Da una derashà di Rav Sacks
Nella parashah di Shelach Lekha incontriamo uno dei più grandi fallimenti politici della Torah. Dieci dei dodici esploratori che Mosheh aveva inviato in terra di Israele ritornano con un rapporto che avrebbe demoralizzato la nazione. Si trattava di una sciocchezza, e ne sarebbero dovuti essere consapevoli: il popolo ebraico era uscito dall’Egitto, dopo averlo messo in ginocchio per mezzo delle piaghe, aveva attraversato il Mar Rosso, aveva sconfitto gli amaleciti. Se avessimo ancora qualche dubbio, sarebbe sufficiente leggere gli ultimi versi della Shirat ha-yam, che descrivono la paura e la costernazione che aveva colto i capi e gli abitanti delle varie popolazioni con le quali Israele avrebbe avuto a che fare.
Avrebbero dovuto sapere che erano queste popolazioni ad avere paura, e non il contrario, come volevano far credere, e come avrebbe poi affermato esplicitamente Rachav quarant’anni dopo, quando il popolo ebraico finalmente si accingeva a conquistare Gerico. Solo Yehoshua’ e Kalev fra i dodici si sono mostrati dei veri leader. La conquista della terra era possibile, D. era con loro. Ma il popolo non diede loro ascolto. Yehoshua e Kalev entrarono in Israele, gli altri no. Non solo, a trentatré secoli di distanza il loro rifiuto di avere paura ci è ancora di esempio. Uno dei compiti di qualsiasi dirigente, sia esso un presidente o un genitore, è quello di infondere nelle persone un senso di fiducia. Fiducia in se stessi, nel gruppo di cui si fa parte, nella propria missione. Il leader deve mostrare fiducia nelle persone che guida, e fare in modo che queste costruiscano la propria fiducia. Spesso le cose vanno storte perché siamo noi stessi a dichiarare che le cose andranno male. Chi dice che la conquista è possibile, forse ha ragione. Chi dice che è impossibile altrettanto, ma un fatto è certo: se ti sentirai privo di fiducia perderai. Se invece mostrerai una fiducia, basata sulla tua preparazione e le tue esperienze passate vincerai, magari non sempre, ma riuscirai a superare le battute d’arresto e i fallimenti naturali. Questa è una semplice lettura di quanto Mosheh aveva fatto durante la guerra contro Amaleq.
Quando Israele guarda verso il basso, perde. Più in generale, questo spiega perché la definizione negativa dell’identità ebraica non funziona, e lentamente sta conducendo ad uno sfaldamento nel popolo ebraico. Definirci come popolo perseguitato, o caratterizzato dall’isolamento sociale e politico, o dire che essere ebrei vuol dire non concedere una vittoria postuma a Hitler non paga: la conseguenza è tanti decidono di interrompere una catena millenaria. Il pessimismo tutto al più può condurci a constatare che avevamo ragione, ma è una magra consolazione. L’ottimismo, o piuttosto la speranza, conduce al la correzione, al miglioramento e al successo. Nessun ebreo, alla luce della sua storia precedente, potrebbe dirsi ottimista, ma gli ebrei hanno sempre avuto speranza, hanno sempre avuto speranza che insieme avrebbero potuto migliorare le cose. Anche i più pessimisti dei profeti, ad esempio Amos e Geremia, erano voci di speranza. Le parole degli esploratori furono fallimentari, sia come leader, sia come ebrei. Il Rebbe di Lubavitch nota come la Torah sottolinei che tutti gli esploratori erano capi, per dirci che tutti loro avevano piena coscienza della storia ebraica, e che il passato suggeriva che l’impresa avrebbe avuto successo.
Perché allora tornano con un rapporto negativo. La sua risposta è spiazzante: gli esploratori non temevano la sconfitta, ma avevano paura della vittoria. Quanto pensavano e quanto dicevano però non coincideva. L’esperienza nel deserto li aveva abituati ad uno stretto e continuo rapporto con D., che con l’ingresso in Israele si sarebbe troncato. I miracoli grandiosi del deserto si sarebbero tramutati in guerre di conquista e lavori agricoli. Avrebbero dovuto formare un esercito e costruire un sistema di assistenza delle categorie meno protette. Avrebbero dovuto fare ciò che ogni nazione fa: vivere nel mondo reale. Cosa ne sarebbe stato del loro rapporto con D.? Questo era un peccato nobile, ma pur sempre un peccato. D. vuole che ci occupiamo di tutte queste cose, vuole che portiamo la presenza divina nella vita di tutti i giorni. E’ semplice cercare D. nell’isolamento, fuggendo dalla responsabilità. E’ meno facile trovarlo negli uffici, nelle fabbriche e nel mondo della finanza. Ma questo è il nostro compito. Non esiste solo la paura del fallimento. C’è anche la paura del successo. Vogliamo avere successo. Così diciamo a noi e agli altri. Ma spesso, inconsciamente, abbiamo paura di quello che il successo può portare: nuove responsabilità, nuove aspettative, ecc. E quindi, per assenza di fiducia, non diventiamo ciò che saremmo potuti essere. Con la mitzwah dello tzizit e il suo filo azzurro la Torah ci mostra la strada. L’azzurro del cielo ci dice dove dobbiamo guardare, in alto. Se impariamo a guardare in alto, possiamo superare le nostre paure. Non siamo delle cavallette, se pensiamo di non esserlo.