Capitolo 14 – Vicende dei rimpatriati durante il dominio persiano
Le fonti
Il primo gruppo di rimpatriati: Zerubbavèl e Yehoshùa’: a) I rimpatriati; b) Il paese e le sue condizioni; c) La costruzione del Tempio; d) I primi decenni dopo la ricostruzione
’Ezrà e Nechemyà: a) ’Ezrà e la seconda immigrazione; b) Scioglimento dei matrimoni misti: c) Venuta di Nechemyà in Giudea; d) Costruzione delle mura di Gerusalemme; e) Riordinamento civile della comunità; f) Instaurazione dell’autorità della Torà; g) La seconda venuta di Nechemyà
La comunità dopo ’Ezrà e Nechemyà: a) Notizie generali; b) Avvenimenti vari; c) Separazione definitiva dei Samaritani; d) Condizioni interne della comunità giudaica; e) Il culto del Tempio; f) La sinagoga; g) I Maestri della Torà; h) Idee e credenze
Le fonti
Le notizie sul ritorno in patria di parte degli esuli in Babilonia e su quello che avvenne loro nei primi tempi dopo il ritorno si desumono principalmente dal libro biblico di ’Ezrà (nelle edizioni moderne diviso in due: ’Ezrà e Nechemyà). Essi riportano il testo di parecchi documenti ufficiali, tra cui anche quello dell’editto di Ciro, e passi delle memorie scritte da ’Ezrà e Nechemyà stessi intorno alla loro attività. Non sempre i fatti sono narrati in ordine cronologico, e quindi in alcuni casi è dubbio quale questo sia esattamente. Come fonte storica sono utili anche i discorsi profetici, parzialmente datati, contenuti nei libri degli ultimi profeti, Chaggài, Zekharyà e Malakhì, che furono contemporanei agli avvenimenti.
Le notizie che si ricavano da tutte queste fonti vanno fino a poco più di un secolo circa dopo l’inizio del rimpatrio. In seguito, per oltre due secoli mancano quasi del tutto le notizie e il poco che sappiamo si desume da tradizioni raccolte dallo storico Giuseppe Flavio o fornite incidentalmente nella letteratura talmudica o da autori non ebrei.
Il primo gruppo dei rimpatriati: Zerubbavèl e Yehoshùa’
a) I rimpatriati
L’editto di Ciro fu naturalmente accolto con grande gioia, e subito alcuni ne approfittarono; ma esso non pose fine all’esilio babilonese, perché non tutti, e neppure la maggioranza, lasciarono la Babilonia: il benessere di cui gli Ebrei vi godevano indusse a rimanervi tutti coloro che non avevano uno spirito nazionale così forte da spingerli ad abbandonare i loro agi per ritornare nel paese degli avi, dove essi prevedevano che non avrebbero trovato uguali comodità. I ricchi rimasti in Babilonia sostennero però con generose offerte coloro che rimpatriarono. I ritornati del primo gruppo furono meno di 50.000 compresi gli schiavi. Essi uscirono dalla terra dell’esilio nella primavera del 537 a.E.V.; loro capi erano Zerubbavèl, di famiglia reale, e il sacerdote Yehoshùa’ figlio di Yehotzadàk. In genere, essi ritornarono nei luoghi dove avevano risieduto le loro famiglie prima dell’esilio, in Giudea. Da questo momento il popolo d’Israele è diviso in due frazioni: quella dei residenti in patria e quelli che vivono in esilio, concentrati per ora quasi tutti in Babilonia.
b) Il paese e le sue condizioni
Gli Ebrei che tornarono in Giudea trovarono uno stato di cose tutt’altro che soddisfacente. Il loro piccolo territorio era circondato da popolazioni non benevolmente disposte verso di loro: a nord i Samaritani, a occidente i residui dei Filistei, specialmente in Ashdòd, ad oriente gli Ammoniti, a mezzogiorno gli Idumei, che, oltre al loro antico territorio, occupavano anche la parte meridionale della Giudea. La città di Gerusalemme era priva di mura e in gran parte diroccata, le strade erano malsicure, la terra era desolata. In mezzo alle altre popolazioni confinanti con la Giudea era rimasta una parte dell’antica popolazione giudaica non deportata in esilio. Mentre gli esuli avevano, fuori della patria, ritemprato il loro spirito, i rimasti avevano perduto ogni ideale e si erano quasi interamente assimilati ai popoli confinanti; la lingua prevalente fra di essi era non l’ebraico, ma l’aramaico, e anche altre lingue straniere erano parlate.
La colonia che si era formata godeva, a quanto pare, di larghe autonomie, e il governo centrale persiano non richiedeva altro che il pagamento di tasse. È ricordato un primo governatore, di nome Sheshbatzar, che però, secondo alcuni, è il nome persiano di Zerubbavèl; certo in un tempo posteriore fu questi il governatore. In lui si riponevano grandi speranze, e, dato che egli era di stirpe reale, molti ritenevano che non sarebbe stato lontano il giorno in cui si sarebbe ottenuta la piena indipendenza, rinnovando la monarchia davidica. Questa idea fu incoraggiata da uno dei profeti del tempo, Zekharyà (Zaccaria), che si riprometteva che l’opera concorde dei due capi Zerubbavèl e Yehoshùa’, assistiti dalla Provvidenza divina, guidasse il popolo verso un avvenire glorioso. Pare però che fra i due capi ci siano stati dei contrasti, e che alcuni giudicassero Yehoshùa’ macchiato di colpe che non sappiamo quali fossero. Le condizioni economiche non erano molto floride, e, ad aggravare le difficoltà derivanti dallo stato di desolazione in cui si trovava il paese, si succedettero alcuni anni di siccità e di conseguente scarsità di prodotti. Il paese poi dovette anche soffrire non poco per il passaggio degli eserciti persiani diretti contro l’Egitto durante il regno di Cambise (529-522).
c) La costruzione del Tempio
I rimpatriati, come è ben naturale, appena giunti in Giudea verso la fine dell’estate, pensarono alla ripresa del culto dei sacrifici: subito costruirono un altare sul luogo dove si era trovato quello antico, e nel mese di tishrì cominciò a funzionare regolarmente il culto pubblico. Celebrata la festa di Sukkòt, si iniziarono i preparativi per la costruzione del Tempio e si fecero venire materiali e artefici dai territori fenici. Nel mese di iyàr furono con grande solennità poste le fondamenta del nuovo edificio ed ebbero principio i lavori. Questi però non procedettero come si sarebbe desiderato, specialmente perché nemici degli immigranti riuscirono ad ottenere dal governo persiano, forse già verso la fine del regno di Ciro, e certamente sotto i suoi successori, che fosse ordinata la sospensione dei lavori. Fra le popolazioni che osteggiavano gli Ebrei ebbero parte importante i Samaritani, ai quali venne rifiutato di collaborare alla costruzione del Tempio e al suo culto, come essi avevano chiesto. Essi appoggiarono la loro richiesta sul fatto che da parecchie generazioni avevano riconosciuto il Dio d’Israele come loro Dio e gli avevano prestato culto. Ma i capi degli Ebrei, ai quali risultava che essi associassero il culto di Dio a quello di divinità straniere, non ritennero opportuno aderire alla loro domanda, per timore di influenze straniere analoghe a quelle che erano state causa di tante calamità nel periodo del primo Tempio. Non è impossibile poi che il cambiamento di atteggiamento da parte del governo persiano centrale sia stato dovuto al sospetto, certo non infondato, che gli Ebrei intendessero servirsi del ripristino del culto nazionale, che era stato loro concesso, per arrivare all’indipendenza politica, approfittando anche di rivolgimenti che avvenivano in varie parti dell’impero persiano.
Nel quarto anno di regno di Dario I (518 a.E.V.) venne finalmente autorizzata la continuazione dei lavori di costruzione del Tempio; ma dalle parole del profeta Chaggài risulta che gli Ebrei furono assai negligenti nei lavori, se pure li ripresero, e solo dopo gli aspri rimproveri e le promesse di benessere per l’avvenire, se il Tempio fosse stato costruito, formulate da lui e da Zekharyà, furono ripresi alacremente i lavori che vennero condotti a termine nel 516, circa settanta anni dopo la distruzione del Tempio di Shelomò. Il nuovo Santuario fu inaugurato, e, per quanto non potesse neppure lontanamente paragonarsi all’antico, la sua esistenza fu per gli Ebrei simbolo di redenzione e diede adito alle migliori speranze per l’avvenire.
d) I primi decenni dopo la ricostruzione del Tempio
Nulla sappiamo di avvenimenti in Èretz Israèl durante un periodo di oltre mezzo secolo (515-458) che abbraccia gli ultimi anni del regno di Dario (515- 485), quelli del suo successore Serse I (485-465) e i primi sette del successore di questo Artaserse I (465-424). In quel periodo visse l’ultimo dei profeti, Malakhi. Il quadro generale delle condizioni in quegli anni, quale si può rilevare dagli accenni di questo profeta e da quello che avvenne dopo, è assai triste.
Le speranze di indipendenza nazionale non si erano avverate, e anzi pare che la dipendenza dalla Persia sia diventata più stretta, in quanto non risulta che Zerubbavèl, sulla fine del quale nulla sappiamo, abbia avuto un successore; gli Ebrei della Giudea dipendevano dal satrapo persiano delle regioni ad ovest dell’Eufrate e l’unico rappresentante delle autonomie locali fu il Sommo Sacerdote, in conseguenza di che va ad accentuarsi il carattere puramente religioso, e non politico, della comunità. Non sempre i sacerdoti si mostrarono degni del loro ruolo, e il servizio del Tempio non procedeva come avrebbe dovuto; a loro non venivano dati regolarmente i tributi ai quali secondo la Torà avevano diritto; la piaga dei matrimoni misti si andava sempre più diffondendo specialmente nelle classi sociali più elevate e perfino tra i sacerdoti, e talvolta avveniva persino che si abbandonasse la prima moglie ebrea per unirsi con una straniera. In genere la vita familiare era in grande decadenza. Alcuni ricchi, approfittando delle necessità dei fratelli non abbienti, imponevano loro gravi condizioni per accordare dei prestiti e giungevano anche a prendere come schiavi i figli dei debitori che non pagavano. Non mancavano poi coloro che apertamente affermavano che nulla guadagna chi segue le vie della virtù e che solo i malvagi riescono a prosperare. Malakhì annunciò che in avvenire la virtù avrebbe trionfato e la pace familiare sarebbe tornata.
’Ezrà e Nechemyà
a) ’Ezrà e la seconda immigrazione
Di grandissima importanza fu l’immigrazione di un secondo gruppo di Ebrei, avvenuta, a quanto pare, nel 458. Essa era capitanata da un dotto sacerdote, ’Ezrà figlio di Serayà. Dopo che già aveva esercitato il suo ufficio di Maestro della Torà (sofèr) in Babilonia, ebbe dal governo persiano l’incarico ufficiale di continuare questa sua opera in Giudea, di agire per diffondere la conoscenza e l’osservanza della Torà fra i suoi fratelli, di nominare giudici, di recare offerte per il Tempio e per la comunità di Gerusalemme, di fare raccolte fra gli Ebrei residenti in Babilonia. ’Ezrà e coloro che emigrarono con lui giunsero a Gerusalemme sul principio del mese di av.
b) Lo scioglimento dei matrimoni misti
’Ezrà si rese presto conto delle tristi condizioni in cui si trovava la comunità dal punto di vista spirituale, e fu soprattutto colpito dalla quantità di unioni di Ebrei con donne straniere, che ebbe gravi conseguenze per i figli che ne nacquero, nei quali si venivano attenuando, fino a quasi annullarsi, le caratteristiche ebraiche, l’osservanza della Torà, l’adesione agli ideali ebraici e l’uso della lingua ebraica. Appoggiato da alcuni zelanti sostenitori, riuscì ad ottenere che si provvedesse allo scioglimento delle unioni con donne straniere e all’allontanamento dei loro figli dalla comunità ebraica.
c) La venuta di Nechemyà in Giudea
Le condizioni della comunità continuarono ad essere assai tristi, e l’allontanamento da essa delle donne straniere e dei loro figli ebbe per conseguenza la crescita dell’ostilità contro gli Ebrei da parte dei parenti delle donne espulse, i quali non volevano rinunciare all’influenza che avevano cominciato ad esercitare. Molti stranieri entravano liberamente in Gerusalemme, che era aperta ed indifesa e dove la popolazione ebraica era relativamente scarsa, e alcuni di essi riuscirono persino a stanziarsi in locali del Tempio destinati al deposito di cose sacre. Ai mercati di Gerusalemme affluivano stranieri anche e specialmente di sabato, e così gli Ebrei venivano indotti a profanare il giorno di riposo. Di questo stato di cose ebbe notizia un alto funzionario ebreo della corte persiana in Susa, capitale dell’impero, Nechemyà figlio di Chilkyà. Egli chiese ed ottenne dal re Artaserse I il permesso di recarsi in Giudea per organizzare la comunità e provvedere a che la città di Gerusalemme venisse cinta di mura. Nechemyà giunse a Gerusalemme nella primavera del 445. Egli ebbe il titolo e le funzioni di governatore (pechà).
d) La costruzione delle mura di Gerusalemme
Anche prima della venuta di Nechemyà erano stati iniziati importanti lavori di fortificazione in Gerusalemme, ma essi non avevano potuto proseguire perché i funzionari del governo persiano sospettarono che essi fossero dovuti a intenzioni di ribellione, e nei primi anni del regno di Artaserse erano riusciti ad ottenere dal governo centrale l’ordine di non permetterne il compimento. Nechemyà, per quanto munito di autorizzazione alla costruzione delle mura, non rese nota subito la sua intenzione di metterla in esecuzione, e fece dei giri di ispezione per rendersi conto dello stato delle mura stesse. Solo dopo alcuni giorni, presi accordi coi maggiorenti ebrei, raccolse dei gruppi di persone disposte ad assumere il lavoro ed assegnò a ciascuno di essi il compito di lavorare su un determinato tratto. Appena iniziato il lavoro, cominciarono le opposizioni dei nemici, tra cui i Samaritani, sotto la guida del loro capo Sanballat e di un certo Tobia, detto l’Ammonita, probabilmente appartenente a famiglia di origine ebraica residente in Transgiordania e assai influente. Essi minacciarono Nechemyà di denunciarlo al governo centrale come capo di un partito di ribelli che miravano a nominarlo re. L’accusa venne facilmente smentita, ma le opposizioni non cessarono e coloro che lavoravano alla costruzione delle mura dovettero essere assistiti da gente armata o armarsi essi stessi per essere in grado di opporsi ad assalti nemici. Concluso il lavoro in mezzo a gravi difficoltà (estate 444), furono collocate in alcuni punti delle porte, che di giorno venivano sorvegliate e di notte venivano chiuse.
e) Riordinamento civile della comunità
Nechemyà si diede allora al riordinamento civile della comunità, provvide al ripopolamento di Gerusalemme, obbligando ad andarvi ad abitare una decima parte della popolazione totale: le famiglie che dovevano risiedere in città furono designate a sorte. Non mancarono inoltre coloro che vi si trasferirono volontariamente. Allo scopo di sollevare le condizioni del popolo, immiserito dalle angherie dei governatori persiani, carico di debiti che non poteva pagare, spogliato delle sue proprietà, diede ai ricchi un notevole esempio di disinteresse e di generosità rinunciando a quanto personalmente gli spettava per prestiti fatti ai poveri dal giorno della sua venuta in Giudea in poi e ai proventi a cui aveva diritto in conseguenza della sua carica. Questi suoi atti ottennero l’effetto desiderato, e i ricchi giurarono di restituire ai poveri quanto avevano loro preso in pegno, e di rinunciare all’esazione dei loro crediti.
f) Instaurazione dell’autorità della Torà
Dopo che si fu così provvisto ai più impellenti bisogni materiali, ’Ezrà, coadiuvato e sostenuto da Nechemyà, riprese la sua opera spirituale allo scopo di diffondere la conoscenza e l’osservanza della Legge divina. Nel giorno di Rosh Hashanà, non sappiamo esattamente di quale anno, in una grande riunione con numeroso afflusso di popolo e in una seconda riunione qualche giorno dopo, ’Ezrà, assistito dai sacerdoti, dai leviti e dai maggiorenti, lesse e spiegò alcuni passi della Legge. Il 24 dello stesso mese, terminata la celebrazione della festa delle Capanne, il popolo assunse il solenne impegno, che fu anche redatto per iscritto e firmato, di osservare la Legge per l’avvenire.
g) Seconda venuta di Nechemyà
Nel 433 Nechemyà ritornò alla corte persiana; ma qualche anno dopo ricomparve in Palestina, dove l’edificio da lui costruito insieme con ’Ezrà minacciava di cadere. Nechemyà riprese la lotta contro il matrimonio misto, ordinò la chiusura delle porte di Gerusalemme dal venerdì sera al sabato sera per evitare l’accorrere di mercanti che favorivano la profanazione del riposo sabbatico, regolò il pagamento delle decime e degli altri proventi ai sacerdoti e ai leviti in modo da assicurarne la regolarità. Nulla sappiamo degli ultimi anni e della fine di Nechemyà, se non che egli redasse delle memorie autobiografiche che sono in parte riprodotte ed utilizzate nel libro biblico di ’Ezrà-Nechemyà.
La comunità dopo ’Ezrà e Nechemyà
a) Notizie generali
Con l’età di ’Ezrà e Nechemyà termina il racconto dei libri biblici, e con Malakhì ha fine l’attività profetica. Per oltre un secolo, fino al termine del dominio persiano, come detto sopra, mancano quasi del tutto le notizie fornite da fonti contemporanee agli avvenimenti. Alcuni scrittori raccontano qualche episodio relativo al periodo, ma non è possibile controllarne la veridicità. Quello che sappiamo di ciò che avvenne in seguito ci dimostra però che durante il periodo la comunità andò consolidandosi e, a quanto pare, non avvennero cambiamenti nella situazione politica. Dopo Nechemyà, pare che la Giudea dipendesse amministrativamente dal prefetto persiano che risiedeva a Samaria.
È probabile che gli Ebrei della Giudea abbiano sofferto in conseguenza dei passaggi di truppe persiane attraverso il loro territorio durante il regno di Artaserse II (405-359) che mosse ripetutamente contro d’Egitto ribelle alla Persia. Tra i pochi avvenimenti particolari di cui abbiamo notizia sul nostro periodo va ricordato un grande dissenso, sorto intorno al 400, tra il Sommo Sacerdote Yochanàn e suo fratello Yehoshùa’. Questo diede occasione di intromettersi nelle cose interne degli Ebrei al governatore persiano Bagoas che parteggiò per Yehoshùa’; venuti i due fratelli a contesa nel Tempio, Yehoshùa’ venne ucciso da Yochanàn; di qui un nuovo intervento del governatore persiano, che entrò nel Tempio con una schiera di armati ed impose nuove tasse agli Ebrei.
Rivolte contro i Persiani che scoppiarono in Siria durante il regno di Artaserse III (359-338) fecero sentire le loro ripercussioni anche in Giudea; gli abitanti di Yerichò ebbero parte nella rivolta, la città venne distrutta e i suoi abitanti vennero deportati in Ircania, a sud del Mar Caspio (350 circa).
c) Separazione definitiva dei Samaritani
Fatto importante avvenuto nel periodo del dominio persiano fu la separazione definitiva dei Samaritani dalla comunità giudaica. I Samaritani si costruirono un santuario nel territorio di Shekhèm sul monte Gherizìm, dove organizzarono il culto ad imitazione di quello giudaico. Essi negarono autorità agli scritti profetici e considerarono come solo libro sacro la Torà, introducendovi alcune modificazioni. Più tardi aggiunsero il libro di Yehoshùa’ in forma molto diversa da quella del nostro.
d) Condizioni interne della comunità giudaica
Per quel che riguarda le condizioni interne della comunità giudaica, è specialmente notevole il fatto che il Sommo Sacerdote venne ad acquistare sempre maggiore importanza civile e politica. Dopo che la comunità non ebbe più un governatore speciale, il Sommo Sacerdote divenne la persona più eminente del paese, serviva da intermediario fra il popolo da una parte e il governatore persiano e la corte dall’altra, era probabilmente incaricato di esigere le tasse. Così, mentre i sacerdoti minori continuavano, come nell’antico Israele, ad occuparsi esclusivamente del culto, il Sommo Sacerdote costituiva, insieme con gli anziani, una specie di aristocrazia, sulla quale esercitava anche una certa preminenza.
e) Il culto del Tempio
Il culto del Tempio andò in questo periodo sempre più organizzandosi; alle spese occorrenti per i sacrifici quotidiani e festivi, fatti secondo le prescrizioni della Torà, si provvedeva, in omaggio ad analogo comando della medesima, mediante una tassa obbligatoria per tutti indistintamente e stabilita, senza differenza fra ricchi e poveri, nella misura di mezzo siclo d’argento. A vari gruppi di sacerdoti e di leviti erano, come già nel primo Tempio, assegnate speciali attribuzioni di custodi, di cantori, ecc. La musica andò acquistando una parte sempre maggiore nella liturgia; i canti liturgici detti Salmi, la quasi totalità dei quali era già stata composta da lungo tempo, accompagnati dal suono di vari strumenti a fiato o a corda, venivano cantati durante la celebrazione dei sacrifici.
f) La sinagoga
Accanto al Tempio poi andava sviluppandosi sempre più un altro luogo di culto e di preghiera: la casa di riunione (bet hakkenèset), detta con termine greco “sinagoga”, che ebbe, come detto sopra, le sue prime origini durante l’esilio babilonese. Al culto dei sacrifici, che ormai si era effettivamente concentrato nel solo Tempio di Gerusalemme, non poteva partecipare che una piccola parte della comunità; d’altro lato i sacrifici non bastavano più a soddisfare i bisogni spirituali del popolo; nel Tempio stesso il culto dei sacrifici veniva ad acquistare importanza oltre che per se stesso per l’occasione che si offriva al popolo di radunarsi e di sentire la parola dei profeti e dei dottori della Legge. Ora, se il culto dei sacrifici non poteva compiersi che nel santuario centrale, le riunioni potevano aver luogo dappertutto: così sorsero le sinagoghe nei vari punti della Giudea; esse, in un certo qual senso, sostituivano le antiche bamòt, ma mentre le bamòt, dopo l’erezione di un santuario centrale, erano in opposizione a questo, le sinagoghe erano come delle succursali del Tempio per quei compiti che la Torà permetteva loro di esercitare, e che erano diventati ormai molto importanti. Nelle sinagoghe si leggevano e spiegavano le parole della Torà e dei profeti, e si recitavano le tefìllòt in comune.
g) I Maestri della Torà
Così accanto ai sacerdoti ed ai profeti, veniva formandosi una nuova classe di persone che si curavano della vita spirituale del popolo: i Maestri della Torà, cioè i rabbini (soferìm, chakhamìm). In origine questi uscirono dalla classe sacerdotale; Yechezkèl, che può considerarsi il precursore dei Maestri della Torà, e ’Ezrà, che è il primo di questi, sono sacerdoti. Quando però, in seguito all’opera dei primi Maestri, la conoscenza della Torà si andò diffondendo tra il popolo, uscirono in gran numero da questo dei nuovi Maestri, indipendentemente dall’appartenenza o no alla classe sacerdotale. I Maestri quindi, più che i sacerdoti, hanno una analogia con i profeti: anzi ne continuano l’opera. Gli ultimi profeti vissero nella prima parte del periodo persiano, accanto ai primi Maestri: in seguito quelli cessarono completamente; i sacerdoti si occupavano del culto o della politica, mentre i condottieri spirituali del popolo diventarono i Maestri. Ma mentre i sacerdoti, come appartenenti ad una classe speciale, e i profeti, come parlanti in preda all’ispirazione divina, erano, o per loro origine, o per l’elemento soprannaturale che in loro agiva, qualche cosa di distinto dal popolo in mezzo al quale operavano o al quale si rivolgevano, il Rabbino era un uomo del popolo, diverso da questo soltanto per la sua maggior conoscenza della Legge. Così, mentre né il sacerdote né il profeta non si proposero mai, né potevano proporsi, di rendere sacerdote o profeta chi non era tale per nascita o per vocazione, i Maestri si proposero non solo di indurre il popolo all’osservanza della Torà, ma anche di diffonderne la conoscenza, di rendere il popolo istruito in essa, e avrebbero raggiunto il loro ideale soltanto quando tutti fossero divenuti dotti come loro, e cioè Maestri della Torà. L’ignorante venne così identificato col trasgressore e col malvagio: chi è ignorante non può essere pio; la pratica del bene consiste nell’osservanza della Torà; la conoscenza di questa è dunque la condizione necessaria per raggiungere la giustizia e la virtù.
Gli antichi Maestri pare non mettessero per iscritto i loro insegnamenti: certo nulla possediamo che sia stato scritto prima del II secolo dell’E.V. I loro insegnamenti venivano però ricordati e trasmessi con gran cura; per il tempo di cui ora ci occupiamo non ci sono stati tramandati dei nomi; alcuni insegnamenti che ci sono giunti in nome di rabbini posteriori possono risalire anche all’epoca persiana. Secondo alcune tradizioni, i Maestri formavano un consesso detto kenèset ghedolà (grande assemblea) che era come la continuazione della riunione nella quale, ai tempi di ’Ezrà e Nechemyà, si era solennemente deciso di osservare la Torà. Questi antichi Maestri fissarono, fra l’altro, le formule liturgiche più importanti e si occuparono di stabilire a quali libri dovesse attribuirsi il carattere di libri sacri. È da ritenersi che tutti questi siano anteriori alla loro età.
h) Idee e credenze
Ormai l’idolatria era del tutto cessata, e con essa certe credenze popolari di origini pagane. Dio era da tutti considerato come avevano insegnato la Torà e i profeti, quale Dio universale: il Dio rivelatosi ai patriarchi e a Moshè, il Dio che aveva liberato Israele dalla schiavitù egizia, gli aveva dato la Torà, lo aveva condotto a possedere la terra di Kanà’an, aveva ispirato i profeti ammonitori, aveva scacciato il Suo popolo dalla terra dei padri per via dei suoi peccati, poi ve lo aveva fatto in parte ritornare, è il creatore e sovrano del mondo, che, come dei destini d’Israele, dispone di quelli degli altri popoli: se Egli ha mostrato di occuparsi di Israele in modo particolare, è perché questo popolo è destinato a diffondere la conoscenza di Lui fra gli altri. Ma, per ciò fare, Israele deve sottrarsi all’influenza di questi, rimanere appartato, non confondersi con gli altri.
Secondo questo principio ogni rapporto o contatto troppo intimo con lo straniero si considera pericoloso, perché dispone l’Ebreo ad assimilarsi, ad abbandonare quello che ha di speciale e di caratteristico per diventare uguale agli altri. L’assimilazione ai costumi pagani contro la quale si pronuncia in termini così severi la Legge era stata la causa principale delle colpe religiose e morali d’Israele, in conseguenza delle quali egli aveva dovuto abbandonare la terra; il pericolo si rinnovava ora che i sopravvissuti d’Israele, pur essendo nel suo paese, avevano da ogni parte gli stranieri intorno a sé. Le leggi di purità e di impurità, quelle relative ai cibi, il riposo sabbatico, tutte le cerimonie del culto vennero rigorosamente osservate come aventi principalmente lo scopo di tenere Israele distinto dalle altre nazioni. Non si tratta però di un particolarismo che voglia isolare il popolo di Israele; questo ha un alto sentimento religioso e morale, assai più alto di quello a cui giunsero gli altri popoli da lui conosciuti, e sa che questi dovranno un giorno riconoscere la sua superiorità spirituale ed elevarsi al suo livello; il pareggiamento dovrà avvenire, ma con l’elevazione degli altri, non con l’abbassamento d’Israele.
Concezioni che prima erano radicate solo nelle menti di poche persone più elevate, ma che differivano grandemente dalle credenze popolari e volgari d’Israele prima dell’esilio, divennero patrimonio comune, e tutti riconobbero l’onniscienza e onnipotenza di Dio. È probabile che nell’epoca che trattiamo si sia sviluppata la credenza, già forte specialmente durante l’esilio babilonese, negli angeli (malakhìm) concepiti come esseri aventi natura intermedia fra quella divina e quella umana, esecutori della volontà di Dio in terra, mentre prima essi, come indica il loro nome, erano considerati come messi, cioè come esecutori di incarichi di volta in volta loro affidati da Dio. Alcuni angeli furono considerati come malefici in quanto recano calamità o tentano i giusti o fungono da accusatori davanti a Dio. Fra questi è specialmente notevole Satàn (il nemico). Tutti gli angeli però, compreso il Satàn, sono sempre esecutori di volontà divina, ed è del tutto estranea all’Ebraismo la credenza, diffusa presso altri popoli, in esseri che sono come in opposizione alla Divinità.
Tra le idee che si diffusero e si svilupparono nell’età persiana è da ricordare quella già accennata anche negli scritti dei profeti anteriori all’esilio, sul giudizio che Dio farà di tutti i popoli in un tempo a venire: quelli che Lo avranno riconosciuto e opereranno la giustizia, vivranno e prospereranno con Israele completamente redento, i malvagi verranno annientati e il mondo sarà completamente rinnovato e avrà inizio l’era detta messianica.