Capitolo 25 – La vita spirituale in Èretz Israèl nel periodo del secondo Tempio
La letteratura in lingua ebraica: a) Generalità; b) Il libro di Ben Sirà; c) Il primo libro dei Maccabei; d) I libri di Tobia e di Giuditta; e) I Salmi di Shelomò; f) Raccolte di tradizioni e leggende; g) Aggiunte ai libri biblici e scritti attribuiti ad autori dell’età biblica; h) Commenti allegorici ai libri biblici; i) Il libro della lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre; l) Il libro delle Hodayòt (Inni)
Rapporti con la civiltà greco-romana
Le sette: a) Farisei e Sadducei; b) Esseni; c) Altre sette
Origini del Cristianesimo: a) Generalità; b) Il Messia secondo varie concezioni; c) Giovanni il Battista; d) Gesù di Nazareth; e) Gli apostoli
L’insegnamento dei Maestri e lo studio della Torà: a) Generalità; b) Insegnamento al popolo; c) Sinedrio e tribunali; d) I Maestri più illustri
La letteratura in lingua ebraica
a) Generalità
I prodotti della letteratura ebraica del periodo che ci interessa che ci sono giunti nella loro forma originaria e che non fanno parte della raccolta biblica sono assai scarsi; di qualche opera letteraria ebraica dello stesso periodo ci sono giunte traduzioni, specialmente in greco. Una parte di questi scritti sono stati considerati dai Cristiani o da alcune delle loro sette come scritti sacri; le sette cristiane che non li hanno accolti nel canone biblico li designarono col nome di Apocrifi (nascosti), e con lo stesso nome vengono designati da tutti gli altri quei libri che sono in rapporto con quelli sacri ma che da nessuno sono considerati tali. Col nome speciale di Pseudepigrafi (attribuiti ad uno scrittore che non ne è il vero autore) vengono spesso designati quegli apocrifi che portano come nome del loro autore quello di scrittori dell’età biblica. In ebraico, il complesso degli apocrifi viene solitamente designato come chitzonìm (esterni, cioè fuori del canone biblico) o ghenuzìm (nascosti, perché non destinati alla lettura pubblica come i libri sacri). Appunto perché rimasti fuori della raccolta di questi libri essi furono trascurati dagli Ebrei e quindi in gran parte perduti nella lingua originale. Per alcuni di essi risulta che ancora esisteva il testo ebraico nei primi secoli dell’era volgare, anche fino alla seconda metà del primo millennio; di altri sono stati scoperti frammenti più o meno grandi negli ultimi decenni. Molti di quei libri, pur non essendo diffusi tra il popolo ebraico, anche perché i Maestri ne vietarono la lettura pubblica sia per distinguerli nettamente dai libri sacri e sia perché esprimono in parte idee e norme non corrispondenti a quello che i Maestri stessi insegnavano e che diventarono prevalenti nell’Ebraismo, erano noti, nell’originale o in traduzione, ai dotti ebrei che se ne servirono e riportarono da essi, qualche volta citandoli, e spesso senza citarli, molto di quello che in essi si trovava e che parve loro buono.
Alcuni scritti ebraici che non risulta fossero noti ai nostri antichi e che secondo ogni probabilità appartengono al nostro periodo furono scoperti, a partire dal 1947, in grotte della Giudea meridionale, nei pressi del Mar Morto. Essi fanno parte dei manoscritti designati come Meghillòt Ghenuzòt (rotoli nascosti).
b) Il Libro di Ben Sirà
Posto notevole fra gli apocrifi che fanno parte della Bibbia cattolica occupa il Libro di Ben Sirà che è, nella massima parte, una raccolta di sentenze morali contenenti consigli di vita pratica, analoghe a quelle del libro biblico dei Proverbi. I suoi insegnamenti sono fondati sulla Torà e sul timore di Dio. Il libro contiene pure un capitolo in lode dei principali personaggi dell’antichità ebraica e uno a celebrazione del Sommo Sacerdote Simone il Giusto, probabilmente il secondo. Come nome proprio dell’autore si dà generalmente quello di Yeshùa (Gesù), ma è più probabile che esso fosse Shim’òn (Simone). Il libro era tenuto in grande stima presso i Maestri dell’età talmudica che talvolta citano le sue parole accanto a quelle dei testi biblici. L’autore viveva intorno al 200 a.E.V. Il libro intero ci è giunto in traduzioni, la più antica delle quali è quella greca, eseguita da un nipote dell’autore. Il testo ebraico esisteva ancora alla fine del 1° millennio E.V. A partire dal 1896 sono stati scoperti frammenti vari in ebraico che, messi insieme, costituiscono la maggior parte del libro.
c) Il primo Libro dei Maccabei
È questo un libro di carattere storico che, dopo un breve proemio sugli avvenimenti in terra d’Israele dalla conquista di Alessandro ai tempi di Antioco Epifane, prosegue la narrazione fino ai primi tempi di Giovanni Ircano. In esso sono inseriti documenti relativi ai fatti narrati. Da esso attinge quasi tutte le sue notizie Giuseppe Flavio per quello che riguarda la storia del periodo. Ci è giunto in traduzione greca e fa parte della Bibbia cattolica. Il testo ebraico esisteva ancora nei primi secoli dell’Era volgare.
d) I Libri di Tobia e di Giuditta
Sono questi due romanzetti che è dubbio se abbiano base storica o se siano prodotti di fantasia. Entrambi ci sono giunti in traduzione greca e fanno parte della Bibbia cattolica; il primo è conservato in redazioni diverse: in greco e in testi ebraici e aramaici che, a quanto pare, non sono originali. Piccoli frammenti in ebraico si sono trovati fra le Meghillòt Ghenuzòt. In esso sono narrate le avventure di un uomo pio (Tobia) fra gli esuli delle dieci tribù e di suo figlio, dello stesso nome o di nome simile.
Il Libro di Giuditta narra di una giovane ebrea con questo nome che uccise un generale assiro di nome Oloferne, innamorato di lei, e così liberò da grave pericolo la città dove abitava.
e) I Salmi di Shelomò
Sono diciotto brevi componimenti poetici, a imitazione dei salmi biblici. Dalle chiare allusioni contenute in alcuni di essi risulta che essi furono composti al tempo delle lotte fra Aristobulo e Ircano e della caduta di Gerusalemme in mano di Pompeo. L’autore esprime i sentimenti di un contemporaneo che, a quanto pare, si manteneva al di fuori delle lotte dei partiti, profondamente addolorato delle sventure del suo tempo e che auspicava il rinnovamento della monarchia davidica. Ci sono giunti in traduzione greca.
f) Raccolte di tradizioni e leggende
Alcuni dei libri che appartengono al nostro periodo prendendo per base i racconti biblici vi aggiungono tradizioni e leggende varie. Fra questi occupa un posto notevole il Libro delle divisioni dei tempi o Libro dei Giubilei, che ha per base il racconto biblico, dalla Creazione del mondo alla giovinezza di Moshè, in forma di rivelazione di un angelo a quest’ultimo: esso contiene, oltre che numerosi racconti che non si trovano nella Torà, la datazione degli avvenimenti che racconta per giubilei, settimane di anni e anni.
Esso mira specialmente ad inculcare l’osservanza dei precetti della Torà, che l’autore rappresenta in gran parte come conosciuti e osservati dai patriarchi, e come “incisi sulle tavole del cielo”. Si insiste specialmente sul divieto di idolatria, di immoralità e di unione con gli stranieri e sui precetti della circoncisione, del sabato e delle feste. Nel calendario e in alcuni particolari rituali rappresenta tendenze diverse da quelle dei Farisei, divenute prevalenti nell’Ebraismo. Il libro ci è giunto intero in traduzione etiopica, in notevole parte in traduzione latina e in alcuni frammenti greci. Piccoli frammenti in ebraico sono stati trovati fra le Meghillòt Ghenuzòt.
Carattere generale simile a quello del libro dei Giubilei ha il Libro dei Testamenti dei dodici padri (che sono i dodici figli di Ya’akòv) e libri vari su Adàm e Chavà, Enòch e altri personaggi antichi. A questo gruppo appartiene pure il libro solitamente designato come Apocrifo sulla Genesi di cui si hanno frammenti in lingua aramaica conservati in una delle Meghillòt Ghenuzòt. Nella parte fino ad ora pubblicata si hanno tradizioni su antichi personaggi anteriori al diluvio e su Avrahàm e Sarà.
g) Aggiunte ai libri biblici e scritti attribuiti ad autori dell’età biblica
L’antica traduzione greca dei libri della Bibbia, detta dei Settanta, contiene in alcuni libri dei capitoli che non ci sono nel testo ebraico che noi possediamo. Tali sono passi del libro di Estèr che mirano specialmente ad accentuare i sentimenti religiosi dei personaggi, i racconti su Susanna e su Bel e il dragone nel libro di Danièl, la preghiera del re Menashè dopo che si pentì delle sue colpe, una lettera attribuita a Yirmiàhu contro l’idolatria, il Libro di Barùkh, segretario di Yirmiàhu stesso, un rifacimento di parte del libro di ’Ezrà, con l’aggiunta di un racconto su Zerubbavèl alla corte persiana. Mentre per alcune di queste aggiunte, come la lettera di Yirmiàhu, il Libro di Barùkh, il racconto su Zerubbavèl, pare da ritenersi sicuro che esse furono scritte originariamente in ebraico, per le altre la cosa è dubbia. Così pure fu forse scritta in ebraico una parte del Libro della Sapienza di Shelomò.
h) Commenti allegorici ai libri biblici
Tra le Meghillòt Ghenuzòt sono stati trovati frammenti di commenti ai vari libri biblici in ebraico. Essi si propongono di applicare le espressioni dei testi antichi ad avvenimenti contemporanei agli autori dei commenti. Specialmente notevole, perché conservato quasi interamente, è il commento ai due primi capitoli del Libro di Chavakùk, che sono spiegati come allusivi ad un popolo forte e nemico, da identificarsi secondo alcuni con i Siri dell’età dei Seleucidi, secondo altri con i Romani.
i) Il Libro della lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre
Questo libro, che è pure stato scoperto recentemente fra i manoscritti ebraici trovati nei pressi del Mar Morto, e che è conservato in parte notevole, ha carattere apocalittico, parla cioè di avvenimenti che dovranno verificarsi in tempi di là da venire, quando i figli della luce, che sono i giusti, appartenenti alla setta dell’autore, combatteranno contro i malvagi loro avversari, figli delle tenebre, e li vinceranno. Il testo ha particolare importanza per le indicazioni che fornisce sull’organizzazione militare e le armi dei figli della luce.
l) Il Libro delle Hodayòt (Inni)
Anche di questo libro è stata trovata una parte notevole fra le pergamene ebraiche del Mar Morto. Esso contiene degli inni, formalmente simili ai Salmi, nei quali l’autore esprime i suoi sentimenti. L’autore, a quanto pare uno dei capi della setta a cui appartengono i testi del Mar Morto, ammette la predestinazione, e uno dei concetti dominanti nelle sue composizioni è il ringraziamento per essere tra i giusti, identificati anche qui con gli appartenenti alla setta, e non fra i malvagi, che sono i suoi avversari.
Rapporti con la civiltà greco-romana
Come già sappiamo, la popolazione ebraica di Èretz Israèl non era rimasta immune da influenze greche dopo che, in seguito alle conquiste di Alessandro Magno, la cultura greca era penetrata in Oriente. L’insurrezione vittoriosa dei primi Asmonei aveva impedito che la civiltà ebraica scomparisse, come scomparvero altre civiltà orientali, ma non poterono non esserci contatti continui tra la civiltà ebraica e quella greca. Essi furono particolarmente vivi, come è naturale, nei paesi della diaspora, e di questi parleremo in seguito, ma non mancarono neppure nei paesi che, dopo il conseguimento dell’indipendenza, costituirono lo stato ebraico, dato che questo era come un’isola nel mare dei paesi di civiltà ellenistica. I contatti aumentarono poi in seguito alle conquiste degli Asmonei: i paesi da loro occupati oltre la Giudea propriamente detta erano popolati solo parzialmente da Ebrei, che in alcuni erano in minoranza: gli Idumei si assimilarono ma così non fu per le altre popolazioni straniere, la cultura delle quali era ormai del tutto ellenizzata. Così avvenne che nella lingua ebraica, che, accanto a quella aramaica, era la lingua degli Ebrei, si introdussero parole di origine greca specialmente nel linguaggio giuridico e commerciale, e per indicare oggetti di uso comune. Fra i nomi di persona si diffusero i nomi greci anche fra persone attaccate alle tradizioni nazionali. Coloro che per ragioni specialmente di commercio erano in frequenti rapporti con gli stranieri ne adattarono in parte il modo di pensare e di esprimersi; le persone colte non si limitarono allo studio della letteratura nazionale, ma acquistarono conoscenze della letteratura e della filosofia greca, e ne rimasero in parte influenzati: tracce di questo si hanno anche nella letteratura ebraica dell’epoca, come per esempio in Ben Sirà. Tutti poi, deliberatamente o no, presero a seguire esteriormente parte dei costumi stranieri e soltanto grazie a disposizioni prese dai Maestri questa imitazione dei costumi pagani venne limitata in modo da non contrastare col sistema di vita prescritto dalla Torà.
Dopo la perdita dell’indipendenza in seguito alla conquista di Pompeo gli Ebrei vennero a contatto anche con la civiltà romana, che del resto, all’infuori che nel campo giuridico, era civiltà greca. Come abbiamo visto non era neppure raro il caso di giovani che trascorsero a Roma alcuni anni e che naturalmente vi assorbirono qualche cosa dei suoi costumi e della sua civiltà, e anche parole latine si introdussero nell’ebraico, soprattutto fra i termini giuridici e militari.
Le sette
a) Farisei e Sadducei
Nel corso della nostra narrazione abbiamo avuto più volte occasione di parlare di Farisei e Sadducei, nomi coi quali si designano i principali partiti, o sette, in cui si divideva il popolo ebraico nella sua terra nel periodo di tempo di cui ci occupiamo. Ci basterà ora ricordare che i Farisei vedevano nella Torà una legge di vita, a nessuna delle manifestazioni della quale la Torà è estranea, e quindi, secondo loro, la Torà scritta che non contempla tutti i casi, né sempre fornisce particolari sull’esecuzione delle sue norme, e in parte rispecchia condizioni speciali in cui si trovava il popolo nel momento in cui essa fu prolungata, deve essere integrata dalla Legge orale (Torà shebe’àl pe), che, fondata su istruzioni date a Moshè da Dio oralmente in aggiunta a quanto è scritto nella Torà, forniva poi, attraverso le generazioni, le norme da seguire di volta in volta, tenendo conto delle condizioni in cui si trovava il popolo. Queste norme erano fondate sia su consuetudini, approvate dai Maestri, che erano venute formandosi, sia su quello che i Maestri stessi ricavavano dallo studio della Torà scritta e dalle tradizioni delle generazioni precedenti. I Sadducei invece attribuivano valore soltanto alla Torà scritta, e di conseguenza, dato che essa non dava norme di governo corrispondenti alle condizioni in cui si trovava il popolo, ritenevano che la vita politica doveva svolgersi indipendentemente dalla Torà, e negavano valore a tutte quelle disposizioni che risalivano a tradizioni conservatesi oralmente o che i Maestri avevano successivamente preso sia per assicurare l’esatta osservanza della Torà, sia per allontanare il popolo dall’assimilazione agli stranieri. Lo stesso contrasto si nota anche nel campo delle credenze e delle idee. I Sadducei, dato che la Torà scritta non parla esplicitamente né di sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo, né di premio o pena in un mondo dopo quello terreno, si opponevano ai Farisei che invece insegnavano che esiste una vita futura e che in essa l’uomo avrà premio o pena secondo le sue azioni, in aggiunta a quelli che aveva avuto durante la vita terrena, e così davano anche una soluzione al problema che aveva tormentato e tormentava l’animo di tutti quelli che credevano nella giustizia divina: come spiegare le sofferenze dei giusti e il benessere dei malvagi.
I Farisei insegnavano che non tutto era finito nel mondo terreno e che alle apparenti ingiustizie in questo mondo veniva rimediato alla resa finale dei conti nel mondo venturo. Essi poi, pure non negando, ed anzi chiaramente affermando, la libertà e la responsabilità individuale dell’uomo, insegnavano che Dio interviene continuamente nei fatti individuali e collettivi del mondo e li dirige secondo la Sua volontà, e che quindi la libertà dell’uomo ha dei limiti, i Sadducei sostenevano che Dio non interviene nei fatti umani che sono interamente determinati dagli uomini stessi. Farisei e Sadducei erano anche, a quanto pare, distinti dal punto di vista sociale. I primi erano in genere uomini del popolo, i secondi appartenenti alle classi socialmente più elevate.
Abbiamo visto che Sadducei e Farisei ebbero alternativamente la preponderanza nel governo durante il periodo dell’indipendenza nazionale; caduta questa, nessuno dei due partiti ebbe importanza politica, e, a quanto pare, l’appartenenza all’uno o all’altro di essi non ebbe influenza su vari atteggiamenti presi da singoli personaggi o da singoli gruppi nel tempo della dominazione romana e della guerra per l’indipendenza.
b) Esseni
Le nostre fonti, e anche alcune fonti non ebraiche, parlano di una setta detta degli Esseni. Non sono noti né la sua origine né l’etimologia del suo nome e poco si sa della sua storia. Si tratta di un gruppo di asceti e mistici, forse staccatosi dai Farisei, portando alle conseguenze estreme alcuni dei loro insegnamenti. Essi si mantennero del tutto lontani dalle competizioni politiche e mirarono ad una vita di santità. Facevano vita in comune, e, a quanto pare, praticavano la comunanza dei beni; vivevano modestamente e sobriamente col prodotto del loro lavoro; abbondavano in preghiere, abluzioni, atti di purificazione; osservavano il sabato e le leggi matrimoniali ancora più rigorosamente che i Farisei; alcuni di essi si astenevano dal contrarre matrimonio. Non offrivano sacrifici cruenti, ma inviavano altri doni al Tempio. Non abitavano in città e i loro stanziamenti principali erano nei pressi del Mar Morto. Si acquistarono conoscenze sulle virtù medicinali dei vegetali, e ne approfittarono per curare malattie; un gruppo di essi ebbe, a quanto pare, per questo il nome di Terapeuti. Credevano nell’esistenza e nell’attività di esseri intermedi tra la Divinità e l’uomo (angeli e spiriti) e negavano del tutto il libero arbitrio. A loro si attribuì la possibilità di prevedere il futuro. La loro astensione dalla vita politica e il fatto che di uno di essi si diceva avesse predetto ad Erode che sarebbe divenuto re procurarono loro le simpatie del crudele tiranno.
c) Altre sette
Le fonti ebraiche ricordano, accanto ai Sadducei, i Baitusei, dei quali nulla sappiamo se non che negavano l’esistenza di premi e pene divini.
Di una o più sette, che a quanto pare, esistettero nel periodo di cui trattiamo, abbiamo notizie in documenti trovati alcune decine di anni fa nella Ghenizà del Cairo e recentemente fra le Meghillòt Ghenuzòt. Dal primo risulta che una setta, della quale sono conservate le regole, affini in parte a quelle degli Esseni, in un certo momento abbandonò Èretz Israèl e si ritirò a Damasco; per questo essa si suole designare come “setta di Damasco”. Regole di sette affini e altri loro documenti furono trovati nei pressi del Mar Morto. Ad esse appartengono probabilmente le opere di carattere letterario ed esegetico a cui abbiamo sopra accennato. È parere concorde degli studiosi che ci siano stretti rapporti, o addirittura identità, fra questi gruppi e quello della setta di Damasco. In essi sono spesso menzionati un maestro di giustizia, fondatore o capo della setta, perseguitato da un sacerdote empio. Vari sono i pareri sull’identificazione precisa di questi personaggi, ma comunque pare si alluda ad avvenimenti e condizioni da collocarsi fra il periodo dell’insurrezione maccabaica e quello della fine dell’indipendenza. Alcuni pensano si tratti di Esseni; ma siccome non tutti i particolari concordano con quello che sappiamo di questi, è più probabile si tratti di una o più delle numerosissime sette che si formarono in quel periodo. Anche parte degli apocrifi rappresentano le idee di varie sette. Tra queste hanno particolare importanza, per lo sviluppo che ebbero in seguito, le sette messianiche: quelle cioè che, osservando il disordine, le crudeltà, le ingiustizie del tempo, videro in tutto questo i segni di un prossimo rinnovamento generale del mondo, del prossimo avvento cioè dell’era messianica, o del regno di Dio sulla terra. Accenni in questo senso si hanno anche nei documenti sopra ricordati.
Origini del Cristianesimo
a) Generalità
Le sette di cui abbiamo parlato ebbero breve esistenza e poco dopo la distruzione del Tempio cessarono tutte di esistere o di avere importanza; l’Ebraismo venne dunque a identificarsi col Farisaismo, che non fu più una setta. Una sola, appartenente al gruppo delle sette messianiche, non soltanto restò in vita, ma si sviluppò moltissimo e finì per diventare e restare fino ad oggi uno dei fattori più importanti della storia dando origine al Cristianesimo, che andò a poco a poco allontanandosi dall’Ebraismo fino a staccarsene interamente e a diventare uno dei suoi più potenti nemici.
b) Il Messia secondo varie concezioni
La nuova setta, nelle sue origini, si basò sulla credenza radicata negli animi degli Ebrei, a cui abbiamo più volte accennato, fondata su parole della Torà dei Profeti, che un giorno il mondo si sarebbe rinnovato, riconoscendo l’unico Dio e realizzando il Suo regno sulla terra. Si era pure formata la convinzione che questo prodigioso rinnovamento sarebbe stato opera di un uomo, appartenente alla discendenza di Davìd, detto messia (mashìach) cioè l’unto, il consacrato, termine che designava specialmente i re; egli sarebbe dunque il re messia (mèlekh hamashìach). Nella coscienza ebraica questi era sentito come colui che avrebbe causato una doppia redenzione: redenzione nazionale di Israele, che doveva restare il popolo consacrato, sovrano nella sua terra, guida spirituale degli altri popoli, e redenzione universale di tutta l’umanità. Da alcuni dei libri che abbiamo sopra ricordati si rileva anche la credenza in un Messia di stirpe levitica o sacerdotale.
Gli avvenimenti dei tempi torbidi e sconvolti che abbiamo sopra descritti, avevano anche indotto alcuni a dubitare che la nazione ebraica potesse continuare ad esistere, a spogliare il Messia del suo carattere nazionale, e a considerarlo come redentore dell’anima dei singoli individui: alla sua venuta dovevano prepararsi i singoli Ebrei con la penitenza e con la fede in Dio e nel Messia. La vita politica e collettiva era del tutto estranea alle loro concezioni e di essa vedevano soltanto o prevalentemente i lati negativi: in questo si avvicinavano alle concezioni degli Esseni; inoltre (e in ciò si staccavano anche da questi) tendevano a dare scarsa importanza a quei precetti e a quelle consuetudini che, essendo peculiari agli Ebrei, miravano a conservarne il carattere di nazione distinta dalle altre, e a insistere invece su quelli di carattere morale universale.
c) Giovanni il Battista
Uno dei più segnalati fautori di queste tendenze fu un certo Giovanni, che viveva nel deserto di Yehudà: egli si diede a predicare che si avvicinava il giorno dell’avvento del regno di Dio, che avrebbe presto inviato il Messia: gli uomini sarebbero stati allora sottoposti a giudizio, e quindi occorreva far penitenza: come segno materiale di purificazione egli prescriveva una immersione nell’acqua (battesimo) e perciò fu soprannominato il Battista. Egli ebbe numerosi seguaci. La sua attività si svolse fra il 25 e il 28 E.V. circa. Venne fatto uccidere da Erode Antipa; secondo la tradizione cristiana ciò avvenne per i rimproveri che gli rivolse; secondo altre tradizioni, per ragioni politiche, in quanto si sospettò che egli inducesse i suoi seguaci alla disobbedienza al governo romano.
d) Gesù di Nazareth
Ardente ed attivo seguace di Giovanni fu Gesù (in ebraico Yehoshùa’ o Yeshùa/Yèshu) di Nazareth, o secondo altre tradizioni, nato a Betlemme. Dopo avere, con poco profitto, cercato di avere seguaci a Nazareth dove passò la sua giovinezza, esercitò molta influenza ed attirò a sé molti aderenti fra i contadini e i pescatori dei villaggi della Galilea, nelle sinagoghe della quale andava predicando. In seguito, per allargare il campo della sua attività, si trasferì con alcuni discepoli a Gerusalemme e predicò negli atri del Tempio. In questa città, a differenza di quel che era avvenuto in Galilea, incontrò serie opposizioni da parte dei Farisei e dei sacerdoti che vi dominavano spiritualmente e da parte dei Romani. I Farisei non lo vedevano di buon occhio sia perché il suo insegnamento poteva indurre a trascurare alcuni dei precetti della Torà, nonostante la sua esplicita dichiarazione che egli non intendeva abrogare nulla di questa, e sia perché alcuni vedevano in lui il Messia annunziato da Giovanni e forse egli stesso si era dichiarato tale e gli venivano attribuiti dei miracoli. Non condividendo queste idee, i Farisei videro in lui come un falso profeta, l’attività del quale poteva essere giudicata pericolosa. I Romani poi sospettavano in ogni movimento di Ebrei tentativi di ribellione, e per quanto Gesù avesse chiaramente detto che si deve dare “a Cesare quello che è di Cesare”, dato che era chiamato Messia, cioè re, lo considerarono ribelle al governo, e appoggiandosi anche alle accuse che contro di lui movevano i capi spirituali degli Ebrei, dopo varie incertezze del tetrarca Erode Antipa e del procuratore romano Pilato, lo crocifissero intorno al 33-35 E.V. Sulla sua croce gli esecutori scrissero I.N.R.I. (iniziali di Jesus Nazarenus rex Judaeorum, “Gesù di Nazareth re degli Ebrei”). Le ultime parole possono essere intese in senso di scherno o possono indicare che egli fu condannato come ribelle perché intendeva essere Messia (re degli Ebrei). I suoi seguaci narrarono che egli risorse dopo la sua morte, uscì dal sepolcro, si presentò ai suoi discepoli e poi salì in cielo.
e) Gli Apostoli
L’opera di Gesù fu continuata dai suoi discepoli, tra i quali i più attivi furono dodici detti apostoli (in greco “inviati”) che furono anch’essi talvolta ostacolati dai Farisei e dai sacerdoti e perseguitati dal governo romano. Essi riuscirono tuttavia a fondare in terra d’Israele alcune comunità di Giudeo-cristiani, di Ebrei cioè che vedevano in Gesù il Messia. In seguito poi condussero il movimento in modo tale che, contrariamente, a quanto pare, alle intenzioni del Maestro, esso cessò di costituire un gruppo in seno all’Ebraismo, ma se ne staccò interamente e diede luogo ad una nuova religione che dal nome del Maestro, soprannominato Cristo (traduzione greca dell’ebraico mashìach) si chiamò Cristianesimo. Nell’attività che portò alla formazione di questa religione è particolarmente da ricordare l’apostolo Shaùl, nato nella diaspora, a Tarso, che assunse il nome di Paolo. Egli fu dapprima un Fariseo zelante, allievo di Rabbàn Gamlièl e avversario della setta cristiana. In seguito aderì a questa, e divenne seguace di Gesù. Mentre questi si era rivolto esclusivamente agli Ebrei, Paolo intraprese numerosi viaggi per convertire i pagani; per attrarli, non richiese da loro l’osservanza della circoncisione e di altre norme che la Torà impone agli Ebrei; insegnò, contrariamente alla dottrina ebraica, che la fede in Dio e nel suo Messia sono sufficienti a giustificare l’uomo indipendentemente dalle sue opere, e poi finì per sostenere che, dovendo cessare ogni differenza di nazionalità fra gli uomini, uniti tutti nella fede di Gesù, nulla più doveva distinguere gli Ebrei e quindi anche per loro cessavano di avere valore le norme che la Torà stabilisce per essi soli. Anche nel campo delle idee, Paolo accettò molti elementi estranei all’Ebraismo, e così il Cristianesimo diventò un miscuglio di elementi ebraici e di elementi pagani. Parte dei Giudeo-cristiani lo seguì, altri invece si mantennero fedeli alle norme della Torà. I primi si fusero completamente coi numerosi pagani che accettarono l’insegnamento di Paolo, gli altri finirono per essere riassorbiti nell’Ebraismo farisaico.
L’insegnamento dei Maestri e lo studio della Torà
a) Generalità
Di tutti i movimenti e le tendenze che, come abbiamo visto, agitarono gli Ebrei di Èretz Israèl dall’età maccabaica alla distruzione del Tempio uno solo sopravvisse e sopravvive oltre al Cristianesimo che si staccò dall’Ebraismo e le vicende del quale, dalla seconda metà del I sec. E.V., non riguardano più la storia ebraica. Esso è il Farisaismo, rappresentato dai Maestri della Torà. Nei primi decenni dopo il ritorno dall’esilio babilonese, cessò la profezia: continuatori dei profeti della direzione spirituale del popolo sono i Maestri della Torà, designati in ebraico come chakhamìm (dotti), soferìm (scrittori), rabbànìm (grandi, sing. rav), da cui il termine italiano rabbini. La differenza essenziale tra profeti e rabbini consiste in questo: che i primi si sentivano ed erano riconosciuti ispirati direttamente dalla Divinità, in nome della quale parlavano, i secondi non sentivano, se non in momenti eccezionali, come ogni uomo, l’ispirazione divina e non si distinguevano dal resto del popolo se non per un più alto grado di conoscenze soprattutto nel campo della Torà, ma anche nei vari rami delle scienze teoriche e pratiche che fiorivano ai loro tempi nei paesi da loro abitati. Questa loro qualità fece sì che essi fossero Maestri nel senso più completo della parola e come tali istruissero il popolo, e che fossero chiamati ad esercitare funzioni direttive e di responsabilità, come giudici, capi di comunità e simili. Queste funzioni rivestivano talvolta carattere ufficiale, come quando i rabbini facevano parte del Sinedrio o lo presiedevano, altre volte essi agivano come semplici privati che godevano della stima e della fiducia del popolo. In genere era considerato rabbino chi era dal proprio Maestro giudicato degno di ciò, e, per quello che riguarda le funzioni rabbiniche più alte e di maggiore responsabilità, il riconoscimento avveniva per mezzo di uno speciale atto, detto semikhà (autorizzazione). Sui particolari intorno all’attività dei Maestri prima della distruzione del secondo Tempio sappiamo pochissimo; ma, siccome è da ritenersi che essa non abbia subito profonde modificazioni, le notizie abbondanti che abbiamo per tempi posteriori, che si desumono dalla letteratura talmudica, possono servire di fonte anche per il nostro periodo.
b) Insegnamento al popolo
Dato che, come abbiamo detto sopra, i Maestri non si consideravano dotati di qualità soprannaturali, essi aspiravano a che tutti i membri del popolo diventassero simili a loro in dottrina e quindi una delle principali attività da loro esercitate consisteva nella diffusione della conoscenza della Torà fra il popolo, il che avveniva, oltre che nelle scuole elementari frequentate dai bambini fino dai primi anni di età, in riunioni dirette dai Maestri, che si tenevano nelle ore in cui i più erano liberi dalle loro occupazioni e specialmente nei giorni di sabato. Particolarmente importanti e frequentate erano le riunioni che si tenevano all’avvicinarsi delle ricorrenze più solenni. Le riunioni si tenevano nelle sinagoghe, dove avevano luogo le tefìllòt in forma pubblica, o in locali speciali detti batè hamidràsh. Il pubblico a cui i Maestri si rivolgevano riconosceva tutto, senza ombra di dubbio, la Torà come divina e quindi obbligatoria ed aveva piena fiducia nei rabbini. Funzione essenziale di questi, come Maestri, consisteva nell’insegnare come comportarsi per obbedire agli ordini della Torà e nel diffondere e spiegare i principi, i sentimenti e le idee che la Torà vuole inculcare. L’ignoranza delle norme o dei principi induce necessariamente alla colpa e per questo i Maestri insegnavano che l’ignorante non può essere giusto e pio e di conseguenza esso era disprezzato e considerato quasi come un essere inferiore e designato, con termine spregiativo, ’am haàretz (lett. “uomo della terra”, cioè uomo volgare).
L’insegnamento dei Maestri avveniva con due metodi diversi: o con l’indicazione pura e semplice dei principi e delle norme da seguire o attraverso l’interpretazione dei testi della Torà da cui derivava o sui quali si appoggiava la norma. Questo secondo sistema si chiama Midràsh. Il contenuto degli insegnamenti era in parte dovuto a quello che il Maestro aveva ricevuto per tradizione dai suoi predecessori, in parte al risultato dei suoi studi. Quello dovuto a tradizione aveva spesso origini antichissime, che risalivano talvolta fino ai tempi di Moshè. Nel periodo del quale ci occupiamo i Maestri non mettevano per iscritto a disposizione del pubblico i loro insegnamenti e quindi non si può parlare di letteratura rabbinica. È però probabile che alcuni di essi abbiano redatto degli appunti scritti per loro uso personale. Ai Maestri dell’epoca di cui trattiamo risale l’origine delle norme rituali che costituirono in seguito, e costituiscono fino ad oggi, le basi per l’applicazione pratica delle norme della Torà. Ad essi vanno pure attribuite alcune delle più antiche tefìllòt.
c) Sinedrio e tribunali
Il Sinedrio, che abbiamo più volte ricordato, funzionò sempre, a quanto pare, nel periodo di cui trattiamo, ma ci mancano notizie precise sul suo funzionamento e sul modo come venivano nominati i suoi membri, ed è probabile che, nel corso degli anni, siano avvenuti dei cambiamenti in relazione anche alle condizioni politiche. Esso risiedeva a Gerusalemme, in uno dei locali adiacenti al Tempio, ed era costituito da 71 membri, tutti o in gran parte Maestri.
Anche nei tempi in cui la sua autorità non era piena, fungeva come tribunale superiore e come organo per l’osservanza della Torà. Tribunali minori, di 23 membri, giudicavano cause di particolare gravità; tribunali di 3 membri giudicavano le varie questioni tra singoli. La nomina dei giudici era talvolta sottoposta all’approvazione del Sinedrio.
d) I Maestri più illustri.
Quanto all’età che corre dalla fine della kenèset haghedolà fino alla metà circa del I sec. a.E.V., ci sono noti soltanto i nomi di coppie (zugòt) di Maestri che, secondo la tradizione, stavano a capo del Sinedrio. Uno dei più illustri di essi è Shim’òn figlio di Shètach. A quanto pare al tempo degli ultimi Asmonei appartengono Shema‘yà e Avtalyòn; i loro scolari Hillèl e Shammài fiorirono verso la metà del I sec. a.E.V. e costituirono l’ultima delle coppie. Specialmente illustre è il primo di essi, rinnovatore dello studio della Torà dopo un periodo di tempo in cui sembra che esso non sia stato molto in fiore. Nato in Babilonia, visse poveramente e fece gravi sacrifici per frequentare la scuola dei suoi Maestri; di lui si narrano vari aneddoti che ne dimostrano la bontà, l’umiltà e la pazienza, e a lui si attribuiscono provvedimenti di pubblica utilità. Egli può considerarsi come il fondatore di una dinastia di Maestri che col titolo di Nasì (principe, patriarca), furono capi della comunità ebraica in Èretz Israèl per molte generazioni e che, secondo la tradizione, discendevano, in linea femminile, dal re Davìd. Tra questi va ricordato in modo speciale, per il tempo di cui trattiamo, Rabbàn (così si designarono i Nesiìm) Gamlièl I, nipote di Hillèl, che visse agli inizi dell’era volgare.
Hillèl e Shammài fondarono due scuole di dotti, Bet Hillèl e Bet Shammài, che, concordi nell’amore per la Torà e nell’attuare i mezzi per facilitarne la diffusione e l’osservanza, furono in controversia riguardo a molti particolari. Gli allievi di Hillèl e Shammài e i Maestri successivi, fino alla redazione della Mishnà, si chiamano Tannaìm (da una radice aramaica che significa: ripetere, insegnare). Tra gli alunni di Hillèl occupa un posto particolarmente insigne Yochanàn ben Zakkài, che già abbiamo nominato e del quale dovremmo ancora parlare.