Capitolo 24 – La guerra per l’indipendenza e la distruzione del Tempio e di Gerusalemme
Le fonti
Il governo provvisorio
La guerra in Galilea: a) Giuseppe di Mattityàhu (Flavio); b) Caduta di Yodfàt; c) Conquista romana della Galilea
Gli avvenimenti in Giudea: a) Disordini e terrore a Gerusalemme; b) Nuove conquiste romane; c) Interruzione delle operazioni romane; d) Condizioni interne di Gerusalemme; e) Assedio romano a Gerusalemme; f) Distruzione del Tempio; g) Distruzione di Gerusalemme; h) Condizione dei superstiti; i) Celebrazione del trionfo del vincitore a Roma; l) Fine della guerra
Le fonti
Vedi capitolo precedente. Le notizie di Giuseppe Flavio hanno particolare importanza perché egli fu non solo contemporaneo agli avvenimenti, ma prese parte a molti di essi. D’altra parte però va tenuto conto del fatto che appunto per questo egli, più che narrare oggettivamente i fatti, si propone talvolta di giustificare la propria condotta che fu spesso soggetta a critica. Di un altro storico, che fu pure contemporaneo ai fatti e partecipò ad essi, Giusto di Tiberiade, non ci è giunta l’opera, ed egli ci è noto solo per quello che dice di lui Giuseppe Flavio, suo avversario.
Il governo provvisorio
Con la ritirata di Cestio Gallo la Giudea era per il momento di fatto libera dal giogo romano. In conseguenza prevalse il partito che voleva la guerra a oltranza contro i Romani, e ad esso si avvicinarono anche alcuni che prima erano tiepidi fautori della lotta contro Roma o addirittura contrari ad essa. Nessuno dubitava che Roma avrebbe intrapreso un’energica azione per sottomettere definitivamente il paese e quindi occorreva prepararsi alla difesa. A questa cominciò a provvedere una specie di governo provvisorio di cui fecero parte appartenenti ai vari partiti, Farisei e Sadducei, e nazionalisti zeloti e moderati, con esclusione solo dei seguaci di Agrippa II che non intendevano combattere contro Roma. Alle varie zone della Giudea furono preposti uomini che avevano il compito essenziale di preparare la difesa costruendo fortificazioni e arruolando soldati.
La guerra in Galilea
a) Giuseppe di Mattityàhu (Flavio)
Alla Galilea fu preposto il sacerdote fariseo Giuseppe figlio di Mattityàhu, che ebbe poi il soprannome di Flavio e che si rese famoso per le sue opere storiche. Non pare che la scelta sia stata molto felice, perché Giuseppe era un nazionalista assai tiepido. Avendo vissuto parecchi anni a Roma, vi aveva assorbito la cultura greco-romana, aveva contratto amicizie con personaggi romani molto in vista, si era persuaso della potenza quasi invincibile di Roma, e a Gerusalemme era vicino alla cerchia di Agrippa. Comunque, egli accettò l’incarico di provvedere alla difesa della Galilea, che era di importanza capitale, dato che di là gli eserciti romani penetravano nel paese e che nei luoghi di popolazione mista, quale era appunto la Galilea, non mancavano, anche fra gli Ebrei, i fautori dei Romani. Giuseppe fortificò parecchi punti e provvide all’arruolamento di soldati, ma molti giudicarono che egli non agisse con sufficiente energia, e alcuni perfino sospettarono che favorisse i Romani, specialmente dopo che aveva dato prova manifesta di amicizia con Agrippa. I suoi avversari, tra i quali l’eroe galileo Giovanni di Giscala (Gush Chalàv), lo accusarono a Gerusalemme e cercarono di farlo destituire; il governo provvisorio decise il suo richiamo, ma Giuseppe riuscì a rendere nulla questa decisione.
b) Caduta di Yodfàt
A comandante della spedizione contro la Giudea fu da Nerone nominato Flavio Vespasiano, valoroso generale che si era già segnalato in altre imprese. Il suo esercito era numerosissimo e bene agguerrito, formato da legioni romane e da truppe ausiliarie di re dipendenti da Roma, tra i quali Agrippa che si trovava nell’accampamento romano insieme alla sorella Berenice. A Vespasiano si unì poi il figlio Tito con truppe da lui reclutate in Egitto. Fra Tito e Berenice intercorsero rapporti amorosi. Sbarcato ad Akko e penetrato in Galilea, Vespasiano ottenne senz’altro la dedizione di Tzipporì e il comandante da lui inviato in essa con i suoi soldati si impadronì di località vicine. Giuseppe, stando al suo racconto, si occupò attivamente di fortificazioni e arruolamenti in attesa dell’assalto nemico. Molti suoi soldati, impauriti dell’avanzata romana, lo abbandonarono. Giuseppe chiese al governo di Gerusalemme che o lo si autorizzasse a trattare la resa o gli si inviassero rinforzi, e si chiuse con il grosso del suo esercito nella città di Yodfàt (Iotapata), non facilmente espugnabile, perché situata su una rupe circondata da profondi burroni. I Romani vi posero l’assedio; si combatté aspramente da ambo le parti, e Vespasiano stesso rimase ferito leggermente. Dopo due mesi di assedio i Romani penetrarono nella città e fecero strage degli abitanti, mentre molti di questi si diedero spontaneamente la morte. La condotta di Giuseppe dopo l’espugnazione di Yodfàt, secondo il suo stesso racconto, è tale da confermare i sospetti contro di lui. Penetrati i Romani nella città, si nascose in una cisterna vuota collegata con una grotta e vi trovò alcune decine di uomini che vi si erano nascosti prima di lui. Il nascondiglio venne scoperto e Vespasiano fece invitare i nascosti a uscire e arrendersi. Giuseppe era disposto ad aderire, ma gli altri si opposero, dichiarandosi pronti a togliersi la vita e invitando Giuseppe a fare altrettanto. Su proposta di questo si decise allora di uccidersi l’un l’altro. Morti così quasi tutti, Giuseppe si trovò per caso con un solo altro compagno e gli propose di arrendersi, e così essi fecero. Vespasiano, in un primo tempo, espresse il proposito di mandare Giuseppe a Roma per sottoporlo al giudizio di Nerone; ma poi, colpito dalle adulazioni di Giuseppe che gli predisse che sarebbe salito sul trono imperiale, lo tenne presso di sé ed egli divenne suo amico e consigliere (67 E.V.).
c) Conquista romana della Galilea.
Trascorsi lietamente una ventina di giorni in Cesarea (Neroniade) in compagnia di Agrippa per festeggiare la caduta di Yodfàt, Vespasiano e Tito procedettero a compiere la conquista della Galilea. Nelle città di questa zona i patrioti lottavano con coloro che volevano la sottomissione a Roma. Quelle per la conquista delle quali i Romani dovettero lottare, come Tariche, furono crudelmente punite; quelle che, come Tiberiade, aprirono le porte al nemico furono risparmiate. L’ultima città a cadere fu Giscala: Giovanni, capo dei patrioti, non riuscì a impedire che gli abitanti si sottomettessero, e riparò in Gerusalemme con una piccola schiera di fedeli. I Romani lo inseguirono, ma non riuscirono a prenderlo. Alla fine del 67 tutta la Galilea era in mano ai Romani.
Gli avvenimenti in Giudea
a) Disordini e terrore a Gerusalemme
Gli avvenimenti in Galilea convinsero i nazionalisti più accesi che non ci si poteva fidare dei più tiepidi, alla condotta dei quali essi attribuivano la caduta di quella regione. Essi mirarono ad avere da soli il governo di Gerusalemme, mentre i più moderati si opponevano perché, pur riconoscendone l’entusiasmo ed il valore, temevano dei loro eccessi. Il partito più moderato era capeggiato dall’ex Sommo Sacerdote Yehoshùa’, figlio di Gamlà, dal ricco possidente Giuseppe figlio di Guriòn e dall’insigne Maestro Shim’òn figlio di Gamlièl. Gli estremisti erano guidati da El’azàr figlio di Shim’òn e da Giovanni di Giscala che si erano segnalati in altre imprese. La lotta fu fiera e violenta: finirono per prevalere gli estremisti che non esitarono a chiamare in loro aiuto gli Idumei e riuscirono a far entrare segretamente in città delle truppe nonostante l’opposizione dei moderati. Diventati padroni della città, gli estremisti iniziarono un regime di terrore e uccisero senza pietà tutti coloro che essi sospettavano di connivenza coi Romani o di tiepido patriottismo. Tra gli altri, cadde loro vittima Giuseppe figlio di Guriòn (68).
b) Nuove conquiste romane
Occupata la Galilea, non fu difficile ai Romani impadronirsi di gran parte del paese, le città del quale erano indifese. Quasi tutta la Giudea, la regione di Samaria, la valle del Giordano, la regione costiera presso Yavnè, Yerichò, erano ormai in mano dei Romani, per i quali era aperta la via verso Gerusalemme.
c) Interruzione delle operazioni romane
Intanto erano avvenuti a Roma dei fatti che distolsero i Romani per qualche tempo dal continuare azioni decisive in Giudea. Morto Nerone (giugno 68) si erano succeduti parecchi imperatori, alcuni dei quali vennero uccisi, e Roma era in preda ad agitazioni. Di questo approfittarono i patrioti sparsi in vari punti di Èretz Israèl per agire contro i Romani. Da ricordare in modo speciale è l’azione di Shim’òn figlio di Ghiyora che, allontanato da Gerusalemme quando vi prevalevano i moderati, si era fortificato a Masada e dominava nella regione circostante. Spesso egli assaliva truppe romane e colpiva Ebrei filo-romani o tiepidi, e riuscì ad occupare l’Idumea e parecchi punti della Giudea meridionale.
d) Condizioni interne di Gerusalemme
Gerusalemme era in mano degli estremisti ma fra i loro capi non c’era accordo. Giovanni di Giscala, che allora dominava in Gerusalemme, si preoccupò dei progressi di Shim’òn e temeva che questi venisse a Gerusalemme ed avesse il sopravvento su di lui: dopo vari urti fra i due estremisti, Shim’òn riuscì ad entrare a Gerusalemme (69) ed egli e Giovanni si contesero il dominio sulla città. In seguito ad accordo fra loro due e il terzo capo dei patrioti, El’azàr, la città venne divisa in zone su ciascuna delle quali dominava uno di loro, ma questo non impedì che avvenissero contese ed uccisioni fra i loro seguaci, e solo quando il pericolo romano si fece più minaccioso essi si accordarono nello sforzo finale di salvare l’indipendenza.
e) Assedio romano a Gerusalemme
Le contese per la successione all’impero romano finirono con l’acclamazione di Vespasiano a imperatore da parte dell’esercito: egli partì per l’Italia e lasciò in Giudea il figlio Tito (principio del 70) che pensò subito a porre l’assedio a Gerusalemme. Egli aveva tra i suoi amici e consiglieri parecchi Ebrei ormai estranei al loro popolo: Agrippa, Berenice, l’apostata Tiberio Alessandro e Giuseppe, soprannominato Flavio appunto per il suo attaccamento alla famiglia dei Flavi, a cui appartenevano Vespasiano e Tito. L’esercito romano giunse alle mura esterne di Gerusalemme nella primavera del 70. La città era fortificatissima, specialmente nelle adiacenze del Tempio. In alcuni punti Gerusalemme era circondata da una triplice cerchia di mura. La resistenza ebraica, guidata specialmente da Giovanni di Giscala e da Shim’òn figlio di Ghiyora, fu oltremodo accanita. Tito propose la resa e il ritorno alle condizioni di prima della guerra; ma i nazionalisti accesi che dominavano nella città rifiutarono. Gli Ebrei facevano frequenti sortite, e una volta poco mancò che Tito, in giro di ispezione intorno alla città, fosse fatto prigioniero; spesso riuscirono a disturbare i Romani nei loro lavori di assedio, e negli scontri con gli Ebrei anche molti di essi rimasero uccisi. I Romani, da parte loro, con potenti macchine cercavano di abbattere le mura, dall’alto delle quali gli assediati lanciavano pietre, frecce e tizzoni accesi. Nel maggio i Romani riuscirono ad aprire una breccia nel muro esteriore che circondava la città dal lato settentrionale. Pochi giorni dopo anche nel secondo muro venne aperta una breccia: gli Ebrei riuscirono a ricacciare i Romani fuori della città, ma in seguito essi vi penetrarono di nuovo e vi si fortificarono. Continuava a resistere la fortezza Antonia nei pressi del Tempio. Tito mandò Giuseppe Flavio con l’incarico di persuadere gli Ebrei alla resa, ma il suo discorso fu interrotto da grida e lanci di pietre. Intanto la mancanza di viveri cominciò a mietere vittime nella popolazione e a farsi sentire anche fra i soldati, diminuendone la forza di resistenza. Alcuni che tentarono di uscire per procurarsi cibo furono presi e crocifissi dai Romani davanti alle mura per incutere terrore negli assediati; altri furono da Tito rimandati nella città dopo che furono loro tagliate le braccia. La fame indusse gli assediati ad azioni disperate: si videro anche ricchi andare cercando avanzi di cibo fra le immondizie; persone affamate cercavano di rubare il poco cibo che si trovava in mano di altre parimenti affamate. Essendosi sparsa fra i Romani la voce che alcuni, per salvare il loro denaro, inghiottivano monete di oro e poi uscivano dalla città, molti furono presi e squartati. La fortezza Antonia, intorno alla quale gli Ebrei avevano, all’insaputa dei Romani, costruito un secondo muro interno, cadde in potere nemico il 5 di tammùz 70. I difensori si fortificarono allora negli atri del Tempio che diventarono teatro di battaglia. Il 17 di tammùz si cessò, per mancanza di sacerdoti e di animali, di offrire il sacrificio quotidiano. Nuovi inviti alla resa fatti da Giuseppe Flavio rimasero inascoltati. È forse da collocarsi in questo tempo l’episodio ricordato nella tradizione rabbinica della uscita dalla città con uno stratagemma di uno dei più insigni Maestri, Yochanàn ben Zakkài che, prevedendo ormai che Gerusalemme sarebbe presto caduta, e l’indipendenza politica definitivamente cessata, si presentò a Tito e chiese ed ottenne che nella città di Yavnè fosse costituito un centro di studi. Con questo egli si propose di salvare lo spirito della nazione dopo che fosse caduta la sua indipendenza politica, e riuscì nel suo intento.
f) Distruzione del Tempio.
Penetrati i Romani nel cortile esterno del Tempio, i difensori si ritirarono nel cortile interno (8 av). Tito convocò i suoi consiglieri per discutere se convenisse distruggere il Tempio o risparmiarlo. Prevalse la seconda proposta; ma, di fatto, i Romani lanciarono tizzoni accesi, e uno di questi, penetrato nel Santuario attraverso una finestra, lo mise in fiamme (10 av). I Romani appiccarono quindi il fuoco alle costruzioni adiacenti e fecero strage degli Ebrei nei quali si imbattevano.
g) Distruzione di Gerusalemme
Resistevano ancora i difensori della parte occidentale della città, comandati da Shim’òn figlio di Ghiyora, coi quali riuscì a congiungersi Giovanni di Giscala con alcuni dei suoi, scampati dall’incendio del Tempio e dalle sue adiacenze. I due condottieri, che dopo la distruzione del Tempio avevano perduto ogni speranza e che vedevano, per mancanza di viveri, impossibile continuare la resistenza, fecero sapere a Tito che sarebbero stati disposti ad abbandonare la città se fosse stato loro concesso di uscirne armati. Avendo Tito rifiutato e richiesto una resa senza condizioni, continuarono la lotta fortificandosi nel palazzo di Erode. Ma molti dei difensori abbandonarono le schiere dei combattenti e si nascosero; gli Idumei passarono ai Romani.
I pochi rimasti, quando si videro impotenti a continuare la lotta, si nascosero anch’essi in sotterranei. I Romani completarono la conquista di Gerusalemme e issarono la bandiera romana sul palazzo di Erode (elùl 70), fecero strage di coloro che trovavano e si diedero al saccheggio e all’incendio, cosicché la città fu quasi interamente distrutta. Rimasero in piedi le tre torri del palazzo di Erode, una delle quali, detta torre di Davìd, esiste tuttora nella parte vecchia di Gerusalemme, presso la porta di Giaffa, e un tratto del muro esteriore del Tempio dalla parte occidentale, detto kòtel ma‘aravì (muro occidentale) o muro del pianto, che esiste anch’esso tuttora. Nel luogo dove era stata Gerusalemme si stanziò una legione romana, la decima.
h) Condizione dei superstiti
I pochi che erano sfuggiti alle stragi e che non erano riusciti a trovare scampo fuori di Gerusalemme furono ridotti in condizione di schiavi e sottoposti a lavori forzati, o costretti a lottare nei circhi coi gladiatori e con le belve feroci. Circa duecento, amici di Giuseppe Flavio, furono, per intercessione di questo, liberati. Alcuni dei più forti e valorosi furono destinati ad ornare il trionfo da celebrarsi. Giovanni di Giscala e Shim’òn figlio di Ghiyora furono tra questi.
i) Celebrazione del trionfo del vincitore a Roma
Dopo che la vittoria romana fu festeggiata a Cesarea alla presenza di Tito con spettacoli di gladiatori e di lotte con belve feroci, durante i quali furono uccisi o sbranati più di duemila prigionieri ebrei, un grande trionfo fu celebrato a Roma. Furono portati in processione gli arredi del Tempio. Era consuetudine che, nella celebrazione del trionfo, venisse ucciso il capo dei vinti, e questo onore toccò a Shim’òn figlio di Ghiyora. Giovanni di Giscala fu condannato al carcere a vita. A Roma fu eretto un arco (arco di Tito) che ancora esiste, nel quale sono raffigurati, fra l’altro, alcuni degli arredi del Tempio. A ricordo della vittoria venne coniata una moneta con l’effigie di una donna piangente, con catene alle braccia, e l’iscrizione Judaea devicta, o Judaea capta (Giudea vinta – Giudea resa prigioniera). Contrariamente all’uso romano che il vincitore assumesse come soprannome il nome del popolo vinto, né Vespasiano né Tito vollero il titolo di Judaeus, per timore che questo venisse interpretato nel senso di Ebreo o amico degli Ebrei. L’offerta che gli Ebrei solevano annualmente destinare al Tempio venne devoluta al fisco imperiale. Questa tassa si chiamò fiscus Judaeus.
l) Fine della guerra
In Èretz Israèl rimanevano ancora tre fortezze in mano agli zelanti. Esse caddero una dopo l’altra. Quella che resistette più a lungo fu quella di Masada a capo dei difensori della quale era El’azàr figlio di Yaìr, discendente di Yehudà Galileo. Dopo una strenua difesa analoga a quella durante l’assedio di Gerusalemme, gli assediati, su proposta del loro capo che riconobbe impossibile continuare la resistenza, uccisero le loro donne e i loro bambini e poi si diedero la morte l’uno con l’altro. Quando i Romani vi entrarono, non trovarono che dei cadaveri (aprile 73). Così ebbe fine la guerra. Non vi fu più traccia di uno stato ebraico, ma non morì la nazione ebraica.