Da una derashà di Rav Sacks
La parashah di Wayaqhel si apre con una riparazione per il peccato del vitello d’oro. La Torah ce lo segnala utilizzando il medesimo termine aprendo entrambi gli episodi, usando una radice che diverrà di fondamentale importanza nella spiritualità ebraica, q-h-l, riunire, da cui derivano qahal e qehillah. Ben lungi dall’essere una preoccupazione antica, la socialità rimane al centro della nostra visione del mondo. La scienza contemporanea conferma a pieno il potere della comunità e delle reti sociali nel modellare le nostre vite. Quando il popolo ebraico fabbricò il vitello d’oro, si riunì attorno ad Aharon.
La rieducazione del popolo ricomincia con il raduno di tutta la congregazione. Il peccato era collettivo e la ricostituzione deve passare per la comunità. Mosheh si concentra nel suo discorso su due poli di aggregazione, nello spazio e nel tempo, lo Shabbat e il Mishkan. Di Shabbat lasciamo da parte i nostri interessi personali e ci uniamo come comunità all’interno della Sinagoga, che è la nipote del mishkan. Nella tradizione ebraica l’individuo ha un significato immenso. Ogni vita è un universo. Ognuno di noi, pur essendo creato a immagine divina è diverso, unico ed insostituibile. Eppure, come ricordavamo qualche settimana fa, la prima volta che troviamo l’espressione lo tov è quando si dice che non è bene che l’uomo sia solo. Gran parte della Torah ha come tema l’organizzazione della vita sociale. Valorizza l’individuo, ma condanna l’individualismo. Le nostre tefillot più sacre possono essere recitate solamente in presenza di un minian. Quando preghiamo lo facciamo come comunità.
Martin Buber parlava di un Io e Tu, ma l’essenza dell’ebraismo è piuttosto un noi e Tu. La cultura occidentale odierna ha imboccato evidentemente una strada differente. Nel nostro mondo l’idea di comunità è in netta crisi, e la società ne soffre. I pericoli non sono costituiti solo dalle guerre, dalle persecuzioni e dagli sconvolgimenti politici. Vi è un’insidia più sottile che è quella della distruzione dei legami sociali. In questo modo gli esseri umani rimangono spaventati e soli. Per questo lo Shabbat e il Bet ha-keneset sono tanto attuali. Sono degli antidoti contro il disgregamento della comunità. Michael Walzer richiama l’attenzione alla differenza che sussiste fra lo Shabbat e la vacanza. L’idea di andare in vacanza privatamente è relativamente recente. Secondo Walzer risale al 1870. Ciascuno pianifica la propria vacanza, va dove preferisce, e fa quello che gli pare. La natura dello Shabbat è invece essenzialmente collettiva. E’ pubblico, condiviso e di tutti. La vacanza è sostanzialmente una merce che compriamo, lo Shabbat è immediatamente disponibile per tutti. Lo stesso può dirsi del bet ha-keneset, istituzione originariamente ebraica, poi adottata dal mondo cristiano ed islamico. La nostra società soffre della perdita di “capitale sociale”. Questo fenomeno secondo i sociologi tocca molto meno sensibilmente, forse è strano dirlo, i batè ha-keneset. Per avere un certo tipo di rapporti è importante far parte di una comunità religiosa. Non si sta parlando di quello che si crede.
La funzione principale che la religione svolge in una società fortemente secolarizzata è di carattere sociale. Le religioni mantengono viva la comunità, e gli individui hanno bisogno di socialità. I biologi sono arrivati a formulare l’idea che la crescita delle dimensioni del cervello dell’homo sapiens è dovuta alla necessità di creare delle reti sociali più estese. Ciò che caratterizza maggiormente l’uomo, più che il raziocinio, è la capacità di cooperare facendo parte di grandi gruppi. Le scienze sociali mostrano anche dell’altro, che chi ci accompagna esercita su di noi una grande influenza. Per questo Mosheh, visti gli effetti disastrosi dell’associazione in negativo del vitello d’oro, intende fissare per sempre due capisaldi che avrebbero svolto la funzione di collante per il popolo ebraico nei secoli, lo Shabbat e il Bet ha-keneset. Così, dice Rav Sacks, la spiritualità ebraica può definirsi una redenzione dalla solitudine.