Capitolo 2 – I figli d’Israele in Egitto
Le fonti
Emigrazione dei figli d’Israele in Egitto
La schiavitù d’Egitto
L’uscita dall’Egitto
Data degli avvenimenti
Le fonti
Le sole indicazioni precise che abbiamo intorno alle circostanze in cui i figli d’Israele emigrarono in Egitto e alle loro vicende in questo paese fino a che ne uscirono sono quelle contenute nel primo e nel secondo libro della Torà, Bereshìt e Shemòt (Genesi ed Esodo). Nei documenti egiziani non si sono fino ad ora trovate notizie che riguardino sicuramente i figli d’Israele, e per questo motivo non è neppure possibile stabilire quali siano i re d’Egitto con i quali i nostri padri furono in rapporto. La Torà non ci dà i loro nomi, ma designa ciascuno di essi col termine Faraone (Par‘ò) che è appellativo comune a tutti i re dell’antico Egitto.
Emigrazione dei figli d’Israele in Egitto
Le tribù seminomadi che abitavano nella terra di Kanà’an e nelle regioni desertiche fra questa e l’Egitto non di rado, specialmente in annate di carestia, solevano trasferirsi provvisoriamente in questo paese, che generalmente era ben provvisto di grano. Così fecero talvolta, come già sappiamo, i nostri patriarchi.
Una di queste immigrazioni, che ebbe luogo ai tempi del patriarca Ya’akòv, fu di particolare importanza perché in conseguenza di essa i nostri antenati soggiornarono a lungo in Egitto, per secoli dopo che era cessata la causa che li aveva indotti ad emigrare. Secondo quanto ci narra la Torà, ciò avvenne perché in seguito a contese sorte tra i figli di Ya’akòv, il penultimo di questi, Yosèf (Giuseppe), odiato dai fratelli per varie ragioni e specialmente perché aveva loro narrato dei sogni da lui fatti che parevano indicare che egli era designato ad avere supremazia su di loro e perfino sui loro genitori, finì per essere venduto schiavo in Egitto dove, dopo varie peripezie, fu elevato al grado di viceré. Egli salì a tale dignità perché indicò al Faraone come provvedere, durante anni di grande abbondanza, all’approvvigionamento per anni di carestia che li avrebbero seguiti. Dai documenti dell’antico Egitto risulta che talvolta avveniva che per parecchi anni consecutivi il Nilo non straripasse in misura sufficiente a rendere produttivo il paese, sul quale non scende quasi mai la pioggia, e del quale soltanto le inondazioni del fiume rendono possibile l’irrigazione.
Ya’akòv, così narra la Torà, in seguito alla carestia che infieriva sul paese di Kanà’an, anziché trasferirsi in Egitto come aveva fatto Avrahàm, mandò una prima volta dieci dei suoi figli, e una seconda volta anche il più piccolo, Binyamìn, in Egitto perché si rifornissero di cibo. Yosèf, da loro non riconosciuto, col quale si incontrarono perché era l’incaricato della distribuzione dei viveri, li riconobbe subito, e fu per sua richiesta che essi ritornarono col fratello minore. In occasione del secondo viaggio dei fratelli in Egitto, si fece riconoscere da loro e chiamò presso di sé Ya’akòv e la sua famiglia. Questa rimase in Egitto anche dopo la morte di Ya’akòv e di tutti i suoi figli, stanziata nella terra di Gòshen presso il Delta, loro assegnata dal Faraone, nella quale si diedero alla pastorizia. Ya’akòv, prima di morire, si fece promettere da Yosèf che lo avrebbe sepolto nella tomba di famiglia nella grotta di Makhpelà, e così fu fatto. È probabile che siano immigrati in Egitto, oltre che gli appartenenti m senso stretto alla famiglia di Ya’akòv, anche i loro seguaci e i loro schiavi, che facevano parte del gruppo degli ‘Ivrim, e alcuni storici ritengono che queste immigrazioni non fossero avvenute tutte in una volta, e che gli immigrati si fossero riuniti in Egitto uscendo poi dal paese insieme ai membri della famiglia di Ya’akòv, o, usciti di lì a poco, li avessero raggiunti poi durante il viaggio aggregandosi all’una o all’altra delle tribù.
La schiavitù d’Egitto
Il benessere di cui godettero gli immigrati nei primi tempi della loro residenza in Egitto li indusse a non ritornare nel loro paese anche dopo il cessare della carestia, ed essi crebbero assai di numero. Ma, sorta a quanto pare in Egitto una nuova dinastia regnante, il governo cominciò a preoccuparsi della forza che andavano acquistando i figli d’Israele, e particolarmente a temere che, in occasione di frequenti invasioni di tribù straniere, essi facessero lega con gli invasori contro la popolazione nazionale, e quindi adottarono varie misure per indebolirli. Anzitutto li ridussero in condizioni di schiavitù, obbligandoli specialmente a duri lavori per le grandi costruzioni che in quei tempi fecero eseguire i re d’Egitto. È probabile che i nostri padri abbiano lavorato, fra l’altro, alla fabbricazione di alcune delle famose piramidi d’Egitto. In seguito gli Egiziani presero dei provvedimenti che avevano il preciso scopo di distruggere gli Ebrei a poco a poco. Fra gli esempi di questi provvedimenti di cui parla la Torà è specialmente notevole un decreto per il quale tutti i maschi ebrei dovevano essere, appena nati, affogati nel Nilo. Non sappiamo se e in quale misura il decreto venne eseguito; la Torà ci narra però di un figlio di due membri della tribù di Levì, ’Amràm e Yokhèved, che, sfuggito alla persecuzione, venne allevato nella corte reale per volere di una figlia del Faraone. È questi Moshè (Mosè) che si sentì destinato dalla Provvidenza divina a liberare i suoi fratelli dalla schiavitù e dall’esilio, a farne un popolo regolato da proprie leggi e ad avviarlo al possesso della terra che esso sapeva a lui destinata da Dio che l’aveva promessa ai patriarchi.
L’uscita dall’Egitto
La Torà ci narra che, in grazia dell’abilità di Miriàm, sorella maggiore di Moshè, questi poté passare i primi anni della sua infanzia presso la madre. È probabile che questa gli abbia reso noto che egli non era egiziano, ma figlio d’Israele. Fatto sta che, divenuto adulto dopo molti anni di dimora nella casa del Faraone, durante i quali, a quanto pare, ebbe la sua istruzione e la sua educazione, compì degli atti che davano chiaramente a vedere che non voleva adattarsi alla condizione di servitù in cui i suoi fratelli si trovavano; ricercato per avere ucciso un Egiziano che percuoteva un Ebreo, fuggì dall’Egitto, riparò nel paese di Midiàn, tra l’Egitto e i deserti arabici, prese là in moglie Tzipporà, figlia del sacerdote midianita Yitrò (Jetro) e fu pastore del gregge di questo. Un giorno, mentre esercitava questo suo compito, ebbe una visione: egli riconobbe che gli si manifestava l’unico Dio, venerato da Israele per antica consuetudine, che gli imponeva di farsi strumento della Sua volontà agendo presso il Faraone per indurlo a mandare in libertà i figli d’Israele, conducendo questi fuori dall’Egitto e guidandoli verso la terra di Kanà’an. Moshè, sbigottito, prima riluttante, finì per aderire, e ritornò in Egitto con la moglie e con i due figli: Ghereshòm ed Eli’èzer, che gli erano nati. Là s’incontrò col fratello Aharòn (Aronne) che, non essendo Moshè buon parlatore, era destinato ad accompagnarlo nella sua missione.
Avuti dei segni nei quali essi riconobbero prove dell’assistenza divina, i due fratelli si presentarono al Faraone come inviati dell’unico Dio, Dio d’Israele, e gli chiesero la liberazione dei fratelli. In seguito al rifiuto del re, annunziarono gravi punizioni divine per lui e per la sua terra. Effettivamente l’Egitto, i suoi abitanti e i suoi animali furono colpiti successivamente da gravi flagelli (le famose Dieci Piaghe d’Egitto), l’ultimo dei quali, ci narra la Torà, fu la morte improvvisa di tutti i primogeniti. I figli d’Israele e, alla fine, anche il Faraone e i suoi sudditi, videro in questi flagelli la mano di Dio, e così i figli d’Israele poterono uscire, guidati da Moshè, dall’Egitto. L’uscita fu precipitosa; i figli d’Israele non ebbero neppure il tempo di fare fermentare la pasta del pane, dunque si nutrirono di pane azzimo (matzà). Essi chiesero ed ottennero dagli Egiziani abiti e oggetti preziosi. Prima dell’uscita celebrarono, per ordine divino a mezzo di Moshè, un solenne sacrificio (korbàn Pèsach). L’uscita dall’Egitto ebbe luogo il 15 di nisàn.
Data degli avvenimenti
Non è possibile stabilire con precisione quando avvennero i fatti narrati in questo capitolo. Le notizie della Torà sono state interpretate in modi diversi. La durata della schiavitù fu, secondo un’interpretazione di un passo della Torà, di 430 anni; secondo un’altra interpretazione, soltanto di 210. Indicazioni sicure nei documenti egiziani mancano. I pareri degli storici, fondati tutti su congetture e non su dati positivi, sono discordi. Tutto quello che si può dire è che l’immigrazione dei figli d’Israele in Egitto dovette avvenire circa fra il XVIII e il XV secolo a.E.V.; l’uscita fra il XIV e il XII. Questi cinque secoli comprendono l’età in cui, all’incirca, secondo il sistema più generalmente seguito, regnarono in Egitto le dinastie XIV e XIX (1750-1200 a.E.V. circa). Secondo l’idea di coloro che collocano l’immigrazione nel secolo XVIII, essa sarebbe avvenuta agli inizi del tempo in cui dominarono in Egitto gli Hyksos.