Gran parte della parashàh di Shelakh lekhà è dedicata alla narrazione dell’episodio dei meraghelim, un vero spartiacque all’interno del libro di Bemidbar. Rav Michael Rosenzweig nota che, terminato questo brano, la Toràh si concentra su una serie di halakhot che, almeno apparentemente non hanno un legame fra di loro o con il peccato dei meraghelim. Le prime due mitzwot, quella di presentare delle libagioni per determinate categorie di sacrifici e quella di prelevare la challàh nel processo di impasto e cottura del pane, si concentrano sulla vita in Eretz Ysrael, come verrà detto esplicitamente dalla Toràh introducendo tali mitzwot.
Sia Rashì (Bemidbar 15,2) che Ramban (15,16) scrivono che la delineazione di queste mitzwot in questo contesto ha lo scopo di segnalare ai figli di Israele che la battuta d’arresto determinata dai meraghelim non ha compromesso il futuro del popolo ebraico nella terra d’Israele. Il legame con le due successive mitzwot, quella di portare un determinato sacrificio per il peccato di Avodàh zaràh, e lo Tzitzit, appare più misterioso. Nella seconda parte del libro di Bemidbar assistiamo alla rivoluzione della condizione che si era profilata con il matan Toràh. I Chakhamim in massekhet Shabbat (116a) sostengono che le due nun rovesciate che delimitano “wahì binsoa’ ha-aron” nella parashàh di Beha’alotekhà circoscrivano un libro della Toràh, tanto da tripartire il libro di Bemidar, con delle conseguenze pratiche nella trasmissione dell’impurità (Yadaim 3,5) e per il salvataggio di un sefer in caso di incendio (Shabbat 116a). Questo “libro della Toràh” è stato intenzionalmente messo a quel punto per dividere fra due calamità, per allontanare Israele da un comportamento distruttivo. Tuttavia la prima calamità non viene affatto esplicitata dalla Toràh.
Ramban (10,35) rigetta la visione di Rashì, secondo il quale ci si riferisce alle azioni dell’asafsuf, traviato dalla sua passione per la carne. Secondo Ramban la questione è di ordine molto più generale. La colpa è quella di avere respinto la dimensione del matan Toràh, come un bambino che scappa dalla scuola. Anche il successivo episodio dei mitonenim, che Rashì e Ibn Ezrà si sforzano di circostanziare quanto più possibile nei loro commenti, viene affrontato da Ramban con un approccio molto differente. La ripulsa non è legata ad uno specifico comportamento riprovevole o trasgressione, ma alla violazione di determinati valori come quello della riconoscenza e dell’amore per H., e questo tanto più in contesti che richiederebbero e forniscono un terreno fertile per un comportamento virtuoso. In questo quadro un comportamento ribelle provoca delle conseguenze ben più disastrose di quelle che avrebbe generato in una situazione normale. “Wahì binsoa’” viene messo a dividere fra due atteggiamenti generali e distruttivi. Ramban, come in altre occasioni nel suo commento, mostra una sensibilità particolare per una visione incentrata su atteggiamenti che trascendono obblighi e divieti specifici. Tramite la punizione Israele aveva imparato a proprie spese la lezione? Sembrerebbe proprio di no. L’episodio dei meraghelim mostra la persistenza di questo difetto fatale. I meraghelim mostrano attraverso il proprio comportamento l’incapacità della leadership di rispondere alla situazione contingente, alla luce di quanto era avvenuto in precedenza. Per questo la loro colpa è tanto grave, al limite della blasfemia e dell’idolatria. Non si tratta di una specifica trasgressione, ma di un vizio di fondo, in quel contesto ancora più grave. In questa ottica si può comprendere meglio l’inserimento delle mitzwot del sacrificio per la ‘avodàh zaràh e o tzitzit, volte a sottolineare l’importanza dell’impegno di avere una certa visione della vita. Il brano sul sacrificio, nota Abravanel, sembra essere fuori posto, perché sarebbe parso molto più naturale trovarlo nel libro di Waiqrà.
Il riferimento alla ‘avodàh zaràh ha un’origine tradizionale, ma nella Toràh, che parla genericamente della trasgressione di una qualsiasi delle mitzwot, non troviamo alcun riferimento esplicito all’idolatria. Ramban polemizza con Ibn ‘Ezrà, reo a suo avviso di non aver riportato nel suo commento la lettura rabbinica del verso, limitandosi al solo senso letterale. Ma nel suo commento poi Ramban cerca di conciliare le due visioni, il sacrificio è sì previsto per l’idolatria, ma la Toràh si esprime diversamente per condannare la mancata identificazione con la collettività di Israele e il rifiuto di una certa visione del mondo. L’idolatria è la negazione della Toràh, la mancanza di lealtà e il disimpegno verso una concezione dell’esistenza. Sebbene i meraghelim non fossero tecnicamente bestemmiatori o idolatri, questo è il messaggio che la Toràh ci trasmette. Questa visione viene trasferita anche sulla mitzwàh dello tzizit, che chiude la parashàh. Rashì (15,39) spiega che lo tzizit, per mezzo del suo valore numerico, sommato ai fili e ai nodi, forma il numero 613, corrispondente al corpus delle mitzwot. Ramban si mostra in disaccordo, perché questa visione rimanda ad una concezione particolaristica delle mitzwot. Le mitzwot devono essere dotate di uno spirito di fondo.
Fissare lo tzizit porta ad una presa di coscienza di natura religiosa e valoriale. Vedendo lo tzizit ci si ricorda di tutte le mitzwot, in modo tale da non seguire il proprio cuore e i propri occhi, che secondo il Sefer ha-chinukh (mizwàh 387) significa non coltivare attitudini improprie. L’applicazione pratica della halakhàh sottosta a valori e prospettive halakhici. Senza questa correlazione l’applicazione pratica delle mitzwot viene svuotata di significato, e per questo i chakhamim hanno considerato il peccato dei meraghelim tanto grave.