Da una derashà di Rav Sacks
Secondo Aristotele la felicità è l’obiettivo finale al quale tutti gli esseri umani aspirano. Ma dalla tradizione ebraica emerge qualcosa di differente: l’osher, il termine che di più in ebraico si avvicina di più al concetto di felicità, è un valore elevato, ahsrè è la prima parola dei Salmi. Recitiamo l’ashrè tre volte al giorno. Possiamo sottoscrivere quanto è detto nella dichiarazione d’indipendenza americana, che fra i diritti inalienabili dell’umanità ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Nonostante ciò la felicità non si trova al centro della Bibbia ebraica. Il termine simchah, gioia, ricorre almeno dieci volte di più.
E’ uno dei termini fondamentali all’interno del libro di Devarim, dove ricorre più spesso che in tutti gli altri libri della Torah messi assieme. Israele, nella visione di Mosheh, è la terra in cui serviamo D. con gioia. Nella parashah di Ki tavò la gioia compare in due contesti. Il primo è legato all’offerta della primizie nel Santuario di Yerushalaim. Il secondo è molto diverso e sorprendente, all’interno delle maledizioni contenute nella seconda parte della parashah. Ci sono due passaggi simili nella Torah, il primo nella parashah di Bechuqqotai, alla fine del libro di Vaiqrà, e in Devarim 28. Le differenze sono notevoli, perché le prime maledizioni si chiudono con una nota di speranza, queste finiscono in una desolante disperazione. Le maledizioni di Waiqrà sono determinate da un atteggiamento ostile, ribelle o sprezzante da parte del popolo. Queste invece dipendono dal non aver servito D. con gioia e buon cuore. Gioire non sarà la cosa migliore nella vita, ma è paradossale attribuire alla mancanza di gioia l’arrivo delle maledizioni. Perché la gioia sembra essere più centrale della felicità? Il primo Salmo ci mostra cosa vuol dire felicità, avere una vita serena e benedetta, vivendo secondo la Torah. Chi è felice è come un albero ben piantato.
Non viene spostato da ogni vento e capriccio. Questi individui portano frutti. sopravvivono e prosperano. Ma tutto avviene nella mente dell’individuo. La gioia non è mai un fenomeno individuale, è sempre condivisa. Uno sposino non deve servire nell’esercito per un anno, perché deve portare gioia alla moglie che ha sposato. Le festività descritte nel libro di Devarim sono giorni di gioia, poiché si tratta di celebrazioni collettive. Simchah è la gioia condivisa, non qualcosa che sperimentiamo in solitudine. La felicità è un’attitudine che si riferisce alla vita nel suo insieme, la gioia è quella del momento. Come diceva JD Salinger, la felicità è un solido, la gioia è un liquido. Perseguiamo la felicità, ma la gioia dà un senso di connessione con le altre persone e con D. Ha un’altra radice, è un’emozione sociale. E’ la redenzione dalla solitudine. Paradossalmente il libro che ha più a che fare con la gioia è quello che è considerato il più infelice, il libro di Qohelet. Qohelet usa il termine simchah 17 volte. La nostra vita è inguaribilmente fugace, sappiamo che moriremo. Di fronte al mondo, siamo solo un’apparizione fugace. Pensando così rischiamo di togliere alla vita ogni certezza. Non vivremo abbastanza per vedere i risultati a lungo termine dei nostri sforzi. Mosheh non portò il popolo ebraico in Israele. I suoi figli non lo seguirono nella strada da lui indicata. Persino lui non poteva avere la certezza che sarebbe stato ricordato come il più grande dei profeti. Passando ad un esempio profano, Van Gogh riuscì a vendere solo un dipinto mentre era in vita. Non poteva sapere che sarebbe stato celebrato come uno dei più grandi pittori mai esistiti.
Non possiamo sapere come e se saremo ricordati. Dove possiamo allora trovare significato nella vita? Kohelet non lo individua nella felicità, ma nella gioia. La gioia vive nell’accettazione e nella celebrazione dell’oggi, non si rivolge al domani come la felicità. Siamo qui, siamo vivi, con altri che condividono il nostro senso di gioia. Godiamo della benedizione divina, ne mangiamo i frutti, viviamo la vita che Lui rinnova in noi ogni giorno. Non sappiamo cosa il domani porterà. Siamo circondati da nemici. Non è facile essere ebrei. Ma, se ci concentriamo sul momento e diventiamo una voce nel coro di Yerushalaim, abbiamo la gioia. Diceva Kierkegaard: ci vuole del coraggio morale per soffrire; ci vuole del coraggio religioso per gioire. La nostra storia è stata spesso travolta da tragedie, ma non abbiamo perso la capacità di gioire, celebrare nell’oscurità più profonda. Ci sono delle fedi orientali che promettono la pace della mente, se ci abituiamo all’accettazione. Epicuro istruì i suoi discepoli ad evitare il matrimonio o la carriera nella vita pubblica. L’ebraismo vuole invece un confronto con la vita. Se saremo capaci di gioire potremo sopravvivere ai fallimenti e alle sconfitte. Di Sukkot lasciamo le nostre case per vivere in una capanna, esposta al vento, alla pioggia e al freddo, ed eppure è il tempo della nostra gioia. Non è un aspetto secondario nell’essere ebreo. Di qui l’insistenza di Mosheh su questo concetto. Senza di ciò, diveniamo vulnerabili alle maledizioni descritte nella parashah di Ki tavò.
La ricerca della felicità può portare ad isolarci sulla nostra situazione e divenire insensibili alle sofferenze altrui. Può portarci ad evitare di rischiare e a non osare. La gioia ci collega agli altri e a D. Qualsiasi cosa il domani porti con sé, oggi siamo qui. Beethoven come è noto rimase sordo, e compose un’opera grandiosa, la Nona sinfonia. Sentiva che questa musica aveva bisogno di un accompagnamento vocale, l’Inno alla gioia di Schiller. L’ebraismo è a suo modo un inno alla gioia. Gli ebrei hanno conosciuto la sofferenza, l’isolamento, il rifiuto, ma non hanno mai perso il coraggio religioso di rallegrarsi. Un popolo che conosce l’insicurezza, e nonostante ciò gioisce, non può essere sconfitto, perché la sua speranza non può essere distrutta.