Periodo terzo
Capitolo 13 – L’esilio babilonese
Le fonti
Importanza del periodo
Condizione materiale dei deportati
La vita spirituale: a) Generalità; b) La sinagoga e le feste; c) La lingua
Il profeta Yechezkèl
L’editto di Ciro
Le fonti
Le notizie che abbiamo intorno ai pochi decenni che vanno dall’esilio di Yoyakhìn al ritorno in terra d’Israele di una parte dei deportati sono assai scarse e quasi del tutto indirette. Esse si rilevano specialmente dai libri biblici di Yechezkèl e Danièl, e in parte da quelli di Ezrà e Nechemyà che trattano del periodo del ritorno. Come si sono svolte le cose va poi in parte ricostruito sulla base di quello che sappiamo di periodi posteriori.
Importanza del periodo
Dato il carattere speciale che ha la storia del popolo d’Israele, l’esilio babilonese, per quanto breve e politicamente insignificante, ha una grandissima importanza, perché rappresenta il primo periodo di tempo in cui Israele, dopo diventato popolo, visse in esilio, periodo durante il quale si manifestarono per la prima volta quelle speciali attitudini che hanno permesso al nostro popolo di mantenersi in vita durante il lunghissimo periodo, non ancora del tutto chiuso, del suo secondo esilio. Nei pochi decenni dell’esilio babilonese ebbero origine le istituzioni che furono poi la base della vita d’Israele fra i popoli, quelle istituzioni che formarono la comunità ebraica, che, agli occhi degli stranieri, era una comunità religiosa, ma che, di fatto, rappresentava la continuazione di una organizzazione politica parzialmente autonoma. Di fatto, dopo che Israele fu privato del suo territorio e della sua indipendenza politica, continuò a vivere come collettività distinta quasi soltanto per quelle manifestazioni di vita che i non Ebrei sogliono chiamare religiose. Ma per i nostri padri non esisteva il concetto di religione come aspetto della vita a sé stante, e quindi continuarono a sentirsi stranieri – e non solo appartenenti a religione diversa – in mezzo ai Babilonesi, per quanto, seguendo i consigli del profeta Yirmiàhu, partecipassero alla vita del paese. Quando poi, come vedremo in seguito, i Persiani, nuovi dominatori del paese, diedero loro modo di ritornare in patria, che era essa pure una provincia della Persia, affinché essi potessero osservare pienamente il loro culto, essi riuscirono a poco a poco a ridiventare nazione indipendente nel pieno senso della parola.
Il breve esilio babilonese è dunque simbolo e prototipo del lunghissimo esilio che venne poi, nel quale visse per quasi due millenni tutto il popolo d’Israele e nel quale vive tuttora la maggior parte di esso, e durante il quale quella che suole considerarsi religione, cioè l’osservanza di quelle norme della Torà che era possibile osservare anche in esilio, salvò il popolo dall’assimilazione e dalla distruzione.
Condizione materiale dei deportati
La condizione degli Ebrei deportati nelle varie regioni dell’impero babilonese non era nel complesso cattiva. Essi si stanziarono in vari punti del paese: da ricordare, oltre che la capitale Babilonia, il luogo chiamato Tel Aviv. Si occuparono di agricoltura, industria e commercio. In ciascuno dei centri venne a formarsi una comunità ebraica. Ai deportati del regno di Yehudà si unirono, a quanto pare, i deportati in Assiria dal regno d’Israele che non si erano assimilati. Il successore del re Nabucodonosor liberò il re Yoyakhìn dopo 35 anni di prigionia e gli diede una posizione onorevole; alcuni Giudei, tra i quali la tradizione ci ricorda Daniele e tre dei suoi compagni, godettero di grande considerazione alla corte babilonese; nulla forse gli esuli ebbero a desiderare fuorché l’indipendenza nazionale. Essi non furono sparpagliati isolatamente qua e là, ma stabiliti in gruppi che permettevano loro di far vita comune. Di una certa quale autonomia godevano: ai loro capi, gli anziani, erano, a quanto pare, affidate funzioni giudiziarie; politicamente gli Ebrei, al pari degli altri sudditi, dipendevano dall’autorità centrale, per mezzo del prefetto della regione da loro abitata.
La vita spirituale
a) Generalità
Ai deportati era concessa libertà di osservare quei precetti ai quali si attribuiva carattere religioso, ma naturalmente fu sospeso il culto dei sacrifici, che non poteva aver luogo in terra straniera e senza il Tempio. Ma gli Ebrei, privati della possibilità di continuare il culto dei sacrifici secondo l’antico costume e abbandonata l’imitazione dei culti pagani, non tralasciarono la consuetudine di radunarsi, specialmente nei sabati, nelle feste e nei giorni di digiuno, che erano stati istituiti in memoria delle sventure nazionali. In queste riunioni venivano probabilmente lette, oltre alla Torà, le pagine dei grandi profeti che avevano preannunciato la rovina in punizione delle colpe religiose, morali e politiche, e nello stesso tempo avevano inculcato la certezza che l’esilio non si sarebbe prolungato indefinitamente, che il Signore avrebbe accettato la penitenza del Suo popolo per ridargli ciò che gli aveva tolto per la sua cattiva condotta. Le riunioni a cui sopra abbiamo accennato erano spesso tenute con l’assistenza, o sotto la presidenza di qualche persona degna di speciale considerazione, talvolta di qualche profeta, che non mancava di incitare il popolo al pentimento, al ritorno al Signore, per ottenere la fine della Sua ira e quindi dell’esilio. In quelle riunioni ebbe pure origine la preghiera in forma pubblica, che sostituì il culto dei sacrifici e che diventò, in mancanza di questi, l’unica forma di culto pubblico.
b) La sinagoga e le feste
Così venne a formarsi quella istituzione importantissima che è la sinagoga (bet hakkenèset) luogo di riunione, di studio e di preghiera, che costituì il centro principale degli Ebrei nei vari luoghi di loro residenza in Babilonia. Al periodo dell’esilio babilonese risale l’istituzione delle tre tefillòt del mattino, del pomeriggio e della sera, ed è da ritenersi che le più antiche tefillòt, dopo quelle che sono formate dai testi biblici che ancora oggi noi recitiamo, siano state composte allora. Da allora ebbe origine l’uso di rivolgersi, durante la tefillà, verso la parte nella quale era stato il Tempio. Va pure notato che durante l’esilio babilonese, dato che nelle tre solennità liete (shalòsh regalìm) venne di necessità a perdersi il carattere agricolo, si andò accentuando quello storico. Nel periodo dell’esilio furono istituiti i digiuni commemorativi della caduta dello stato e della distruzione del Tempio (digiuni di Ghedalyà, di tevèt, di tammùz e di av). I sacerdoti e i leviti, liberi dalle occupazioni relative al Santuario, divennero maestri e guide spirituali del popolo, e tali furono poi alcuni dei loro discepoli, per quanto non appartenenti alla tribù levitica.
c) La lingua
Durante l’esilio babilonese gli Ebrei continuarono a fare uso della loro lingua, l’ebraico, ma anche la lingua del paese, l’aramaico, era generalmente conosciuta e cominciò ad essere adoperata nella conversazione e nella letteratura. Gli Ebrei adottarono i nomi dei mesi in uso presso i Babilonesi, e sono questi i nomi con cui essi vengono designati oggi.
Il profeta Yechezkèl
Tra i profeti che vissero in quel tempo ci è ben noto Yechezkèl, perché i suoi discorsi sono abbondantemente raccolti nel libro che prende il titolo dal suo nome. Egli, di famiglia sacerdotale, fu tra i deportati del 597. Nel periodo che precedette la caduta dello stato e la distruzione del Tempio fu annunciatore di sventure al pari di Yirmiàhu; quando poi la catastrofe fu avvenuta, da minacciatore si fece consolatore. Se la nazione giudaica appare morta, egli insegnò, potrà rivivere se Dio lo vorrà, e ad essa si ricongiungeranno anche i resti del regno di Efràim. I peccati dei singoli non impediranno la resurrezione: essi saranno individualmente puniti da Dio per le loro colpe.
Yechezkèl cercò in modo particolare di radicare l’idea che, contrariamente a quello che molti pensavano, il risorgimento d’Israele sarebbe avvenuto non a mezzo dei pochi rimasti in patria, ma degli esuli che sarebbero ritornati e nei quali Dio avrebbe infuso nuovo spirito.
Altro concetto sul quale Yechezkèl insiste in modo particolare è quello dell’efficacia della penitenza: a chi, dopo essere stato in colpa, ritorna sulla retta via, Dio perdona tutte le colpe allo stesso modo in cui non terrà conto delle buone azioni di chi abbia in seguito traviato.
Yechezkèl attribuisce al culto grande importanza, dà minute prescrizioni intorno ai sacrifici, ai sacerdoti, al santuario, pone la purità rituale accanto a quella morale: il suo ideale è quello di una comunità giudaica, nella sua terra, col suo Tempio, che pratichi la morale e la giustizia, e che abbia definitivamente abbandonato ogni forma di culto pagano o illegittimo fuori dell’unico santuario. Gli antichi sacerdoti delle bamòt non hanno alcun diritto a partecipare al culto: questo deve essere affidato esclusivamente ai discendenti di Tzadòk, già sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme.
Le profezie di Yechezkèl, forse appunto perché egli visse in un periodo tranquillo, privo di grandi avvenimenti, non hanno quel carattere concreto né quella stretta relazione coi fatti contemporanei che si notano nei discorsi di Yeshayàhu o di Yirmiyàhu: quelle di Yechezkèl sono più generali e indeterminate, e con lui, se non ha origine, si sviluppa quel genere di profezia detto escatologico, che rappresenta avvenimenti da collocarsi in un avvenire lontano e indeterminato. Tra queste profezie sono specialmente notevoli quelle in cui ricorrono i nomi di Gog e Magog, che rappresentano i barbari difensori del mondo pagano avversi al trionfo di Dio e del suo culto; di loro il Signore farà vendetta instaurando il Suo regno.
L’editto di Ciro
Dopo la morte di Nabucodonosor cominciò per l’impero babilonese un periodo di decadenza che lo condusse in breve tempo alla completa rovina, come avevano predetto i profeti. Intanto sorgeva una nuova grande potenza, il regno di Persia e Media. Esso aveva avuto parte nella caduta dell’Assiria e ne aveva occupata una parte, ma diventò un potente impero dopo che ne divenne re Ciro (Kòresh, 550 a.E.V.). Questi, dopo di aver fatto altre conquiste in Asia, mosse contro la Babilonia, che cadde in suo potere nel 539. Con questo venne a trovarsi automaticamente sotto l’impero persiano anche la terra d’Israele che era una provincia dell’impero babilonese. La rovina di questo fece nascere grandi speranze nel cuore degli Ebrei e queste non andarono deluse del tutto.
A differenza del sistema di allontanare i vinti dal loro territorio, sistema che era seguito dagli Assiri e dai Babilonesi, l’impero persiano mirava a radicare i vinti nel paese da loro abitato e ad incoraggiare la continuazione delle loro tradizioni. Questo sistema fu applicato anche nei confronti degli Ebrei. Ciro aveva poi tutto l’interesse ad avere ai confini dell’Egitto, alla conquista del quale pensava di muovere, una popolazione a lui amica; inoltre gli premeva che la Giudea, diventata provincia del suo regno, prosperasse, mentre dopo l’esilio degli Ebrei essa era rimasta del tutto desolata e deserta. Per tutte queste ragioni, subito dopo aver conquistato Babilonia, emise un decreto col quale decideva che fosse ricostruito il Tempio di Gerusalemme e quindi autorizzava a tornare in Giudea tutti gli Ebrei che lo desiderassero. Ordinava inoltre a quelli che volessero rimanere di aiutare quelli che rimpatriavano; ai funzionari dell’impero comandava di facilitare il ritorno; assegnava contributi al Tempio di Gerusalemme e vi faceva riportare gli arredi che i Babilonesi avevano tolto e trasportato nel loro paese.