitello d’oro. Altra volta, la maggior parte degli esploratori che furono mandati nel paese di Kanà’an con l’incarico di riferire quel che avevano visto, decantarono sì la fertilità del paese, ma ne rappresentarono gli abitanti così forti e agguerriti da renderne impossibile la conquista: la conseguenza fu che una parte del popolo propose di tornare in Egitto, mostrando così di non prestare fede alle promesse divine; allora Moshè comunicò, in nome di Dio, che come punizione, tutti coloro che erano già adulti al momento dell’uscita dall’Egitto sarebbero periti nel deserto e non avrebbero raggiunto la terra promessa, a eccezione dei due esploratori, Yehoshùa’ e Kalèv, che si erano opposti alle dichiarazioni dei loro colleghi. Neppure Moshè e suo fratello Aharòn vennero esentati, in conseguenza di una grave colpa da loro commessa, e che dalle parole della Torà non risulta chiaramente quale essa fosse. Un gruppo di Ebrei che, allo scopo di sfuggire alla punizione che li escludeva dal numero di coloro che sarebbero entrati nella terra di Kanà’an, si mossero per provvedere per proprio conto alla conquista, separandosi dal resto del popolo, fu annientato dalle popolazioni delle quali attraversavano il territorio. I membri di una congiura contro Moshè ed Aharòn (Kòrach e seguaci) morirono tutti e il popolo vide nella loro morte una punizione divina.
Nei primi tempi dopo la promulgazione del Decalogo venne eretto un santuario portatile, detto Tabernacolo (Òhel mo‘èd o Mishkàn). Esso si trovava nel centro dell’accampamento, accompagnava il popolo nei suoi movimenti, e in esso venivano offerti sacrifici. Il principale dei suoi arredi era l’Arca (Aròn) nel quale si conservavano le tavole di pietra su cui era scritto il Decalogo.
Durante le peregrinazioni nel deserto, che ebbero termine nel paese di Moàv, a oriente del Mar Morto e del Giordano, Moshè comunicò al popolo le varie leggi che in conseguenza dei principi fissati dal Decalogo, dovevano regolare la vita individuale e sociale dei figli d’Israele nella sua terra e, parzialmente anche durante la traversata del deserto. In questo morirono Miriàm ed Aharòn; la morte di quest’ultimo avvenne il 1° di av del quarantesimo anno dell’uscita dall’Egitto.
Le prime conquiste e i primi stanziamenti dì tribù israelitiche
a) Occupazione di territori degli Emorei
I figli d’Israele erano diretti al paese ad occidente del Giordano e, secondo il loro progetto primitivo, non pensavano a conquistare paesi ad oriente del fiume. Non avendo ottenuto dagli Idumei, che abitavano a sud del Mar Morto il permesso di passare per il loro paese, lo aggirarono e, vinta una popolazione cananaica che li assalì, si diressero verso i territori ad oriente del Mar Morto e del Giordano. Gli Emorei, a cui pure si rivolsero gli Israeliti per ottenere il permesso di passare sul loro territorio, non solo lo negarono, ma si opposero con le armi al loro passaggio. Si venne a guerra; gli Ebrei vinsero e conquistarono il territorio dei paesi su cui regnavano Sichòn e ’Og, nella parte settentrionale della sponda orientale del Mar Morto e lungo la sponda orientale del Giordano, tra questo mare e il lago di Genezaret. In questi paesi, Gil’àd, Golàn e Bashàn, si stanziarono gli appartenenti alle tribù di Reuvèn e di Gad e di una parte di quella di Menashè, dopo che essi ebbero promesso che i loro maschi adulti avrebbero combattuto insieme coi loro fratelli delle altre tribù, per la conquista del paese ad occidente del Giordano.
b) Tentativo dei Moabiti di impedire l’avanzata d’Israele.
I Moabiti, che vennero ad essere confinanti del territorio che fu così occupato dagli Israeliti, furono preoccupati delle loro conquiste, ma non osarono muovere guerra contro di loro, e il loro re Balàk si limitò ad incaricare un famoso indovino, Bil’àm, di maledirli; ma egli non riuscì nel suo intento: la Torà narra che Dio lo costrinse a benedire, anziché maledire, Israele. Un tentativo fatto dai Midianiti, alleati a quanto pare dei Moabiti, di annientare Israele cercando di attirarlo al loro culto immorale, riuscì parzialmente in un primo tempo, ma poi gli Israeliti rimasti fedeli a Dio, seguendo l’esempio di Pinechàs, nipote di Aharòn, mossero contro i Midianiti, ne fecero strage, presero molto bottino e ridussero in condizione di schiavi i loro bambini di ambo i sessi.
Gli ultimi giorni e la morte di Moshè
Moshè, che già aveva sentito l’annunzio divino che non avrebbe condotto i figli d’Israele nel paese di Kanà’an, ma sarebbe morto ad oriente del Giordano, impiegò gli ultimi giorni della sua vita, a partire dal 1° di shevàt del quarantesimo anno dall’uscita dall’Egitto, a rivolgere al popolo dei discorsi nei quali rammentò loro i principali avvenimenti che seguirono l’uscita dall’Egitto per trarne occasione di ammonimento; ripete, con qualche aggiunta e spiegazione, i Dieci Comandamenti e le principali leggi; ricordò loro che, giunti nel paese di Kanà’an, sarebbe dipeso dalla loro condotta il rimanervi per sempre o l’esserne espulsi, e in un componimento poetico (Haazìnu) tratteggiò in stile profetico il passato e l’avvenire di Israele.
Alla fine pronunciò parole di benedizione e di ammonimento alle singole tribù e a tutto Israele, e poi morì. La sua morte avvenne, secondo la tradizione, il 7 di adàr. Fu sepolto a oriente del Giordano, ma nessuno conobbe mai in modo preciso il luogo del suo sepolcro.
La Torà si chiude con l’affermazione che nessun profeta è pari a lui “che Iddio conobbe faccia a faccia” e per mezzo del quale compì tanti prodigi alla vista degli Egiziani e di tutto il popolo d’Israele.