Il Salmo 127 esprime lo stato d’animo degli esuli ebrei in Babilonia, dopo la distruzione del primo Tempio, che rifiutavano l’invito dei loro persecutori a cantare in terra straniera i canti di Sion. La stessa situazione si ripeté secoli dopo, in termini molto più tragici, con il secondo esilio, e le parole del Salmo «im eshkachekh Yerushalàyim – se ti dimenticherò Gerusalemme» furono un riferimento per i Maestri che imposero alla comunità d’Israele l’obbligo della conservazione della memoria storica. Secondo quanto riferisce il Talmud (TB Bava Batra 60b), dopo la distruzione del Tempio vi furono dei gruppi che cercarono di imporsi, come segno di lutto, l’astensione dal consumo della carne e del vino; ma i Maestri, pur avvertendo la necessità di dare delle norme per mantenere il ricordo, si opposero a forme di lutto così radicali e prolungate nel tempo, e trovarono un compromesso stabilendo delle regole più limitate: lasciare un piccolo spazio non intonacato in ogni nuova costruzione, limitare l’uso di ornamenti femminili e l’eleganza delle tavole apparecchiate; e in particolare agli sposi furono imposte, con ripetute disposizioni, delle limitazioni nell’uso di ornamenti speciali allora in voga, e allo sposo fu richiesto di porsi della cenere nel posto dove si mette la tefillà del capo (per la codificazione di queste norme v. Shulchan Arukh, Orach Chayìm 560).
Chi assiste oggi a una cerimonia nuziale ebraica difficilmente potrà trovare un segno evidente dell’applicazione di queste norme, ma certamente non mancherà di notare un altro uso, che, almeno in apparenza, sembra avere le stesse motivazioni: la “rottura del bicchiere”, che avviene alla fine della cerimonia. È il bicchiere di vetro, che poco prima, pieno di vino, il rabbino celebrante tiene in mano durante la recitazione della prima serie di benedizioni, quelle dei kiddushìn, e che poi porge allo sposo e alla sposa perché ne bevano insieme per la prima volta. Generalmente è lo sposo stesso, alla fine della cerimonia nuziale, che rompe di persona il bicchiere, mentre è avvolto in un panno o un tovagliolo, calpestandolo con il piede. In alcuni luoghi, come nella Sinagoga principale di Roma, è lo shammash che viene incaricato di rompere il bicchiere, alla fine della benedizione che gli sposi ricevono dal rabbino, insieme alla famiglia, davanti all’aròn aperto. Abitualmente la rottura del bicchiere è accompagnata dalla recitazione della frase del Salmo 127: «im eshkachekh Yerushalàyim – se ti dimenticherò Gerusalemme» e l’uso sembra trovare la sua spiegazione proprio nell’idea espressa nella frase del Salmo. Questa frase sintetizza l’impegno per ogni ebreo di non dimenticare mai la perdita di Gerusalemme, soprattutto nei momenti più importanti della propria esistenza. Le nozze sono uno di questi momenti, anche perché sono il segno della continuità biologica; ma la continuità biologica si deve arricchire di significati culturali, deve avere la funzione di trasmettere la memoria e l’identità. Dunque nel grande momento della gioia e della commozione personale e familiare, non bisogna dimenticare la propria identità di popolo e ciò che manca collettivamente alla comunità, perché la gioia di tutti sia completa. Il bicchiere rotto viene così a ricordare simbolicamente che il popolo ebraico non può essere completamente in gioia, perché un’antica frattura storica, che ne ha segnato il destino per tanti secoli, non si è ancora sanata.
La spiegazione sembra perfetta, così come l’uso appare perfettamente funzionale all’idea che vuole esprimere; ma se si indaga sulla sua origine si può scoprire che le cose non sono affatto così chiare. Infatti le fonti talmudiche sopra citate, che impongono varie forme di ricordo della perdita di Gerusalemme, non fanno menzione dell’uso di rompere il bicchiere; mentre qualche cosa che sembra analoga alla rottura del bicchiere in occasione delle nozze è menzionata nel Talmud, ma in un contesto e con significati differenti: è un brano (TB Berakhot 30b-31a) nel quale si raccontano, con piccole varianti, due episodi simili nei quali, in Babilonia, nel quinto secolo, durante un matrimonio l’allegria dei convitati era salita a un tale livello che un rabbino presente la considerò disdicevole, e per imporre un improvviso cambio d’umore ruppe un preziosissimo calice di vetro. Questa testimonianza, rispetto al nostro uso, si distingue per alcuni elementi importanti: 1. il comportamento dei rabbini che rompono il bicchiere appare sporadico e non abituale; 2. il motivo che provoca la rottura del calice è un’allegria considerata eccessiva; 3. viene distrutto non un bicchiere qualsiasi, ma un oggetto prezioso. Per trovare dei riferimenti espliciti al nostro uso bisogna attendere molti secoli; nel medioevo diverse fonti cominciano a parlarne, ma con diverse varianti. Nella prima metà del 12° secolo R. Eliezer b. Nathan di Magonza ne parla come un uso comune, ed esprime dei dubbi sul fatto che alla sua origine siano i due episodi del Talmud di Berakhot. Un’altra fonte, il Machazor Vitry (p. 589 e 593), riferisce l’uso senza spiegazioni, e lo descrive in questo modo: il bicchiere delle sette benedizioni (quindi non quello delle prime due benedizioni, che noi oggi usiamo), dopo essere stato usato, viene svuotato e quindi lanciato verso il muro. Nella descrizione più dettagliata di Jacob Moellin (morto nel 1427) nel Sefer Maharil, p. 64b-65a, lo sposo, dopo aver bevuto insieme alla sposa, si gira con la faccia verso il Nord e lancia il bicchiere contro il muro.
La prima fonte che spiega l’uso come una forma di ricordo della distruzione di Gerusalemme è il Kolbo (Regole per il 9 di Av, p. 67), del 14° secolo. In questa stessa chiave interpretativa l’uso viene finalmente citato nelle aggiunte allo Shulchan Arukh di R. Moshe Isserles (Orach Chayìm 560 e Even haEzer 65). Non mancano tuttavia spiegazioni differenti, come quella proposta dal cabalista italiano Menachem Recanati, e ripresa da Isaia Horowitz in Shene Luchot Haberit (p.378a), secondo la quale l’uso ha lo scopo di “dare la sua parte all’attributo della giustizia e grazie a questo l’iniquità chiuderà la bocca’. Nella letteratura ritualistica degli ultimi secoli le modalità dell’uso vengono progressivamente definite e giustificate, fino ad arrivare alle forme con le quali oggi viene universalmente praticato.
Come è possibile sbrogliare l’intreccio di queste notizie così contraddittorie? Per rispondere a questa domanda bisogna tener presente che su un momento così importante come quello del matrimonio convergono diversi temi, esigenze, preoccupazioni. Tra quelli che sono documentati più o meno apertamente nelle fonti tradizionali ebraiche emergono in particolare: 1. la preoccupazione per l’invidia e il malocchio, e più in generale per lo scatenamento di forze negative e sinistre in un momento di gioia intensa; 2. la critica delle manifestazioni di eccessiva allegria e spensieratezza, che male si adattano ad una concezione ideale di austerità e di autocontrollo; 3. il rischio di perdita dell’identità della comunità ebraica, che non dovrebbe dimenticare, proprio nei momenti familiari più importanti, la sua storia comune e la scala di valori ideali con cui misurarsi.
Ognuna di queste motivazioni ha una sua giustificazione legittima, anche se con un “peso” e un’importanza variabile secondo i punti di vista. Alla luce di questo può essere difficile distinguere in un singolo uso e comportamento una motivazione isolata e valida per sempre, anche perchè la sensibilità umana e la cultura evolvono in continuazione, e i comportamenti che ne sono l’espressione spesso sopravvivono alle motivazioni iniziali, e si mantengono nel tempo con altre motivazioni, più vicine all’evoluzione delle sensibilità. Per questi motivi, ad esempio, il comportamento dei rabbini del Talmud che rompono un prezioso calice per frenare un’eccessiva allegria, può avere cause contingenti, ma rispecchia esigenze più vaste, che pescano da un lato nelle preoccupazioni primordiali per il malocchio, dall’altro nelle considerazioni filosofiche sull’ideale sobrietà dell’uomo, e infine può perfettamente adattarsi alla cornice, stabilita in altri usi codificati, che impone forme di ricordo storico per la Gerusalemme perduta.
Nell’interpretazione dell’uso della rottura del bicchiere non bisognerà quindi esagerare le sue presunte origini come rito di protezione antidemoniaca (come ha fatto J. Z. Lauterbach, in HUCA II, pp. 351-380, in un saggio per altro apprezzabile per l’accuratezza della ricerca e dell’analisi). Bisognerà piuttosto metterne in evidenza la pluralità e la coesistenza di diversi possibili significati, e soprattutto la prepotente insistenza con cui la tradizione rabbinica ha voluto e ha saputo, con successo, imporre la “sua” spiegazione, di conservazione di memoria e di identità storica. E tutto questo con scopi educativi, costruttivi e consolatori: «Chi fa lutto per Gerusalemme avrà il merito di vederne la gioia, come è detto: “Gioite per Gerusalemme e rallegratevi per lei, tutti coloro che l’amano”».
Riccardo Di Segni