Leggendo la parashah dei meraghelim non si può non rimanere impressionati dalla mancanza di forza e determinazione degli esploratori. Come hanno potuto dimenticare tutti gli incredibili miracoli che hanno accompagnato il popolo ebraico, una volta uscito dall’Egitto? Un aspetto non secondario nella risposta a questa domanda è collegato al numero quaranta. E’ possibile che dietro al numero quaranta non risieda unicamente la quantificazione della punizione, di trattenersi per quarant’anni nel deserto, poiché troviamo tante altre volte questo numero nella nostra tradizione, e c’è un aspetto che lega i vari contesti in cui tale numero compare.
Quaranta sono i giorni del mabbul, che portano alla cancellazione di un mondo e alla sua ricostruzione; quaranta sono i colpi della fustigazione (Devarim 25,3): “quaranta colpi potrà infliggergli, non di più, affinché continuando a percuoterlo con un numero maggiore di colpi non appaia il tuo fratello spregevole ai tuoi occhi”; i chakhamim (Meghillah 7b) sottolineano nel verso il termine achikha (tuo fratello): attraverso la fustigazione il malvagio torna ad essere tuo fratello. Mosheh si trattiene sul monte Sinai quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare e senza bere, allo stesso modo in cui il profeta Eliahu rimase a digiuno prima di raggiungere il monte Chorev e ascendere in cielo. Nel libro di Yonah (3,4) H. preannuncia al profeta che di lì a quaranta giorni la città di Ninive sarebbe stata distrutta. In questo lasso di tempo è possibile rivedere radicalmente i propri comportamenti ad assumere un atteggiamento differente. Questi aspetti non compaiono solo nella tradizione biblica, ma confluiscono anche nei concetti halakhici: il feto per avere una forma umana primitiva necessita di quaranta giorni; la misura minima del miqveh è quaranta se’ah.
In base a questi numerosi presupposti, e ve ne sarebbero degli altri, è comprensibile come l’allontanamento per quaranta giorni dall’accampamento possa provocare la vanificazione di tutti gli effetti benefici derivanti dalla protezione divina, portando gli esploratori ad una visione del mondo totalmente differente dalla precedente, con tutte le conseguenze disastrose del caso. Come è possibile proteggersi da questa deviazione? La Torah conclude la parashah di Shelach con il brano dello tzizit. Questa mitzwah ci impedisce di sprofondare nell’abisso. Un segno nell’abito per non perdere la strada, ed avere l’accampamento di Israele sempre assieme a noi. E’ risaputo che la caduta degli esploratori è stata determinata dal seguire i propri occhi. Per questo la Torah ci ordina di vedere le tziztzit. Ma in che modo questa visione dovrebbe preservarci? E’ famosa l’affermazione di R. Meir nella ghemarà (Menachot 43b) secondo cui il colore del tekheket ricorda al mare (e dal mare arriva, essendo derivato dalla lavorazione del sangue del chilazon, un animale acquatico), il mare rimanda al cielo, e quest’ultimo al trono celeste, che (Shemot 24,10) “e sotto i Suoi piedi si vedeva qualcosa somigliante in chiarore alla bianchezza dello zaffiro e per limpidezza quale la sostanza del cielo”. Questi stessi colori accompagnavano i figli d’Israele, la bianca nube che li proteggeva quando erano accampati, e quando questa si elevava l’azzurro del cielo.
Sette nubi circondavano il popolo ebraico, disposto intorno al miskhan, tre tribù per lato: 4 nelle varie direzioni, una in alto, una in basso, ed una davanti a loro per indirizzarli. Gli tzitziot riprendono le nubi che li proteggevano ai quattro lati. Ogni tzizit ha tre fili bianchi, in corrispondenza delle tre tribù che si trovano ad ogni lato, ed uno azzurro, in corrispondenza del cielo che appare quando la nube si alza. Chi indossa il tallit pertanto è paragonabile al mishkan che intraprende il suo viaggio. Nella forma del tallit l’elemento asimmetrico introdotto dallo tzitzit potrebbe infastidirci, ma il suo scopo è quello di indicarci una direzione. Anche l’anima umana è un elemento che sotto molti aspetti non fa parte di questo mondo, e dovrebbe tendere a ricongiungersi alla propria radice, che è celeste. Per riuscire però è indispensabile avere un indirizzo, senza scostarsi a destra e a sinistra. Il momento in cui si riesce ad operare la distinzione fra il bianco e l’azzurro dello tzizit non a caso è il momento in cui è possibile recitare lo Shemà del mattino. Legando il mare e il cielo tutta quanta la realtà viene inglobata nell’unicità di H., che affermiamo nel primo verso dello Shemà, nel momento che congiunge il giorno e la notte. Come è scritto in massekhet Menachot (43b) “chi è sollecito in questa mitzwah, merita di incontrare la Presenza divina”.