“Per sei giorni lavorerai, ma nel settimo giorno farai Shabbat. Farai Shabbat nell’aratura e nella mietitura” (Shemot 34,21). Non è la prima volta che la Torah mette sullo stesso piano il lavoro dei sei giorni con il riposo del settimo: lo abbiamo già trovato nel quarto comandamento. Che significato ha questa giustapposizione? Vedremo quattro spiegazioni differenti, in crescendo.
Secondo la più semplice la Torah ci vuol dire che come esiste l’obbligo di riposare di Shabbat, così siamo tenuti a lavorare nei restanti giorni della settimana. In Berakhot troviamo in proposito una discussione fra R. Shim’on bar Yochay, che dedicava tutto il proprio tempo alla Torah e R. Ishma’el. Il Talmud commenta che pochi riescono a comportarsi come il primo, mentre molti alternano lo studio con un’attività lavorativa secondo l’insegnamento di R. Ishma’el e hanno avuto successo. Qualche giorno fa ho incontrato a Milano un mio ex allievo che sapevo essersi trasferito in Israele per studiare in Yeshivah. Alla mia domanda su cosa stava facendo mi rispose che aspettava da H. un’indicazione su come procurarsi da vivere. Gli dissi che sia il Rambam che il Chazon Ish insistono da un lato sulla rilevanza del bittachon (fiducia in D.) ma dall’altro anche sull’importanza di sforzarsi di trovare un lavoro (hishtadlut). Mi disse che su quest’ultimo punto non era d’accordo. Gli replicai che il suo disaccordo non era verso di me, ma verso il Rambam e il Chazon Ish appunto: se ne sarebbe assunto tutta la responsabilità. So che con la crisi economica non tutti oggi hanno un lavoro e sono particolarmente vicino a costoro, augurando a ognuno di riuscire a procurarsi un sostentamento dignitoso.
La seconda spiegazione è del Ben Ish Chay di Baghdad. Egli sostiene che lavoro e riposo sono giustapposti nel versetto per insegnarci invece quanto è importante lo Shabbat. Come siamo pronti negli altri giorni a curare i nostri interessi materiali, non di meno dobbiamo impegnarci nello Shabbat verso quelli spirituali. Il Talmud racconta che quando Rabban Yochanan ben Zakkay stava per morire i discepoli gli richiesero un ultimo insegnamento. “Sia volontà -rispose loro il Maestro- che il vostro Timor del Cielo eguagli quello che avete degli uomini”. Come siamo pronti a correr dietro a tutto ciò che è terreno, dobbiamo manifestare almeno altrettanta disponibilità verso ciò che appartiene allo spirito.
La terza spiegazione è più complessa ed è quella del Maor wa-Shemesh, un commento chassidico. Egli si ricollega al fatto che nelle Parashot di queste settimane il comandamento dello Shabbat è ripetuto in relazione alla costruzione del Mishkan per insegnarci che l’opera del Mishkan doveva fermarsi all’inizio dello Shabbat. Il Mishkan e lo Shabbat hanno un concetto fondamentale in comune, nello spazio e nel tempo rispettivamente. Entrambi vogliono insegnarci che spiritualità e materia non sono due mondi separati, ma che anzi “H. vuole avere la Sua dimora in basso”. Affinché la qedushah dello Shabbat emerga in tutta la sua forza è perciò necessario che la sua esperienza sia preceduta dal contatto con la materia negli altri sei giorni. Tutto ciò avviene in misura differente da un individuo all’altro. Quanto più ci impegneremo nel lavoro materiale dalla domenica al venerdì, tanto maggiore sarà la nostra realizzazione spirituale durante lo Shabbat.
La quarta spiegazione è quella del Kelì Yeqar nel suo commento al quarto comandamento. Anche lì come qui per indicare il lavoro dei sei giorni è usato il verbo ta’avod. Nell’ebraico antico esso non indicava in realtà il lavoro ma il servizio: la ‘Avodat H., il Servizio Divino, mentre “lavoro” si diceva melakhah. Il versetto del quarto comandamento andrà dunque riletto nel modo seguente: “Per sei giorni servirai H., ma potrai fare anche tutto il tuo lavoro. Invece di Shabbat non farai alcun lavoro”. Il senso è chiaro. Il Servizio Divino non è un impegno limitato allo Shabbat, ma deve essere svolto tutta la settimana. Solo che negli altri sei giorni ci viene concesso anche di lavorare per procurarci da vivere (il “tuo lavoro”). Lo Shabbat, invece, va dedicato interamente al Servizio Divino. E’ per questo che in altri versetti che parlano di questo argomento è scritto al passivo: “Per sei giorni sarà eseguito ogni lavoro”, nel senso che il Servizio Divino resta comunque l’ideale in contrapposizione con le necessità materiali. Se prima avevamo posto l’accento sulla hishtadlut, ora torniamo a porre l’accento sul bittachon. E’ giusto e doveroso impegnarci nel nostro lavoro, ma non fino al punto di smarrire la corretta e proporzionata visione delle cose. Lo scopo della nostra vita consiste nel realizzarci spiritualmente,.
Un’ultima osservazione riguarda la parte finale del versetto dal quale siamo partiti: “farai Shabbat nell’aratura e nella mietitura”. Perché mettere l’accento proprio su queste due Melakhot che di Shabbat sono proibite, quando sappiamo bene che in tutto sono 39? Il Ben Ish Chay di Baghdad ne dà una lettura metaforica. Lo Shabbat è il momento della nostra semina interiore (e forse proprio per questo è proibita la semina in senso materiale!). Come è noto, l’aratura precede la semina e la mietitura la segue. L’aratura corrisponde dunque ai minuti del venerdì che precedono immediatamente l’entrata di Shabbat, mentre la mietitura corrisponde ai minuti del Sabato Sera che seguono immediatamente la sua uscita. Il versetto viene a insegnarci il principio halakhico della tossefet Shabbat (“aggiunta allo Shabbat”): dobbiamo cominciare a osservare Shabbat già alcuni minuti prima del suo inizio, sottraendoli al giorno feriale precedente, e altrettanto siamo chiamati a fare per qualche minuto dopo la sua fine. Ciò perché tutto ciò che è qadosh richiede appunto una tossefet (“aggiunta”).