I dieci comandamenti sono introdotti dal verso (Shemot 20,1) “e il Signore pronunciò tutte queste parole, dicendo”. Il Rosh nel suo commento alla Toràh ci mostra quanto questo verso sia eccezionale: infatti contiene 7 parole e 28 lettere, come il primo verso della Toràh e la risposta “Yehèh shemè” del qaddish. Per questo, insegnano i chakhamim, che chi risponde al qaddish con tutte le proprie forze è come se fosse un socio di H. nella creazione del mondo e nel matan Toràh.
Per la Mekhiltà di R. Shim’on Bar Yochai, riportata anche da Rashì nel suo commento alla Toràh, avvenne un miracolo, perché H. pronunciò “ciò che la bocca non può pronunciare e l’orecchio non può ascoltare”, vale a dire tutti i dieci comandamenti assieme. Il Chizqunì scrive però che il popolo ebraico non li comprese, e per questo furono ripetuti in sequenza, i primi due direttamente da H., i successivi da Moshèh.
Secondo il Midrash Rabbàh (Shemot Rabbàh 28,4) è celato un insegnamento fondamentale per il nostro approccio nei confronti della Toràh. Facendo uscire il popolo ebraico dall’Egitto H. ha fatto tutto e il contrario di tutto: ha tramutato l’acqua in sangue per farla tornare acqua, il serpente è divenuto bastone, il bastone serpente, il mare è divenuto terraferma per poi tornare mare. Lo stesso avviene in generale, l’uomo è tratto dalla terra e ritorna alla terra. Quella che può apparire una contradditorietà di fondo si manifesta anche nella Toràh: nei dieci comandamenti è scritto “ricorda il giorno del Sabato per santificarlo”, ma poi nella Parashàh di Pinechas sono prescritti i sacrifici da effettuare di Shabbat; è vietato il rapporto con la moglie di tuo fratello (Waiqrà 18), ma dopo la morte del fratello la Toràh prevede l’ibbum (levirato). Spesso siamo portati a razionalizzare le mitzwot e ad operare una selezione al loro interno, ma in questo modo fraintendiamo la natura della Toràh. L’Or ha-chayom riporta una ghemarà nel trattato di Bekhorot (30b), secondo la quale chi riceve la Toràh all’infuori di un certo aspetto in particolare, non ha Toràh.
Rimaniamo altrettanto spiazzati quando studiamo le varie Halakhot. Come è possibile che alcuni dichiarino qualcosa puro e altri impuro, alcuni permettano e altri proibiscano, e la Toràh rimanga in ogni caso una? Rispondono i chakhamim in massekhet Chaghigàh (3b): “il Signore pronunciò tutte queste parole”, un padre le ha date, un parnas le ha pronunciate, dalla bocca del padrone di tutto Benedetto sia. Ma al contempo tutte queste opinioni sono (‘Eruvin 13b) “divrè Eloqim Chayim” (parole del D. vivente), perché questo suono tremendo e incomprensibile tuttavia lasciò una traccia nell’animo di chi lo ascoltò, e ciascuno lo fece in un modo unico. La Toràh ha settanta sfaccettature, tutte altrettanto vere (Recanati). E’ famoso il paragone fra la Toràh ed una pietra che è frantumata da un martello. Il Ran (Derashot ha-Ran 11,21) pone però una difficoltà di natura logica: non è possibile che un’affermazione e la sua contraria siano al contempo veritiere. Non è possibile quindi che al contempo chi permette e chi proibisce abbiano entrambi ragione. E come è possibile poi che queste siano le parole di H.? Forse dobbiamo pensare che H. ha dei dubbi? Il messaggio, dice il Ran, è che la Toràh è stata affidata ai chakhamim, ed i chakhamim stabiliscono le varie halakhot, e ciò che stabiliscono è verità. Ma anche qualora avessero stabilito il contrario, sarebbe stata altrettanto verità. La storia di R. Eli’ezer ben Orqenos è emblematica: sebbene sia uscita una voce celeste che affermò categoricamente che R. Eli’ezer aveva sempre ragione, la halakhàh fu stabilita secondo il parere della maggioranza, che dissentiva da lui.
Rav Soloveitchik, commentando le parole di Rashì, parte dall’assunto che le due tavole della legge hanno due ambiti di riferimento distinti, i primi cinque comandamenti il rapporto fra noi ed H. e i secondi cinque i rapporti interpersonali. La grande novità è che queste due sfere sono un tutt’uno. Essere fedeli a metà non solo vorrebbe dire fraintendere il messaggio divino, ma costituirebbe la preparazione per il tracollo. La morale sociale che prescinde dall’elemento religioso nasconde dei pericoli immani. Il Rav portava l’esempio dell’Unione Sovietica, in cui la dottrina morale del marxismo, per la quale ciascuno dà secondo le sue capacità e riceve secondo necessità, sfociò nel totalitarismo più brutale ed efferato. Il Netziv, ripercorrendo l’esperienza di Avraham, approfondisce tale aspetto. Per due volte, in Egitto e presso i Filistei, Avraham si trovò in pericolo per via di sua moglie Saràh, e riuscì a scampare. Fra le parole di Avimelech e quelle del Faraone c’è però una bella differenza! Avimelech infatti rimprovera Avraham perché ha rischiato di farlo peccare, mentre il Faraone non dice nulla di tutto ciò.
Avraham viene espulso dall’Egitto, mentre gli viene data l’opportunità di rimanere presso i Filistei. Perché? In Egitto sarebbe rimasto sempre in una situazione di pericolo, mentre presso i Filistei, una volta chiarito che avevano un sentimento religioso, al contrario di quanto potesse pensare, poteva rimanere. Il Netziv, commentando questi episodi, nota che la morale umana è estremamente flessibile. Chi stabilisce la morale può trovare sempre delle scappatoie a proprio piacimento. Per un re può divenire morale impadronirsi delle donne altrui o uccidere. Se la legge morale è stabilita da D., e non è sottoposta alla volubilità degli uomini, è possibile avere fiducia nel sistema di leggi. Mi viene in mente la battuta di un film uscito alcuni anni fa Frost/Nixon – Il duello, quando, in seguito allo scandalo Watergate, Richard Nixon si dimise e, tre anni dopo accettò di essere intervistato da David Frost.
Frost a un certo punto chiede: Veramente lei sostiene che il Presidente può fare qualcosa di illegale? E Nixon: “sto dicendo che se è il presidente a farlo vuol dire che non è illegale”. Il Rambam nelle Hilkhot melakhim, parlando dei sette precetti noachidi, che si riferiscono anche all’ambito interpersonale, sottolinea che alla loro base c’è il comandamento divino. Anche i mishpatim, quei precetti che l’uomo avrebbe potuto stabilire da solo, a prescindere dal comandamento divino, arrivano da H. Il Malbim, commentando il Salmo 147, 19-20, fa un’osservazione simile. Il salmo dice che H. dice le sue parole a Ya’aqov, i suoi chuqqim e i suoi mishpatim a Israel; non fece così per qualsiasi altro popolo, e non conoscono i mishpatim. L’espressione del salmo è strana: sarebbe stato più logico dire che gli altri popoli non conoscono i chuqqim, in quanto frutto di una rivelazione divina, ma i mishpatim? Non considerandoli una volontà divina, questi mishpatim non possono essere per loro una fonte di eternità, perché sono relativi. In questo mondo nel quale, spesso sfidando apertamente la ragione, non vi sono più certezze, la Toràh si rivela ancora, dopo quasi 3500 anni, lo strumento più efficace per instradare ed illuminare l’umanità.