Capitolo 29 – La vita spirituale e la letteratura
La vita secondo la Torà: a) L’insegnamento dei Maestri; b) La vita dei Maestri e del popolo; c) Vita delle Comunità e amministrazione della giustizia
La letteratura rabbinica: a) Trasmissione dell’insegnamento dei Maestri; b) La Mishnà; c) Le Baraitòt d) La Aggadà dei Tannaìm; e) Le yeshivòt di Èretz Israèl e il Talmud palestinese; f) Traduzione aramaica dei libri sacri
Letteratura apocalittica
Polemiche coi Cristiani
La vita secondo la Torà
a) L’insegnamento dei Maestri
Nei primi secoli dopo la distruzione del Tempio continuarono per qualche tempo le controversie tra Farisei e Sadducei riguardanti alcuni particolari dottrinali o pratici, ma quasi non si ha più traccia fra Ebrei di tendenze che per principio mirino all’assimilazione o a sistemi di vita non conformi alla Torà. I Farisei finirono per prevalere e il Farisaismo venne ad identificarsi con l’Ebraismo. I Maestri Farisei, continuatori di quelli che agirono nelle generazioni precedenti, insegnavano che tutte le azioni dell’Ebreo, anche quelle che appaiono senza importanza, sono sotto la disciplina della Torà, che si propone di santificare la vita e di distinguere Israele dagli altri popoli: di conseguenza stabilirono una grande quantità di norme relative sia ai rapporti dell’Ebreo con Dio, sia a quelli con gli uomini: le norme chiaramente indicate nella Torà scritta furono interpretate e integrate per mezzo della Legge orale che i Maestri insegnarono cercando di dimostrare, in modo comprensibile e accettabile dal popolo a cui si rivolgevano, essere implicitamente contenuta nella Legge scritta. Secondo la loro dottrina, l’osservanza e l’inosservanza delle norme prescritte hanno per conseguenza premio o punizione divini nella vita terrena e in quella futura. Il complesso degli insegnamenti che mirano a regolare i singoli atti della vita viene designato col nome di Halakhà (modo di andare). Su questa discutevano i Maestri, e spesso i singoli dotti e le varie loro scuole erano in controversia: le decisioni di maggiore importanza venivano prese secondo l’idea della maggioranza o secondo le decisioni del Sinedrio o del Nasì e queste diventavano obbligatorie per tutti; per alcuni particolari rimasero usi diversi, riconosciuti tutti legittimi. I Maestri non si limitarono a dare norme particolari, ma cercarono anche di inculcare i principi su cui si fonda l’insegnamento della Torà, sia in forma astratta, sia illustrando i racconti biblici: questa parte del loro insegnamento si chiama Aggadà (racconto) e contiene pure molti aneddoti sulla storia d’Israele, non registrata nei libri sacri. Anche in questa parte i Maestri hanno spesso opinioni diverse, che non sono mai in contrasto per quel che concerne i principi fondamentali; ma, per quello che la riguarda, com’è naturale, non si viene ad alcuna decisione. Fra i dotti che vissero nel II secolo è ricordato come professante principi non conformi alla Torà Elishà’ ben Avuyà, che fu tra i Maestri di R. Meìr: quali fossero le sue idee non sappiamo.
b) La vita dei Maestri e del popolo
Non occorre dire che i Maestri furono, nella loro vita, esatti esecutori di quello che insegnavano e servirono di esempio e di modello al popolo. Questo, nella sua quasi totalità, li circondava di grande stima ed onore e cercava di seguirne gli insegnamenti: la vita è, quindi in genere, secondo i dettami della Torà interpretata dai Maestri.
Nell’epoca in cui trattiamo divenne comune la recita quotidiana delle tefìllòt in pubblico ed in privato, la rigorosa osservanza dello shabbàt, delle feste e delle leggi alimentari ed agricole, l’uso dei tefillìn, dello tzitzìt e della mezuzà, i riti funebri; e la popolazione si attenne in genere alle disposizioni che i Maestri andavano emanando di quando in quando. Particolarmente rispettata era la purità della famiglia e del matrimonio; la poligamia, per quanto ammessa, era assai rara; numerose disposizioni furono prese a tutela dei diritti della donna, particolarmente delle vedove, e così pure degli orfani. Vennero pure regolati i rapporti commerciali, quelli fra datori di lavoro e lavoratori, basati tutti su principi di giustizia e di uguaglianza, con particolare riguardo ai diritti dei più deboli, fra i quali anche i non Ebrei residenti in terra d’Israele (gherìm). In certi casi le disposizioni rabbiniche furono influenzate dal diritto romano. Non erano rari i casi di proselitismo, mai dovuti a coazione o pressione: l’accettazione in seno all’Ebraismo di elementi estranei per nascita avveniva dopo accurate ricerche sulle vere intenzioni del proselito e in seguito a certi atti, fra cui, per i maschi, la circoncisione e per tutti il bagno (tevilà). Il convertito diveniva in tutto uguale all’Ebreo di nascita, salvo qualche piccola restrizione per il matrimonio coi kohanìm. A questi, come pure ai leviti, venivano date, anche dopo la distruzione del Tempio, le offerte a loro dovute, ed i kohanìm continuarono ad osservare le restrizioni speciali a loro imposte. Alcuni si imponevano particolari rigori, e fra questi sono in modo speciale da ricordare gli appartenenti al gruppo dei chaverìm che, quando esisteva il Tempio, osservavano anche per i cibi comuni le norme di purità prescritte per i sacrifici, e che continuarono ad attenersi ad esse anche dopo la distruzione del Tempio. Gli Ebrei di Èretz Israèl nel tempo di cui stiamo trattando usavano sia la lingua ebraica che quella aramaica, che avevano appresa fino dai tempi dell’esilio babilonese.
c) Vita delle Comunità e amministrazione della giustizia
Ogni raggruppamento ebraico formato da non meno di dieci maschi adulti costituiva una comunità. A capo di questa stavano i Maestri e altre persone ragguardevoli. Nei luoghi dove gli Ebrei costituivano la totalità o la grande maggioranza della popolazione essi regolavano tutte le manifestazioni della vita locale, negli altri luoghi provvedevano ai bisogni speciali degli Ebrei, e, dove questi abitavano, come per lo più avveniva, un quartiere speciale, a tutti i bisogni generali di questo. Tra i compiti principali loro affidati sono da ricordare la distribuzione dei soccorsi ai bisognosi e l’amministrazione della giustizia. Questa ultima era legalmente limitata dal governo romano, che la riconosceva solo in alcuni campi; ma nella pratica, dato che le parti solevano rivolgersi a tribunali ebraici, e si ritenevano a essi sottoposti, questi decidevano tutte le questioni di diritto civile, e stabilivano pene per i trasgressori. Queste consistevano in multe di danaro, privazione di certe prerogative ebraiche (scomunica), fustigazione (malkùt) e pare che qualche volta sia stata anche inflitta la pena capitale. Non occorre dire che essi giudicavano in base alle norme della Legge scritta e orale e delle disposizioni rabbiniche.
La letteratura rabbinica
a) Trasmissione dell’insegnamento dei Maestri
Come già abbiamo notato, nei tempi più antichi i Maestri non misero per iscritto a disposizione del pubblico i loro insegnamenti; anzi si considerava proibito fare questo, forse perché si voleva tenere distinta la Torà scritta, sentita come dettata direttamente da Dio, dagli insegnamenti dati da uomini. Ciascuno dei Maestri trasmetteva oralmente ai suoi allievi quello che aveva ricevuto alla sua volta dai suoi Maestri, i risultati dei suoi studi personali, le decisioni che erano state adottate al suo tempo, e si aveva gran cura che fosse ricordata la persona o il consesso a cui ogni singolo insegnamento era dovuto. Dei Maestri più antichi (Tannaìm) venivano generalmente trasmesse e ricordate soltanto le opinioni, le controversie e le decisioni; di quelli più recenti (Amoraìm) anche le discussioni e le conversazioni. In seguito per timore che tutto questo materiale conservato oralmente non si potesse mantenere nella sua esattezza e nella sua integrità, non ci si attenne più all’antico divieto, e così nacque la letteratura rabbinica. Si hanno tradizioni di scritti redatti da Maestri a partire dagli inizi del II secolo, ma questi scritti non ci sono pervenuti o non si sono conservati nella loro forma originale.
b) La Mishnà
La più antica raccolta scritta di insegnamenti tradizionali a noi giunta è la Mishnà, che servì poi di base allo sviluppo dell’insegnamento dei Maestri e della loro letteratura. Compilatore della Mishnà è R. Yehudà Hanasì, Egli radunò i principali Maestri e capi di scuole del suo tempo, apprese da loro le tradizioni di cui erano in possesso e gli insegnamenti da loro dati e ne fece una scelta e una raccolta sistematica, servendosi pure di raccolte parziali che già erano state fatte, specialmente da R. ‘Akivà e da R. Meìr. Pare anzi che la raccolta di quest’ultimo costituisca la fonte principale della Mishnà. Secondo l’opinione che pare la più accettabile, R. Yehudà Hanasì stesso mise per iscritto la Mishnà; secondo altri egli trasmise oralmente la sua raccolta che fu poi messa per iscritto nella generazione posteriore: i dotti di quest’ultima vi fecero in ogni caso, solo poche aggiunte. Il compilatore della Mishnà distribuì il materiale da lui raccolto in sei grandi parti dette ciascuna Sèder (ordine, plurale: Sedarìm). Essi sono: Zera‘ìm, sulle preghiere e le leggi agricole; Mo’èd, sul sabato e le varie ricorrenze; Nashìm, sul diritto matrimoniale e i voti; Nezikìm, sul diritto civile e penale; Kodashìm, sui sacrifici e il Tempio; Tahoroth, sulle norme relative alla purità e impurità. Ogni sèder è diviso in trattati (massachtòt, singolare massachtà); ogni trattato in capitoli (perakìm, singolare pèrek), ogni capitolo, in paragrafi (mishnayòt, singolare mishnà), termine che indica quindi sia l’intera raccolta che i singoli suoi paragrafi.
Il materiale della Mishnà è quasi tutto di Halakhà, ad eccezione che nel trattato Avòt (Padri), che è come un’appendice all’ordine Nezikìm e contiene una raccolta di massime morali e di vita pratica. Quando sull’insegnamento dato non vi è disparità di pareri o quando, secondo il compilatore, era già stata presa una decisione, esso è dato anonimamente; negli altri casi, sono riferite varie opinioni, senza indicare a quale vada data la preferenza. La Mishnà non è destinata al popolo ma ai dotti, per servire loro di base per le loro discussioni e decisioni. Essa è scritta in lingua ebraica, allo stadio a cui essa era giunta nel suo sviluppo naturale, e che quindi non è identica in tutti i particolari a quella dei libri biblici: quando la si vuole distinguere da questa, detta leshòn hamikrà, la si chiama leshòn chakhamìm, lingua dei Maestri. Solo qua e là si trova qualche espressione in aramaico, dato che il compilatore ebbe cura di non mutare neppure nella forma quello che trovò nelle sue fonti orali o scritte. Lo stile è conciso ed esatto. I Maestri del tempo a cui si riferiscono gli insegnamenti della Mishnà sono detti Tannaìm. Essi si sogliono distribuire in cinque generazioni, da quella degli allievi di Hillèl e Shammài a quella dei discepoli di R. Yehudà Hanasì.
c) Le Baraitòt
Come abbiamo detto sopra, R. Yehudà Hanasì fece una scelta dell’ampio materiale di cui aveva conoscenza, ma non inserì nella sua raccolta tutto il materiale che conosceva e forse neppure poté conoscere tutto il materiale esistente. Così grande parte di questo rimase fuori dalla raccolta. Gli insegnamenti dei Tannaìm che rimasero fuori della Mishnà sono contenuti nelle Baraitòt (sing. Baraità, cioè “rimaste fuori”). Molte di queste furono poi messe per iscritto in altre raccolte, altre furono conservate nella discussione degli Amoraìm (vedi sotto). Le principali raccolte di Baraitòt che ci sono giunte sono: la Toseftà (aggiunta), ordinata come la Mishnà; la Mekhiltà, in due redazioni diverse, il Sifrà o Torat Kohanim, il Sìfré, che sono come un commento in forma di Midrash Halakhà ai libri della Torà: i due primi rispettivamente all’Esodo e al levitico; il terzo ai Numeri e al Deuteronomio.
d) La Aggadà dei Tannaìm
I Tannaìm si occuparono naturalmente, oltre che di Halakhà, anche di Aggadà; ma non ci sono giunte raccolte compilate nel periodo di cui trattiamo che contengano i loro insegnamenti aggadici all’infuori del trattato Avòt della Mishnà. Molti di questi però ci sono noti perché citati da Amoraìm, o conservati accanto a materiale meno antico, in vari midrashìm che furono compilati dopo l’età degli Amoraìm.
e) Le yeshivòt di Èretz Israèl e il Talmud palestinese
Le riunioni dei Maestri e i luoghi in cui esse si tenevano sono detti yeshivòt. Alle discussioni assistevano anche i loro scolari. Numerose yeshivòt, presiedute ciascuna da uno dei Maestri più insigni, esistevano in vari luoghi della Giudea e, particolarmente dopo il disastro di Betàr, in Galilea. Dopo la redazione della Mishnà, questa servì come testo per l’insegnamento e le discussioni delle yeshivòt, e in genere venivano studiati interamente i vari trattati. Nel loro studio e nelle loro discussioni, i Maestri che succedettero ai Tannaìm, e che sono detti Amoraìm (sing. Amorà), si proponevano di fissare il testo esatto della Mishnà, chiarirne le espressioni difficili, spiegare i fondamenti e le ragioni delle norme date, risolvere contraddizioni che apparivano fra una Mishnà e le altre, decidere la pratica da seguire nei casi controversi. In questi, l’Amorà è libero di seguire l’opinione dell’uno o dell’altro dei Tannaìm, dare la soluzione che gli pare su quesiti da questi non esaminati, ma in nessun caso è autorizzato a sostenere un’opinione che sia in contrasto con quella di tutti i Tannaìm. Come abbiamo detto sopra la Mishnà non contiene tutto l’insegnamento dei Tannaìm, e per questo gli Amoraìm hanno spesso occasione di citare Baraitòt o per chiarire la Mishnà o per dimostrare che la loro opinione, anche se contraria a quella di tutti i Tannaìm menzionati nella Mishnà, è sostenibile in quanto è appoggiata da quella di uno o più Tannaìm, l’insegnamento dei quali si trova in una baraità.
Le discussioni degli Amoraìm, come gli insegnamenti dei Tannaim, si conservarono e trasmisero oralmente e poi furono messe per iscritto. Così si ebbe la raccolta designata in ebraico Talmud (studio) e in aramaico Ghemarà, parola con lo stesso significato. Quella che riferisce delle discussioni avvenute nelle yeshivòt di Èretz Israèl, si chiama Talmud di Èretz Israèl o Talmud degli occidentali (gli “occidentali” erano per gli Ebrei babilonesi gli Ebrei residenti in Èretz Israèl), ma in genere è chiamato Talmud Yerushalmì, cioè di Gerusalemme, designazione che è del tutto impropria, perché, dopo la distruzione del Tempio, Gerusalemme non fu sede di yeshivòt.
La redazione del Talmud Yerushalmì avvenne quando le terribili condizioni degli Ebrei dopo il prevalere del Cristianesimo fecero prevedere che non sarebbe più stato possibile il funzionamento regolare, continuo e tranquillo delle yeshivòt. La base della relazione del Talmud Yerushalmì si attribuisce a R. Yochanàn bar Nappakhà, morto verso la fine del secolo III, ma la redazione finale è notevolmente più tarda, dato che in esso sono menzionati Maestri che vivevano alla fine del IV secolo: esso fu dunque compilato nel principio del V.
Del Talmud Yerushalmì, scritto prevalentemente nel dialetto aramaico parlato in Èretz Israèl, e specialmente in Galilea, sono giunti a noi quasi interamente i trattati relativi ai primi quattro ordini, nulla del 5° e pochissimo del 6°. Per quello che riguarda le caratteristiche comuni tra il Talmud di Èretz Israèl e quello di Babilonia e alle più notevoli differenze fra di loro vedi ###. Gli Amoraìm di Èretz Israèl sogliono distribuirsi in cinque generazioni, dalla fine del II sec. alla fine del IV.
f) Traduzione aramaica dei libri sacri
Nel periodo di tempo che stiamo studiando, la lingua ebraica andò di mano in mano cedendo il posto a quella aramaica come lingua di uso comune, e non tutti, specialmente i meno colti, erano in grado di comprendere bene i testi sacri. I Maestri provvidero a che questi venissero tradotti in lingua aramaica, e si introdusse l’uso che la lettura pubblica della Torà e dei Profeti venisse accompagnata da traduzione aramaica. Non esisteva in origine una traduzione (targùm) ufficiale: ogni traduttore (meturghemàn) traduceva a modo suo secondo l’interpretazione che aveva ricevuto per tradizione. Esistevano in Èretz Israèl delle traduzioni scritte, ma i traduttori davanti al pubblico non erano autorizzati a servirsene. Di queste antiche traduzioni sono giunte a noi quella della Torà che va sotto il nome di Onkelòs e quella dei Profeti che va sotto il nome di Jonathan. Esse però non ebbero in Èretz Israèl il carattere di traduzioni ufficiali, il che avvenne, invece, a quanto pare, in Babilonia.
Letteratura apocalittica
Le sventure nazionali resero particolarmente viva nell’animo degli Ebrei la fiducia che le cose non avrebbero continuato ad andare sempre male, e in molti nacque la persuasione che non fosse lontano il tempo in cui il mondo sarebbe rinnovato. Questa fiducia e questa persuasione furono, come già sappiamo, fra le cause del sorgere del Cristianesimo, i seguaci del quale credettero che con l’apparizione di Gesù il rinnovamento fosse ormai avvenuto. Ma prima delle origini del Cristianesimo e anche dopo presso gli Ebrei che non vi aderirono fiorì una letteratura che esprimeva la fiducia e la persuasione a cui sopra abbiamo accennato in forma di profezie e visioni attribuite per lo più, per finzione letteraria, a personaggi dell’antichità. I prodotti di questa letteratura sono i più recenti degli Apocrifi; in essi vengono particolarmente annunziati la caduta dei governi pagani, con allusioni speciali a Roma, la redenzione d’Israele, la ricostruzione del Tempio, il trionfo della giustizia, la resurrezione dei morti.
Tra quelli di origine certamente ebraica e scritti assai probabilmente in ebraico o aramaico in Èretz Israèl sono specialmente da ricordare:
a) Il 4° libro di ’Ezrà o Visione di ’Ezrà di cui ci sono giunte traduzioni in latino e in varie altre lingue: queste traduzioni sembra risalgano tutte ad un originale greco, andato perduto, che era a sua volta tradotto dall’ebraico.
b) La visione di Barùkh (da non confondersi col Libro di Barùkh), conservato in siriaco, tradotto dal greco che, a quanto pare, era alla sua volta tradotto dall’ebraico.
Questi libri, ed anche altri di contenuto apocalittico, sono stati conservati dai Cristiani, che vi avevano particolare interesse e contengono qua e là delle aggiunte dovute senza dubbio a Cristiani che talvolta apportarono anche aggiunte o modificazioni a testi più antichi. Entrambi questi libri furono composti poco dopo la distruzione del Tempio. Altri elementi apocalittici si trovano in testi delle Meghillòt Ghenuzòt.
Polemiche con i Cristiani
Dato che, come sappiamo, le prime origini del Cristianesimo furono in Èretz Israèl in ambiente ebraico, è naturale che vi siano state lotte e discussioni fra gli aderenti alla nuova setta, diventata poi religione, e quelli che vi si opponevano. Prima della predicazione della nuova setta fra i pagani, le sue caratteristiche principali erano il riconoscimento di Gesù come Messia inviato da Dio o addirittura come essere divino o semidivino, e l’esclusione dell’elemento nazionale ebraico dalla redenzione messianica. In seguito, dopo l’opera di Paolo, si aggiunse poi l’atteggiamento relativo alle mitzvòt della Torà che una parte dei Cristiani riteneva abrogate. I Vangeli, libri sacri dei Cristiani, composti a quanto pare nei due primi secoli dell’E.V. e forse parzialmente scritti originariamente in ebraico o aramaico, contengono spesso polemiche contro gli Ebrei, specialmente Farisei, ma anche ai Sadducei essi si oppongono specialmente perché questi non credevano nella vita futura. Nei primi tempi la polemica da parte ebraica è rappresentata da qualche detto dei Maestri che pare alluda al Cristianesimo e a disposizioni tendenti a distinguere i seguaci della nuova setta dagli Ebrei rimasti fedeli alle loro tradizioni. Il contrasto, specialmente per quello che riguarda il diverso atteggiamento dal punto di vista nazionale, già grave durante la guerra con Roma, a cui i Cristiani si opponevano, si fece più vivo ai tempi della rivolta di Bar Kozivà; i Cristiani non solo non vi presero parte, ma si fecero talvolta delatori e calunniatori degli Ebrei, e questi non mancarono di perseguitarli e punirli.
A partire dalla seconda metà del II secolo e specialmente dopo che numerose comunità cristiane si erano formate in terra d’Israele, come a Gerusalemme, Betlemme, Samaria (detta Sebaste), Shekhèm (detta Neapolis), Cesarea, sede del vescovo, comincia la fioritura della polemica letteraria cristiana contro l’Ebraismo, sostenuta dai principali scrittori cristiani del tempo. Essi cercarono, fra l’altro, di dimostrare le loro tesi dando interpretazioni arbitrarie e tendenziose dei testi biblici. Non di rado riferiscono discussioni, reali o immaginarie, avvenute con dotti ebrei. I Maestri naturalmente cercarono di difendersi e di ribattere alle ragioni dei Cristiani, ma, mentre questi si proponevano di indurre Ebrei e pagani ad accettare il Cristianesimo, i nostri Maestri si rivolgevano soltanto agli Ebrei per evitare che essi cedessero alla propaganda cristiana. Non possediamo alcuna opera apologetica ebraica, ma la Aggadà talmudica contiene numerosi elementi di polemica anticristiana. Altri elementi di questa polemica sono conservati presso scrittori pagani che, per combattere il Cristianesimo, mettono in campo contro di questo argomenti che solevano essere portati dagli Ebrei.