Come è risaputo ciascuna delle tavole della legge (luchot ha-berit) contiene cinque comandamenti. Nella prima tavola sono presenti mitzwot che riguardano il rapporto con H. (ben adam laMaqom) e nella seconda cinque mitzwot relative ai rapporti interpersonali (ben adam lachaverò). Sebbene apparentemente vi sia questa divisione netta, i commentatori hanno insistito sull’uguaglianza delle due tavole. Le due dimensioni, quella più strettamente religiosa e quella sociale, non sono scindibili fra di loro. Non si può scegliere una tavola a dispetto dell’altra.
Ma perché, per rendere più chiaro il concetto, non usare un’unica tavola? R. Bechayè nel suo commento alla Torah (Shemot 31,17) sottolinea l’elemento della dualità: le tavole sono chiamata luchot ha-’edut, ”tavole della testimonianza”, ed una testimonianza, perché possa essere considerata valida, necessita di due testimoni. Nella Torah, nella parasha di Haazinu, vengono chiamati a testimoniare il cielo e la terra, e le tavole accomunano entrambi gli elementi, perché la pietra deriva dalla terra e lo scritto è celeste.
I Chakhamim, illustrando le caratteristiche delle tavole, affermano che lo scritto le attraversava da un lato all’altro, tanto che le lettere mem e samekh, la cui forma è “chiusa”, si reggevano miracolosamente. Nel trattato di Bavà Batrà (14a) vengono descritte le misure delle tavole, che erano sei palmi per sei, per tre di profondità (mettendole una sopra all’altra formavano un cubo con sei palmi di lato). Da questa fonte risulta che le tavole erano quadrate, tanto da assecondare l’idea, derivante dall’espressione “weha-luchot”, scritta senza la waw, tanto da sembrare un singolare, che le tavole, pur essendo due, sembravano essere una. Se le tavole avessero avuto una forma arrotondata, come vengono rappresentate nell’iconografia occidentale, questa percezione non sarebbe stata giustificata. Inoltre dalla ghemarà risulta che le tavole riempivano completamente l’aron che le contenevano, cosa da escludere se le tavole fossero state arrotondate. Un opuscolo polemico sul tema era intitolato, con un gioco di parole basato sull’espressione chet ha-’eghel (peccato del vitello d’oro), chet ha-’igul (il peccato dell’arrotondamento). C’è da segnalare tuttavia che anche una fonte ebraica, il Midrash Leqach tov, rappresenta le tavole sì come quadrate, ma riporta sopra alle tavole una corona arrotondata. Il responsa Even Israel (8,57) avvalora questa ipotesi, partendo dalla constatazione che in natura, secondo quanto è scritto nel Talmud Yerushalmì (Ma’aserot cap. 5) non vi è nulla di squadrato, e che le tavole, secondo quanto affermato nel Pirqè Avot (5,6) sono state create nel sesto giorno della creazione alla vigilia dello Shabbat. Alcuni tuttavia hanno recepito che l’affermazione del Talmud si riferisce solamente ad elementi naturali e non ad artefatti.
Se è così però, e le tavole erano effettivamente squadrate, perché nessuno al giorno d’oggi, le rappresenta così? Alcuni credono che sia un atteggiamento corretto, perché secondo la ghemarà in Avodah zarah (43a) è vietato riprodurre gli oggetti che vi erano nel Bet ha-miqdash, e secondo alcuni il divieto riguarda anche le tavole, è pertanto è giusto rappresentarle come le vediamo abitualmente. Inoltre in questo modo, presentandole come squadrate nella parte inferiore e arrotondate in alto, si esce d’obbligo secondo tutte le opinioni. C’è chi ribatte però che questa preoccupazione non è giustificata, perché non riproduciamo delle tavole di pietra, ma tutt’al più le rappresentiamo su un parokhet, e non vi è divieto allo stesso modo in cui non è vietato riprodurre al giorno d’oggi una menorah di legno.
k spiega che la peculiarità del cavallo è quella di essere sfruttato dall’uomo per mettersi al servizio di un proposito superiore, sia nel lavoro che nella guerra. La forza del leone è invece al suo interno. Il suo coraggio ed il suo vigore non sono asserviti all’uomo. La forza del re David si sviluppa in due diverse direzioni: da una parte è al servizio del popolo – en melekh belò ‘am, non c’è re senza popolo – ma dall’altra, quando la notte diviene più scura emerge un altro aspetto, quello di erigere un mondo di studio della Torah, modificando l’orizzonte della nostra spiritualità. Questa forza vince la stanchezza dovuta al sonno. Questo svela una nuova dimensione, non più quella degli studi curricolari, che mirano a migliorare e ottimizzare gli strumenti affinché lo studio sia più proficuo, ma quella del canto della Torah, il canto che emerge dal cuore e dall’anima di ciascuno di noi. A fianco della necessità indispensabile di accrescere la nostra conoscenza della Torah c’è lo sforzo di scoprire la passione e la musica della Torah. E’ quello che facciamo durante la notte di Shavu’ot quando lo studio mostra il nostro amore per la Torah, anticipando la rinnovata esperienza della rivelazione, mettendo a repentaglio la nostra capacità di concentrarci a dovere nella tefillah e nello studio nel resto della festa. In massekhet Shabbat (88a) è scritto che quando i figli d’Israele dissero “faremo e ascolteremo” vennero degli angeli e misero delle corone sui loro capi. Per acquisire un amore duraturo per lo studio è necessario sacrificare a volte l’aspetto normativo, e coltivare l’amore e l’orgoglio per la musicalità della nostra tradizione.