Da una derashà di Rav Sacks
I dieci comandamenti sono il più famoso codice religioso-morale della storia. Sino a poco tempo fa si trovavano in tutti i tribunali americani, ed ancora oggi adornano molte sinagoghe. Rembrandt ne ha dato espressione artistica rappresentandole in mano a Mosheh, prima che le gettasse a terra vedendo il vitello d’oro. Sono il simbolo duraturo della legge eterna sotto la sovranità di D.
Vale tuttavia la pena di ricordare che la tradizione ebraica non parla di dieci comandamenti, bensì di dieci parole. Possiamo meglio comprendere questo fatto alla luce delle recenti scoperte archeologiche. Le leggi specifiche erano introdotte da affermazioni di carattere generale. Questo è lo stesso rapporto che c’è fra le dieci parole e le numerose mitzwot contenute nella Parashah di Mishpatim.
Di solito i dieci comandamenti vengono rappresentati, graficamente e concettualmente, come due gruppi di cinque, i primi si riferiscono ai rapporti fra gli individui e D., gli altri ai rapporti interpersonali.
E’ possibile però leggere e classificare questi comandamenti anche in un altro modo, dividendoli in tre gruppi di tre. I primi tre hanno come tema principale D.; i secondi tre riguardano la creazione, lo Shabbat la creazione dell’universo, l’onore dei genitori che ci hanno fatto nascere, l’omicidio perché siamo tutti creati a immagine divina; i terzi riguardano le istituzioni base della società, il matrimonio, la salvaguardia della proprietà privata e l’amministrazione della giustizia.
Questa struttura sottolinea quanto sia strano l’ultimo dei comandamenti, lo tachmod, non desiderare. Superficialmente questo comandamento è differente da tutti gli altri, perché non sembra riguardare il discorso o l’azione. L’invidia o la cupidigia sono delle emozioni, non pensieri, parole, o azioni. Sicuramente non siamo in grado di governare le nostre emozioni. Erano chiamate passioni, perché siamo passivi rispetto a loro. Come può essere allora proibita l’invidia? Avrebbe senso comandare o vietare solo ciò che è sotto il nostro controllo. La Torah intende trasmetterci una serie di verità fondamentali, che siamo portati a dimenticare a nostro rischio e pericolo.
In generale si può dire che ciò che crediamo ha un’influenza su quello che sentiamo. Un narcisista per esempio è convinto che gli altri stiano parlando sempre di lui, anche quando gli altri se ne disinteressano. La loro credenza è evidentemente falsa, ma non per questo evitano di sentirsi arrabbiati o risentiti. In secondo luogo l’invidia è uno dei principali motori della violenza all’interno della società. E’ il sentimento da cui scaturisce la disputa fra Caino e Abele, quello che costringe Abramo e Isacco a mentire quando devono recarsi in terra straniera per via della carestia, e temono per la propria incolumità per via delle proprie mogli. L’invidia muove le azioni dei fratelli di Giuseppe.
Renè Girard nella violenza e il sacro sostiene che la causa più basilare della violenza è il desiderio mimetico, il desiderio di avere ciò che appartiene a qualcun altro, che in definitiva corrisponde al desiderio di essere qualcun altro. L’invidia può spingere l’uomo a trasgredire tutta la parte sinistra delle tavole. Gli ebrei devono temere l’invidia in modo particolare. Ha giocato un ruolo centrale negli sviluppi dell’antisemitismo nei secoli. I non ebrei hanno invidiato gli ebrei per la loro capacità di prosperare nelle avversità. Invidiavano poi il concetto di elezione (anche se nella storia, praticamente ogni nazione si è sentita eletta a modo suo). Il divieto dell’invidia non è affatto strano. E’ la forza più basilare che mina l’ordine e l’armonia sociale che i dieci comandamenti perseguono. Non solo viene proibita, ma ci vengono forniti gli strumenti per superarla, i primi tre comandamenti, che ci insegnano che c’è un D. che governa la storia e interviene nelle nostre vite, e i secondi tre, che ci ricordano della nostra creazione. Siamo qui perché D. lo vuole, e per lo stesso motivo abbiamo quello che abbiamo. Perché allora dovremmo cercare ciò che hanno gli altri?
Nel momento in cui smettiamo di definirci in relazione a D., e iniziamo a definirci in relazione agli altri, i sentimenti di competizione, conflitto, cupidigia e invidia si insinuano all’interno delle nostre menti. Se il fatto che qualcuno abbia comprato una macchina nuova è per noi un problema, la cui soluzione è acquistarne un’altra più costosa, adottiamo un’etica dell’asilo, che non dovrebbe avere spazio in una vita matura.
L’antidoto all’invidia è la gratitudine. Chiedeva Ben Zomà: chi è ricco? Chi si rallegra di quello che ha. Ogni mattina ci svegliamo dicendo modeh anì, ringraziando D. per quello che abbiamo. Ringraziamo prima di pensare. Smettiamola quindi di pensare agli altri, e rallegriamoci di quanto abbiamo e di quello che siamo, senza arrovellarci a pensare a ciò che non abbiamo e a ciò che non siamo.