Fra gli Shalosh regalim sicuramente Shavu’ot è quello più misterioso. Il suo nome non è collegato a una qualsivoglia pratica che caratterizza la giornata, come chag ha-matzot o chag ha-sukkot. La Toràh ci parla di Shavu’ot o Yom ha-bikkurim, ma non ci spiega oltre. Come d’altro canto non è esplicitato il motivo per cui dobbiamo festeggiare. La tradizione, che si riflette nelle formule scelte per la tefillàh e la birkat ha-mazon, la collega con il dono della Toràh, ma è molto evidente che questo non traspaia dalla Toràh stessa.
Perché ometterlo? Per essere più precisi anche la data del dono della Toràh è oggetto di discussione fra i chakhamim (Shabbat 88). Secondo R. Yosè la Toràh è stata rivelata il 7 di Sivan, un giorno dopo Shavu’ot. E’ sorprendente notare che la rivelazione divina, uno dei momenti più alti e luminosi della storia umana, sia avvolto dall’oscurità. Per stabilire la data di Shavu’ot, come è risaputo, la Toràh la fissa 50 giorni dopo l’inizio del conteggio dell’omer, che parte mi-machorat ha-shabbat. La spiegazione di questa espressione ha innescato un acceso dibattito fra i rabbini ed i Sadducei. Questi ultimi, legati al senso letterale, sostenevano che il conteggio partisse sempre all’uscita di Shabbat, mentre la tradizione rabbinica lo fa iniziare all’uscita di Yom tov. Ma perché la Toràh fa dipendere in maniera tanto evidente la data di Shavu’ot dalla tradizione rabbinica, ponendosi in aperta contraddizione con il testo scritto? Forse la Toràh vuole insegnarci che il vero punto centrale nella rivelazione della Toràh supera l’evento e l’esperienza della rivelazione, andando persino oltre il contenuto della Toràh stessa. Ancora più del dono della Toràh è fondamentale l’accettazione e l’osservanza delle mitzwot da parte del popolo ebraico. La tradizione che accompagna la Toràh attribuisce agli uomini una grandissima responsabilità.
I Chakhhamim detengono la chiave di lettura della Toràh, tanto che la halakhàh trascende i confini spaziali e temporali. Così il legame fra Shavu’ot e dono della Toràh è affidato alla tradizione orale, perché quello che celebriamo è anzitutto l’elemento umano che caratterizza la Toràh. Se è così, il momento più alto della storia umana, la rivelazione divina, non è solamente un’esperienza grandiosa, ma passiva, ma anche il momento fondamentale della creazione di un patto in cui il popolo ebraico svolge un ruolo cruciale. Tante volte quando vediamo com’è fatta la nostra tradizione ci stupiamo per la quantità e la portata delle discussioni rabbiniche, e ci meravigliamo ancora di più quando diciamo che “elù we-elù divrè Eloqim chayim- queste e quelle sono parole del D. vivente. Ma, spiega Yam shel Shelomò (introduzione al trattato di Bavà Qaamà) ciascun individuo riceve la Toràh, in un certo momento storico, in base alle proprie predisposizioni e personalità. In massekhet Pesachim R. Eli’ezer ammette che i giorni di mo’ed possano essere dedicati esclusivamente ad H. (kulò laH.), ma su Shavu’ot considera indispensabile che vi sia lachem (per voi). ù
A livello di senso letterale il riferimento è al mangiare e bere proprio della gioia di Yom tov, ma tuttavia quanto dice R. Eli’ezer è quantomeno strano: ci saremmo aspettati che il giorno della rivelazione divina fosse dedicato totalmente ad H.! Ma, andando oltre il senso piano, è possibile che si voglia insistere sull’elemento umano nella trasmissione della Toràh. Non c’è solo un passaggio di informazioni, ma anche un ammaestramento sui principi delle halakhàh e la metodologia della loro applicazione. Questo ha permesso alla Toràh di sopravvivere nei secoli, rimanendo sempre al passo con i tempi. Attraverso la sua voluta oscurità e ambiguità, la Toràh definisce il ruolo indispensabile della tradizione rabbinica e della Toràh orale, e stabilisce in tal modo il senso più autentico della festa di Shavu’ot.