E’ da poco trascorsa Chanukkah, la festa che ogni anno dedichiamo particolarmente alla riflessione sui nostri rapporti con la cultura circostante. “D. estenda il dominio di Yefet, ma dimori nelle tende di Shem” (Bereshit 9,27). Commenta il Talmud: “la lingua di Yefet trovi dimora nelle tende di Shem” (Meghillah 9b). La domanda è come garantire che questa ospitalità, di per sé auspicata per il bene di tutti, non diventi prevaricazione e, in ultima analisi, fonte di assimilazione. Nella Parashat Wayiggash leggiamo del riconoscimento fra Yossef e i suoi fratelli. I commentatori notano che il viceré d’Egitto adottò quattro accorgimenti per provare ai fratelli increduli e imbarazzati la sua vera identità, tre dei quali riguardano proprio l’uso della lingua.
Fece uscire dalla stanza tutti gli astanti, in modo da non render noto agli estranei che i fratelli lo avevano venduto: così facendo evitò la trasgressione della leshon ha-rà’. Le prime parole che pronunciò furono semplicemente: anì Yossef, “io sono Yossef”. Il Faraone gli aveva dato il nome egiziano di Tzafenat Pa’neach, altrimenti un servo per di più straniero non avrebbe potuto far carriera a corte. Un parvenu qualunque al suo posto avrebbe cercato di dimenticare le sue umili origini e le persecuzioni che avevano preceduto la sua ascesa sociale. Non così Yossef: fiero della sua identità ebraica, non si peritò alla prima buona occasione di tornare al nome che aveva ricevuto da sua madre (Bereshit 30,24). Ma i fratelli rimanevano frastornati. Egli chiese loro di avvicinarsi. Per quale motivo, dal momento che non era presente nessun altro? Mostrò loro di avere il Berit Milah: era inequivocabilmente lui, l’ebreo Yossef. E se avessero obiettato che la circoncisione è praticata anche da altri popoli, “guardate –avrebbe soggiunto- vi sto parlando non in egiziano, bensì nella lingua sacra, nella nostra lingua nazionale: l’ebraico” (Bereshit 45,12; Rashì e Targum Yonatan ad loc.). Chiosa il Midrash (Wayqrà Rabbà 32,5; cfr. Mekhiltà 5,2; Midrash Tehillim 114,4; cfr. anche Kelì Yeqar a Bereshit 45): “Rav Hunà disse a nome di Bar Qapparà: Per quattro meriti gli Ebrei furono redenti dall’Egitto: non modificarono i loro nomi, né la loro lingua, non fecero maldicenza e non si trovava fra essi nessuno che fosse sospetto di adulterio”. Yossef fu di esempio per i suoi fratelli e per i loro discendenti.
La Torah è stata scritta originariamente in ebraico. Lo si impara dalla creazione della donna, cui “fu posto il nome di ishah, perché era stata presa dalla costola di ish” (Bereshit 2,23). Peraltro la Halakhah non esclude in linea di principio la possibilità di recitare in una lingua diversa persino la Tefillot comandate. E’ quanto afferma lo Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 101, 4: “Si può pregare (recitare la ‘Amidah) in qualsiasi lingua lo si desideri”. Sono i Decisori posteriori a restringere il campo. La Mishnah Berurah (ad loc., n.13) puntualizza infatti: “Ma è Mitzwah eseguita nel modo migliore pregare proprio in ebraico… Il Chatam Sofèr si è dilungato in varie dimostrazioni del fatto che il permesso dei Chakhamim di pregare in qualsiasi lingua è solo occasionale, ma stabilirlo come regola fissa con un ufficiante è proibito, perché porteremmo a dimenticare la lingua ebraica… E per prendere le distanze da alcune nuove sette che si sono sprigionate fuori dal nostro paese (gli Ebrei Riformati), le quali hanno tradotto tutto il Seder Tefillah nella lingua dei popoli e ‘trasgressione ne trascina un’altra’: hanno saltato di proposito la Berakhah in cui si chiede il raduno degli esuli e quella per la ricostruzione di Yerushalaim. Insomma, come vogliono far dimenticare Yerushalaim così vogliono far dimenticare la Lingua Santa, affinché Israel non meriti più la redenzione per il fatto di aver mantenuto intatta la propria lingua. Che il S.B. ci guardi da idee eretiche come queste!”
Il Maghen Avraham fornisce un’altra motivazione. Commenta a sua volta che “l’ebraico ha molti significati nascosti rispetto a tutte le altre lingue ed è la lingua in cui D. ha creato il mondo e ha comunicato con i Profeti. Gli stessi uomini della Grande Assemblea, allorché istituirono il Seder Tefillah, vi inserirono miriadi di allusioni in ogni parola. Quando noi preghiamo nel loro linguaggio, anche se non lo capiamo, la Tefillah sale in Alto come si deve”. Unica parziale eccezione è costituita dall’aramaico, in cui recitiamo alcuni brani come il Qaddish. In aramaico, peraltro, sono scritte alcuni capitoli di Daniel e di ‘Ezrà nel Tanakh ed è la lingua del Talmud. L’aramaico, che per di più condivide con l’ebraico lo stesso alfabeto, è tradizionalmente considerato un ebraico corrotto (Ibn ‘Ezrà). L’aramaico, così chiamato da Aram, l’ultimo figlio di Shem (Bereshit 10,22), rimase parlato in Babilonia dopo che Avraham nostro Padre lasciò la “terra fra i due fiumi”. Gli Ebrei ritrovarono questa lingua quando vi tornarono in esilio. E’ però significativo notare che neppure l’aramaico può essere adoperato dai singoli per pregare. Come per il Qaddish, anche per la recitazione dei passi aramaici delle Selichot la Halakhah richiede infatti la presenza del Minyan (Rav ‘Ovadyah Yossef, Resp. Yehawweh Da’at 3,43).
Nel 1954 un Rabbino di New York domandò a R. Ya’akov Weinberg (Resp. Seridè Esh, Orach Chayim 9), uno dei più autorevoli decisori dell’ultimo secolo, se si può permettere l’introduzione di brani in inglese nel corso della Tefillah. “La questione –risponde Rav Weinberg- è molto delicata… Per i nostri peccati ad un Ebraismo completo e puro non ci rimane oggi altro luogo che il Bet ha-Kenesset e pertanto occorre usare attenzione che lì l’ebraico sia effettivamente l’unica lingua sovrana. Inoltre, il fatto di proibire l’uso di qualsiasi lingua estranea nel Bet ha-Kenesset risveglia nel cuore il bisogno di imparare l’ebraico. Tale divieto ha certamente una forte influenza su chi sa come su chi non sa, perché contribuisce a rafforzare in noi il senso della qedushah della Tefillah e del Bet ha-Kenesset. Ma il divieto avrebbe anche una seconda motivazione: non modificare il Minhag dei nostri Padri. Se invece abbandonassimo questa via e modificassimo i Minhaghim aviti, ciò condurrebbe a demolire la religione. C’è da temere che introducendo brani estemporanei in inglese si insegni a recitare in inglese anche le Tefillot fondamentali, pertanto vale il principio: “sulla pubblica via non si comporti così e non imiti gli eretici, rafforzandoli nei loro costumi” (Mishnah Chullin 41b e Rashì ad loc.).
“In definitiva il mio consiglio d’amico fedele è di non introdurre una prassi simile in pubblico. Chiunque può consultare la traduzione a fronte mentre prega per conto suo, ma in forma pubblica, no: nel Bet ha-Kenesset si adoperi solo ed esclusivamente l’ebraico! La Tefillah si reciti solo nella lingua dei nostri Santi, gli Uomini della Grande Assemblea, che è anche la lingua dei Dieci Comandamenti, intrisa del sangue del loro cuore e delle lacrime dei loro occhi”. Che il Santo Benedetto gradisca le nostre Tefillot sincere.