1.
Il luogo testuale della Torah (la Bibbia ebraica) in cui appare con maggiore evidenza la consapevolezza interna del testo riguardo alla dimensione semiotica del sacro, è costituito certamente da quei versetti di alcuni capitoli iniziali (3, 1-18 e 6, 3-7) del libro dell’Esodo in cui Mosé ottiene da Dio l’enunciazione diretta di alcuni suoi nomi. Ad essi va accostato un piccolo frammento successivo dello stesso libro (34,6-7) in cui troviamo un’altra esplicita auto-nominazione o forse piuttosto un’auto-definizione, tant’è che la tradizione ne parla in termini di “attributi divini” o midòt[1]. In questi luoghi testuali il divino si presenta in prima persona nei più importanti dei suoi diversi nomi e spiega come intende essere chiamato. Essi sono l’oggetto di questo studio.
Che i nomi di Dio siano diversi e numerosi, pur non autorizzando con ciò a immaginare una pluralità di soggetti o persone divine sotto tale abbondanza onomastica e anche che a tale pluralità sia data sostanziale importanza teologica, può sembrare certamente strano al lettore occidentale contemporaneo, abituato a pensare secondo il modello cristiano che la divinità possa essere in un certo senso plurale (una e trina) ma sostanzialmente indifferente rispetto alla sua denominazione: è difficile per il fedele cristiano comune cogliere una differenza fra il rivolgersi a “Gesù” o a “Cristo”, pregare “Dio” o “il Padre” ecc. Dunque la questione dei nomi non appare nel mondo cristiano e nella teologia che vi è ospitata come un’ ambito rilevante per comprendere il senso del divino. Lo stesso vale per l’Islam, che usa sostanzialmente solo un nome del divino, “Allah”.
Per la tradizione ebraica la questione dei nomi è invece decisiva, giacché consente l’accesso a diverse corrispondenti modalità del divino, benché esso vada compreso in forma rigorosamente monoteistica; di conseguenza la nominazione riguarda anche il credente comune nella sua attività di preghiera, non solo il filologo o lo storico, il rabbino o il mistico. L’enunciazione dei nomi divini nei passi che intendo studiare qui è dunque teoricamente molto significativa e comporta per questa ragione una sorta di pensiero implicito sulla nominazione, sviluppato con grande impegno nel dispiegamento della tradizione ermeneutica ebraica. Proprio per comprendere questa pluralità, propongo dunque di esaminare la fonte testuale più chiara.
Il capitolo terzo dell’Esodo, con una breve appendice nel sesto, allestisce un complesso labirinto onomastico; i nomi del divino vi si sovrappongono, si intrecciano, si fondono, si distinguono fino quasi a contrapporsi, pur nominando quello stesso Dio che ha nell’unità la sua caratteristica più evidente e distintiva rispetto alle altre culture che per molti secoli hanno circondato quella che ha accettato la Torah come testo sacro. Il capitolo 34 vi aggiunge degli attributi o definizioni, che completano e spiegano il senso del nome principale o “proprio” del divino nella tradizione ebraica, il cosiddetto Tetragramma (cioè il nome composto dalle quattro lettere ebraiche yud-he-vav-he). Studiare nomi e attributi è cercare di capire l’espressione del monoteismo attraverso la chiave della sua dimensione semiotica, vale a dire dei segni caratteristici che lo definiscono.
Nei testi che prenderò in esame vi sono almeno due singolarità estremamente interessanti sul piano semiotico come su quello religioso.
a) In primo luogo questi brani sono i più rilevanti fra i primissimi luoghi testuali in cui a Dio viene attribuita la volontà di presentarsi esplicitamente – cioè in un certo senso di firmare – le sue parole asserendo e perfino descrivendo la sua identità, come in seguito accadrà numerose volte, sempre in luoghi molto significativi della narrazione, come per esempio all’inizio del Decalogo (“Io sono il Signore tuo Dio”, anì Y-H-V-H elo-hekha,[2] “che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù” Es. 20,1)[3] e poi in calce a tutte le norme più importanti che Egli ordina[4] (la firma tipica è anì Y-H-V-H da tradurre “Io, il Signore” o piuttosto com’è comune “Io sono il Signore”, dato che in ebraico non vi è mai voce verbale per la copula).
Vi è cioè nel libro dell’Esodo (e in generale nella Torah a partire da questo punto) una partecipazione enunciativa del soggetto divino, un suo dirsi includendosi nel proprio dire, molto più chiaro e frequente rispetto a quanto accadesse nel libro della Genesi, dove la parola divina era sì spesso presentata sul piano diegetico, cioè narrata come tale, ma quasi mai sottoposta a un simile esplicito embrayage attanziale:[5] essa diceva, ma quasi mai si nominava. La ragione è semplice, almeno sul piano narrativo: è evidente dal testo che nelle narrazioni della Genesi la presenza del divino è distintamente percepita, senza bisogno di auto-dichiarazioni formali. Da Adamo a Giacobbe il dialogo con Dio scorre facilmente e anche le espressioni divine più solenni e più dure (come la cacciata dall’Eden o la condanna di Sodoma) non hanno bisogno di una “firma” esplicita. Al massimo capita che “Dio era in questo luogo e io non lo sapevo”, come dice Giacobbe nell’episodio del sogno della scala (Gn 28,16); ma non ci sono dubbi sull’origine delle Sue parole e sul Suo nome. Ci si presenta infatti, dicendo il proprio nome, solo di fronte a persone che non ci conoscono. Il che permette di ritenere che dal punto narrativo questa auto-nominazione dell’Esodo sottintenda che sia intervenuto un problema semiotico sul nome e dunque sull’identità divina che nel periodo patriarcale non si presentava. Ciò, fra l’altro, potrebbe essere un indizio contrario alle correnti ipotesi evoluzionistiche sulla religione di Israele,[6] la quale secondo tale punto di vista si sarebbe precisata lentamente da un semplice culto tribale all’enoteismo fino al monoteismo, raggiunto assai tardivamente; ma in questo caso la necessità di precisare il soggetto divino sarebbe più forte all’inizio che nel prosieguo della narrazione. Ne vedremo in seguito le ragioni.
Per ora basta notare nel testo dell’Esodo le tracce di una certa distanza che certamente secondo la narrativa biblica si è frapposta durante l’esilio egiziano fra Dio e i discendenti di quei patriarchi che avevano invece con Lui un rapporto così intenso e continuativo da poter essere considerato consuetudine, se non proprio confidenza. Del resto il penultimo versetto del capitolo precedente al brano che intendo esaminare (Es. 2, 24) dicendo che finalmente Dio al tempo di Mosé “udì il lamento” del popolo di Israele e “si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe” tematizza non un’assurda smemoratezza divina, ma certamente una delle sue numerose “eclissi” (Buber) o, come piuttosto si usa dire in linguaggio talmudico, estèr panìm , “nascondimento dei volti” divini o allontanamento dalla scena della storia, che si traduce nel popolo di Israele in una perdita di conoscenza e nel bisogno di ritrovare quasi daccapo il contatto l’identità divina, proponendo così il problema semiotico appena discusso. Per quanto sia complesso e assai dibattuto nella tradizione ebraica il tema del rapporto col divino durante l’esilio, è chiaro che la necessità di presentarsi negli episodi che esamineremo è motivata da una sopravvenuta distanza fra Dio e i discendenti di Giacobbe.
b) La seconda caratteristica di questi brani, che spiega in parte questa prima, è che si tratta dei soli luoghi testuale della Torah in cui Dio accetti di discutere sulla propria “firma” e dunque di spiegare il proprio nome. Non si limita cioè a enunciarlo, ma lo commenta benché enigmaticamente, lo riformula più volte e in un certo senso, come vedremo, lo motiva. Il che è di particolare interesse per noi, perché ciò implica necessariamente una sorta di semiotica del sacro, cioè una teoria su come si possa o si debba parlare di Dio. Il tema del nome è dunque centrale rispetto alla percezione del sacro nella tradizione ebraica, anche perché questa percezione è spesso qualificata come auditiva (linguistica, nel registro verbale) e non iconica o comunque visiva.[7] Vale la pena di ricordare preliminarmente che il libro stesso in cui questo brano è contenuto, per ragioni del tutto indipendenti dal tema di cui intendo discutere,[8] si chiama in ebraico Sèfer Shemòt, “libro dei nomi”. Una combinazione senza dubbio, ma interessante: il nostro problema è come e perchè il Santo si nomini nel libro dei nomi.
In questo articolo mi propongo di portare alla luce questa autocomprensione, che presenta aspetti piuttosto sorprendenti, sul piano tanto semiotico quanto teologico, rispetto al modo comune nella tradizione occidentale di definire il divino, cioè come un certo ente, dotato di una struttura che può essere piuttosto complessa e perfino misteriosa o no, ma la cui essenza è comunque nominata adeguatamente dal nome comune “dio”: un nome che funziona come tutti gli altri nomi, esattamente come il suo oggetto è un Ente superiore agli altri ma dotato dello stesso essere. Se usato senza articolo e spesso con l’iniziale maiuscola come si fa generalmente nella tradizione occidentale, questo nome comune alluderebbe all’unicità del suo referente. Tale unicità espressa per antonomasia introduce essenziali cambiamenti concettuali ma non richiede un cambiamento di nome, una distinzione onomastica.[9]
Vale infatti la pena di precisare qui sommariamente che “dio” è una parola di origini indoeuropee legata alla radice *deiwa che indica la luminosità della volta celeste (da cui probabilmente deriva anche dies, il “giorno” latino e anche il nostro “giorno” dal latino diurnus). Da *Dieus deriva il greco Zeus, da *Dieus-pater il latino Juppiter, naturalmente hanno la stessa origine deus, theòs e l’aggettivo divus, col senso più generale di nobile, alto, glorioso. Le forme germaniche God, Gott ecc. appaiono invece legate a una radice indoeuropea *ghut che darebbe il sanscrito havate e l’antico slavonico zovetu, con il significato di invocare, magari con un dono. Le forme slave Bog (in russo) ecc. sarebbero invece legate alla radice sanscrita *bhaj col senso di distribuire, regalare. Luminoso, generoso, da invocare, comunque il dio della tradizione indoeuropea è il membro di una serie, eventualmente rimasto solo dopo la fine del politeismo. Il Dio è dunque pensato come il membro magari unico di una classe di esseri superiori. Si tratta cioè per origine e funzionamento logico di un nome comune. Vedremo come la Bibbia si sforzi di sfuggire proprio a queste determinazioni grammaticali e ontologiche.
2.
Prima di chiederci che cosa siano dunque i nomi divini nella tradizione ebraica e cercare di capire le ragioni e le regole per il loro uso, bisogna brevemente introdurre la teoria dei nomi implicita nella Torah, perché essa rende particolarmente rilevante la nostra questione. I nomi sono trattati, a partire dal racconto della Creazione e fino ai libri storici e profetici, come designatori rigidi e allo stesso tempo come descrizioni definite.[10] Ogni nome cioè, secondo la concezione biblica, aderisce fortemente a ciò che designa, sembra appartenere all’essenza del suo oggetto e insieme non è percepito come un puro suono arbitrario, ma descrive in qualche senso le sue proprietà definitorie.
Il primo di questi due aspetti si vede soprattutto da quei versetti dell’episodio della creazione in cui le cose sono nominate. La creazione stessa, com’è raccontata dalla Torah ha una dimensione fortemente linguistica. Per dieci volte nel primo capitolo della Genesi Dio “dice” (vajòmer) qualcosa all’imperativo (“sia la luce”, “vi sia un firmamento”, “brulichino le acque…” ecc.) e la clausola viene quindi ripetuta come un fatto, all’indicativo. Cinque volte queste azioni creative sono seguite da quello che – molto impropriamente in questo caso, ma seguendo l’uso filosofico di Kripke – possiamo chiamare un “battesimo”, cioè l’assegnazione esplicita di un nome (per esempio al versetto 5 “Dio chiamò la luce ‘giorno’ e le tenebre ‘notte’…”).[11] Altre azioni semiotiche di questo testo inaugurale sono le benedizioni pronunciate da Dio e la sua constatazione che i frutti dei vari atti creativi possiedono valore (sei volte: “e Dio vide che era una cosa buona” o “molto buona”) .
Un’ulteriore passaggio importante di questa teoria originaria dei nomi si incontra nel versetto Gn 2.19: “Allora il Signore Dio formò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti i volatili del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati : in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.” Dunque i nomi sono assegnati all’umanità, almeno quelli degli esseri viventi: sono arbitrari ma insieme sono giusti (letteralmente: asher likrà lo … hu shemò “come lo chiamerà, così sarà il suo nome”), e dunque hanno potere esplicativo. Di più, chi li conosce dispone in un certo senso dell’oggetto nominato. Dice Martin Buber nel suo Moses[12] :
Il vero nome di una persona esprime la sua essenza, sicché costui è in qualche modo presente nel nome e questa relazione ha forma tale che chiunque conosca il nome e sappia come pronunciarlo correttamente può controllare la persona. La persona in sé è inavvicinabile, oppone resistenza, ma attraverso il nome diventa avvicinabile, chi pronuncia il nome ha potere su di lui.
La teoria del nome vero che evoca l’essenza della cosa si applica centinaia di volte nel testo biblico, soprattutto a persone e a luoghi. Così subito dopo il passo citato il testo gioca su due voci dello stesso verbo “vivere” “l’uomo chiamò sua moglie Eva (Havvà = vivente) perché ella fu la madre di tutto ciò che vive (kol hài)” (Gn. 3,21). Pochi versetti dopo, la nominazione di Caino (kayìn) viene accostata all’enigmatico commento di Eva per il primo parto della storia: “acquistai (kanìti ) un uomo con il Signore”. Il secondo figlio di Adamo è Abele (hèvel, che significa vapore, alito, fumo ed è proprio sul fumo del suo sacrificio che sale al cielo, mentre quello di Caino viene respinto, che si accende la disputa), il terzo Set, e Adamo spiega: “perchè Dio pose – sat – per me altro seme al posto di Abele”. E così via fino ad Abramo (che quando accetta il patto con Dio da Avràm che era viene rinominato Avrahàm, cioè padre di moltitudini[13]) a Mosé (= salvato dalle acque) e praticamente a tutti i personaggi biblici. Lo stesso accade per i luoghi, che secondo il testo vengono chiamati a seconda dei fatti che vi si svolgono. Queste etimologie bibliche solo talvolta sono accettabili da un punto di vista linguistico, spesso appaiono infondati agli occhi del filologo moderno.
Ma non è questa discussione sulle paraetimologie che ci importa qui. Ci interessa invece sottolineare che i nomi, anche i nomi propri assegnati nel corso della narrazione, appaiono nella Torah come nomi giusti, veri, attaccati all’essenza del loro oggetto (vale il principio citato sopra asher likrà lo … hu shemò), dunque designatori rigidi, e insieme però come rivelatori di una proprietà: quando Avràm diventa Avrahàm; oppure quando Yaakòv, dopo il combattimento notturno con l’angelo diventa Yisraèl,[14]il nuovo nome (in quest’ultimo caso aggiuntivo e non sostitutivo del primo) designa una verità perché la proprietà è nuova come il nome. Quest’aggiunta però allora entra nelle “proprietà essenziali” del personaggio: il personaggio biblico Avràm muta quando diventa Avrahàm e il cambiamento del nome descrive una trasformazione della sua identità. Questo è un punto particolarmente significativo e idiosincratico della teoria biblica implicita della nominazione: chiamare Giacobbe Yaakòv o chiamarlo Yisraèl non è la stessa cosa, anche se i nomi sono entrambi “giusti” e hanno lo stesso riferimento estensionale (il figlio secondogenito di Isacco). Si allude a strati e potenzialità diverse di tale persona, a aspetti diversi della sua personalità.[15] Come vedremo, questo aspetto è particolarmente significativo per i nomi divini: anche in questo caso, chiamare Dio in un modo o nell’altro (e perfino descrivere le sue azioni sotto un nome o un altro) ha per i commentatori ebraici un significato differenziale.
Se si confronta questo atteggiamento con le teorie dei nomi contenuti nel testo fondatore della filosofia del linguaggio occidentale, il Cratilo di Platone, è facile vedere che nella tradizione ebraica i nomi sono allo stesso tempo arbitrari e naturali, nomoi e fysei, cioè che la loro arbitrarietà, l’essere frutto di un atto storico di nominazione non impedisce che essi colgano un’essenza reale della cosa – o che siano pensati in questo modo. Certamente si tratta di una concezione più naturalistica che convenzionalista – l’ebraico è pensato come làshon hakòdesh, lingua santa o della santità. Ma l’azione dell’uomo è essenziale per determinarla.
3.
Vediamo ora il luogo testuale in cui avviene la “rivelazione” dei nomi divini (così la considera la tradizione ebraica, anche se, come vedremo, nell’idea di rivelazione come atto inaugurale di una conoscenza, in questo caso della conoscenza dei nomi divini, si cela un problema). E’ il celebre episodio del roveto ardente, all’inizio dell’Esodo. Ci interessa in particolare buona parte del capitolo 3 e l’inizio del capitolo 6, con la “coda dei due versetti del capitolo 34 in cui sono enunciati gli “attributi” di Dio:[16]
3. 1. E Mosè fu pastore con il gregge di Itrò suo suocero sacerdote di Midiàn. E guidò il gregge oltre il deserto [achar hamidbar] e venne al monte di Elo-hìm, al Chorev (Sinai).
2. E apparve un angelo [malakh] di Y-H-V-H a lui in fiamma di fuoco in mezzo al roveto. E vide ed ecco il roveto brucia nel fuoco e il roveto non è lui stesso consumato.
3. E disse Mosè: “Mi sposterò e vedrò questa grande apparizione. Perché non brucerà il roveto?”
4. E vide Y-H-V-H che lui si spostava per vedere. E chiamò verso di lui Elo-hìm in mezzo al roveto e disse: “Mosè, Mosè,” e disse: “Eccomi”.
5. E disse: “Non avvicinarti qui. Cava i tuoi sandali dai tuoi piedi perché il luogo sopra il quale stai, suolo sacro è esso”.
6. E disse: “Io sono Elo-hìm di tuo padre, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe”. E rifugiò Mosè il suo volto perché ebbe timore di guardare verso Elo-hìm.
7. E disse Y-H-V-H: “Vedere ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto. E il loro grido ho udito a causa dei suoi oppressori, perché ho conosciuto i suoi dolori.
[…]
10. E adesso va e ti manderò presso Faraone. E fa’ uscire il mio popolo, i Figli d’Israele dall’Egitto”.
11.E disse Mosè a Elo-hìm: “Chi sono Io che andrò presso Faraone? E che farò uscire i Figli d’Israele dall’Egitto?”
12. E disse: “Poiché sarò con te e questo è per te il segno che Io ti ho mandato: quando farai uscire il popolo dall’Egitto servirete Elo-hìm sopra questo monte”.
13. E disse Mosè a Elo-hìm: “Ecco Io vado verso i Figli d’Israele e dirò loro: ‘Elo-hìm dei vostri padri mi ha mandato a voi. E diranno a me: qual è il suo nome; cosa dirò loro?’
14. E disse Elo-hìm a Mosè: “Sarò ciò che sarò”. E disse: “Così dirai ai Figli d’Israele: Sarò mi ha mandato a voi”.
15. E disse ancora Elo-hìm a Mosè: “Così dirai ai Figli d’Israele: Y-H-V-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre: e questo il ricordo di me di generazione in generazione.
16. Vai e radunerai gli anziani di Israele e dirai loro: Y-H-V-H Elo-hìm dei vostri padri è apparso a me, Elo-hìm di Abramo, Isacco e Giacobbe per dire: Visitare ho visitato voi e ciò che vi è stato fatto in Egitto.
[…]
18. E ascolteranno la tua voce. E verrai tu e gli anziani di Israele al re d’Egitto e direte a lui: Y-H-V-H Elo-hìm degli Ebrei è venuto incontro a noi e adesso lascia che noi si vada per un cammino di tre giorni nel deserto e sacrificheremo a Y-H-V-H nostro Elo-hìm.
6. […]2. E parlò Elo-hìm a Mosè. E disse a lui: “Io sono Y-H-V-H“
3. E mi rivelai ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in (nome di) El Shad-dai. E il mio nome Y-H-V-H non l’ho fatto conoscere a loro.
[…]
6. Perciò dì ai Figli d’Israele: Io sono Y-H-V-H e vi farò uscire da sotto i fardelli d’Egitto e vi libererò dal loro servizio. E vi riscatterò con braccio disteso e con grandi giudizi.
7. E prenderò voi per me come popolo e sarò per voi come Elo-hìm. E saprete che io sono Y-H-V-H vostro Elo-hìm, colui che vi fa uscire da sotto i fardelli d’Egitto.
34. 6. E traversò I-H-V-H davanti al suo volto e chiamò: “I-H-V-H è I-H-V-H, El misericordioso e prodigo di favore. Lento all’ira e abbondante di grazia e verità.
7. Custodisce grazia per migliaia, solleva colpa e torto e peccato. E assolvere non assolverà, persegue una colpa di padri su figli e su figli di figli4” fino ai terzi e ai quarti”.
Per guardare con attenzione questi testi bisogna iniziare a dipanarne il tessuto metaforico e studiare da vicino le scelte significanti, anche inseguendo la sua ermeneutica etimologica tradizionale. La scena, per esempio, si apre in un luogo “oltre il deserto”; ma questo deserto o steppa suona in ebraico hamidbàr, che si può leggere come “il” (ha) “dal” (mi) davar, parola che in ebraico significa “parola” (ed eventualmente anche “cosa”). Alcuni autori della tradizione si sono sentiti dunque autorizzati a pensare che Mosé dunque vada in questa circostanza al di là di ciò che viene dalla parola, dal dicibile.[17]
Quale che sia la natura del suo viaggio, egli si trova così al har ha-Elo-hìm al “monte di Elo-hìm” o di Dio, come si usa tradurre, nominato qui come Chorev, che si usa identificare col Sinai.[18] Elo-hìm è il primo nome divino che incontriamo in questo passo e anche nella Torah in generale; è in posizione diegetica (in bocca al narratore) e dunque referenziale, come accade spessissimo nel testo biblico, a partire dal suo primo versetto (Bereshìt barà Elo-hìm…, “in principio creò Dio…”)A partire dalla traduzione dei LXX si usa infatti rendere questo nome nelle lingue occidentali con “Dio”, “God”, ecc. E’ abbastanza chiaro che la parola deriva da un nome comune El, spesso usato pure nel testo biblico come nome divino (lo ritroveremo più in là nel testo e lo analizzeremo allora), ma non solo così: per esempio può nominare anche giudici, potenti, patriarchi… Vari parenti di questo nome sono disponibili nelle lingue semitiche (fra cui naturalmente l’arabo Allah). La peculiarità più evidente di Elo-hìm è di sembrare un plurale (la desinenza –im è standard in ebraico per il plurale dei nomi maschili, anche se non indica necessariamente plurali semantici come per esempio accade nel caso di shamàim, “cielo”, e màim, “mare”). E però grammaticalmente Elo-hìm non può essere il plurale di El che in effetti fa regolarmente Elìm, testimoniato abbastanza spesso nelle pagine della Torah, nel senso di personalità elevate indicato sopra, ma anche di dei o idoli. Qualche volta Elo-hìm viene usato come soggetto dell’enunciazione in frasi col verbo al plurale (che però può essere benissimo un plurale majestatis; assai più spesso però parla al singolare e comunque i verbi diegetici che gli si riferiscono sono quasi sempre al singolare, come per esempio ai versetti 4 e 6 del cap. 3 appena citati.[19] Dunque anche questo nome, apparentemente più semplice di quelli che incontreremo in seguito, segnala un’anomalia: un plurale con non è plurale, una derivazione grammaticale che non funziona, uno scarto non solo rispetto alla grammatica ma anche alla semantica stabilita.
E’ interessante che subito dopo, al versetto 2, il soggetto dell’apparizione che si prepara non sia descritto come Dio, ma come un angelo (malàkh). Gli angeli nella tradizione biblica sono espressioni della volontà divina assai poco sostanziali, che fanno quel che devono e poi spariscono senza lasciar traccia, tanto che, come abbiamo appena visto parlando della lotta di Jaakov (nota 13), non possono dire il proprio nome (forse perché semplicemente non ne hanno uno fisso, tanto esso è dipendente dalle loro fugaci missioni, come suggerisce Rashì ad loc.). E però Jaakov, avendo combattuto contro un angelo, aveva ricevuto poi un nome che significa colui che lotta con Dio (El), non contro l’angelo. E così Mosè nel seguito dell’episodio parlerà con Dio, non con l’angelo. Abituati come siamo a un’idea quasi-politeistica degli angeli come creature sostanziali, siamo in difficoltà a capire una concezione per cui l’angelo è anche etimologicamente legato a un “lavoro” o un’opera e tutto sommato andrebbe tradotto al meglio come “apparizione”.
Bisogna ancora notare che l’angelo è qualificato come malach Y-H-V-H, che si usa tradurre con “angelo del Signore“. Incontriamo così il secondo nome (non per importanza, ma per ordine di apparizione) del nostro episodio e anche della Torah (dove non appare prima del versetto Gn 2.4), quel che viene chiamato con espressione descrittiva greca (nome di un nome, come vedremo) il Tetragramma. E’ un’espressione che non si usa per altri scopi in ebraico se non per nominare Dio, e che non ha significati espliciti, anche se il commento su quelli impliciti è sterminato. E’ il “nome proprio di Dio”.[20] Lo si può associare etimologicamente al verbo essere, haià, come vedremo in seguito, ma non corrisponde a nessuna voce verbale identificabile.
La questione del senso è resa più difficile per il fatto che il Tetragramma è impiegato nella tradizione ebraica come pura scrittura e non ha una resa fonetica stabilita, dato che almeno dai tempi del Secondo Tempio è stato proibito (e per gli ebrei resta proibito) pronunciarlo, salvo che nel giorno dell’Espiazione, quando il Grande Sacerdote proclamava questo nome nell’isolamento del kòdesh ha kodascìm, il sancta sanctorum del Tempio. Dalla distruzione di questo, tale nome non è più stato pronunciato in forma rituale e non esiste una tradizione che ne abbia serbato il suono esatto. Per chiarire questo punto, bisogna ricordare che la scrittura originale ebraica della Bibbia, fino almeno al sesto secolo della nostra epoca circa, non comprendeva i segni vocalici (mancanti ancora oggi in libri e giornali israeliani, e in primo luogo nel rotolo – sèfer – usato nella lettura liturgica della Toarah) e dunque la pronuncia che il grande sacerdote usava non può essere stata precisata né trasmessa per iscritto e a questo proposito oggi possiamo solo fare congetture.
La vocalizzazione del nome che si legge da mille e cinquecento anni nei testi ebraici viene fatta risalire a quella della parola con cui il Tetragramma è sostituito nel contesto liturgico, Adonài, vale a dire “mio signore”: il “nome del nome”, come lo chiama Lévinas.[21] E però, a guardar bene, la punteggiatura non è la stessa di questa parola, ma solo piuttosto simile;[22] e del resto Adonai non è il modo normale di dire “mio signore” che sarebbe piuttosto Adonì.[23] Anche questa anomalia è un altro indizio di scarto linguistico nei nomi divini. Per aggiungere un altro tocco alla complessità dell’argomento, bisogna dire che vi è un terzo modo di leggere o piuttosto di nominare queste lettere nei contesti non liturgici, che ci mette molto meno in difficoltà, dato che si tratta di hashèm che significa per antonomasia il Nome – cioè una “supposiztio materialis” secondo la distinzione degli scolastici, analoga a “Tetragramma”. Hashèm viene talvolta ulteriormente parafrasato in Adoshèm, che significherebbe il nome che inizia con Ado, cioè. Per nominare il Tetragramma – che a sua volta come ho accennato è una nominazione descrittiva (suupositio materialis” greca, significando “quattro lettere”- si dice in sostanza “il Nome”. Questo nome del nome del nome però non nomina l’espressione Y-H-V-H bensì la stessa divinità. Dio, quand’è definito dal Tetragramma, si dice “il Nome”: “benedetto il Nome” “se il Nome vorrà” “grazie al Nome”… Testimonianza straordinaria dell’importanza della dimensione linguistica nell’ebraismo e allo stesso tempo espressione estrema del paradosso che ci interessa.
Ritornando al nostro testo, dobbiamo sottolineare che Mosé, appena arrivato al “monte di Elo-hìm” (versetto 1) e messo di fronte a un angelo (o a un’apparizione), non veda affatto – come sarebbe logico aspettarsi – un angelo dello stesso Elo-hìm, ma invece uno di Y-H-V-H (versetto 2), cioè riferito a un diverso nome divino. Appare dunque normale che il suo atto successivo di scostarsi dal roveto per contemplare meglio e con più rispetto l’apparizione venga dunque descritto dal testo come visto dallo stesso Y-H-V-H (versetto 4), ma non più che egli, una volta visto da Y-H-V-H, venga chiamato invece di nuovo da Elo-hìm (sempre nel versetto 4). Il quale gli si presenta ancora con questo stesso nome nel discorso diretto del versetto 6, e in quel versetto coerentemente Mosè si copre il volto per non vedere il divino nominato ancora Elo-hìm;ma nel versetto 7 il soggetto dell’enunciazione che gli viene rivolta diventa di nuovo il Tetragramma. In risposta a queste parole però, al versetto 13, Mosé non parla al Tetragramma ma a Elo-hìm… Certamente una tale vertiginosa alternanza sarebbe poco degna di nota in una teologia dove l’uso dei due nomi fosse indifferente e in una stilistica, come quella italiana contemporanea, per cui la ripetizione riesca sempre sgradevole. Le cose però non stanno così. Lo stile biblico infatti non solo non rifiuta ma predilige le ripetizioni e non cerca affatto di evitarle. Sul piano teologico o storico-religioso poi i due nomi non sono affatto intercambiabili. Vediamo perché.
Si usa chiamare “ipotesi documentaria” la teoria testuale prevalente ormai da più di cent’anni sulla struttura e la composizione della bibbia ebraica, dovuta al filologo germanico Julius Wellhausen. Secondo questa ipotesi si distinguono nella Torah quattro strati: uno “sacerdotale” (P) che comprende soprattutto le disposizioni sul culto; uno redazionale (R) che assicura le giunture del testo; ma soprattutto i due più antichi indicati proprio con le iniziali del due nomi divini di cui stiamo parlando (J, dalla traslitterazione tedesca del Tetragramma e E da elo-hìm), che esprimerebbero concezioni diverse ma soprattutto sarebbero distinguibili fra loro proprio per l’uso dei nomi. Il primo capitolo della Genesi apparterrebbe così allo strato P, che usa pure Elo-hìm, il secondo a quello J. Senza avere qui la pretesa di discutere qui queste analisi, che si basano anche sulle frequenti ripetizioni/variazioni nel testo di episodi e su azioni raccontate più volte, come accade anche in questo brano,[24] dobbiamo notare che anche se accettassimo questo punto di vista che si vuole “scientifico”, il cambiamento di nome non è senza conseguenze, ma coinvolge un mutamento storico e “idologico” profondo. Dunque uno scambio così fitto richiede una spiegazione
Il punto di vista ebraico ortodosso è paradossalmente concorde sull’importanza “ideologica” del nome usato. Per semplificare molto si può dire che il nome Elo-hìm metterebbe in evidenza l’aspetto di giustizia o addirittura di rigore del divino, mentre il Tetragramma esporrebbe l’aspetto maggiormente misericordioso, perfino materno, del divino.[25] Da questa distinzione si sono sviluppate poi numerose speculazioni cabalistiche, interpretazioni rabbiniche, sviluppi vertiginosi nella speculazione sulla struttura interna del divino che non è il caso di neppure di iniziare ad accennare qui.
4.
Resta peraltro il fatto che in questo brano i due nomi (e in seguito altri ancora, come vedremo) si intrecciano fittamente, quasi a costituire in questa occasione di rivelazione onomastica un tessuto semiotico particolarmente coerente e unitario del divino, col sottinteso evidente di una unificazione. Per proseguire si può partire da una complicazione molto interessante al versetto 6. Immediatamente dopo l’interpellazione divina che abbiamo citato, infatti, la voce divina, per la prima volta nel nostro testo, presenta solennemente se stessa in forma di enunciazione enunciata, e lo fa sulla base di un principio di anteriorità, che richiede di essere chiarito. Al versetto 6 infatti si legge che “Io” (l’io solenne con la maiuscola“che nell’ebraico biblico è anochì, contrapposto all’io comune che si dice anì ) sono “il Dio di tuo padre (Elo-hè avotècha), Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. E’ una formula che tornerà ancora nella Torah e che viene ripresa spesso nella liturgia, fra l’altro all’inizio della più importante preghiera ebraica, la Amidà ripetuta in ognuna delle liturgie quotidiane.
E’ una formulazione abbastanza sorprendente, già per il solo fatto di sottoporre la definizione del divino a un genitivo possessivo (attivo o passivo che sia: vale a dire il Dio che tuo padre adorava oppure il Dio che regolava la vita di tuo padre) e ancor più per la natura del possesso proposto. Nel pieno di una straordinaria teofania che è stata riconosciuta da Mosé come “spettacolo grandioso”, hamarèh hagadòl e sacro abbastanza da imporre la velatura del volto e la scalzatura dei piedi, Dio non si presenta come il Creatore o l’Onnipotente o il Giusto,[26] e non parla semplicemente dall’alto della sua autorità senza presentarsi, ma tiene innanzitutto a precisare di essere la divinità del clan familiare, espressione di una “anteriorità“[27] che dovrebbe garantirne l’identità agli occhi di Mosé e subito dopo[28] anche a quelli degli altri “figli di Israele”, bené Israèl: locuzione da prendere qui alla lettera, come espressione di una discendenza dal patriarca che è ancora un’anteriorità. Del resto vicinissimo a questa espressione[29] troviamo ancora un possessivo, ma nella direzione inversa: Israele, definito questa volta come entità collettiva dal nome dell’antenato comune, è chiamato “il mio popolo”, amì. Quel che si sottintende è dunque una co-appartenenza, quella relazione fra Dio e il suo popolo che è spesso stata illustrata nella Bibbia a partire di qui con la metafora del matrimonio.
Sulle ragioni teologiche ed etiche di questa presentazione in termini di anteriorità si sono date numerose interpretazioni: la principale è il richiamo al patto con i patriarchi già ricordato al versetto Es. 2,24 che abbiamo citato sopra. Il punto è significativo anche sul piano semiotico. Dichiararsi Dio di “tuo padre” e degli antenati fondatori del clan significa infatti qui implicitamente cambiare posizione narrativa, assumere un diverso ruolo attanziale. Dio è sempre, per definizione, il Destinante ultimo, vale a dire Colui che fa sì che avvengano le storie bibliche (e la Storia dell’umanità di cui esse sono prospettate come la sintesi e il paradigma), Colui che assegna i compiti e pone i valori – e lo è anche qui stabilendo la liberazione del popolo di Israele oppresso come l’oggetto di valore che dominerà le vicende successive del libro. Di qui in poi però il richiamo all’anteriorità e all’alleanza Lo pone in una posizione narrativa di Aiutante, cioè di colui che fornisce istruzioni e strumenti all’eroe narrativo perché adempia al suo compito. Questa posizione divina era stata certamente già attivata in fasi precedenti della narrazione (per esempio con Noé, con Abramo – fra l’altro al momento dell’affaire della moglie Sarai con il Faraone – ecc.), ma non era mai stata dichiarata in maniera così esplicita, fondante e soprattutto impegnativa per sempre.
Bisogna tener conto che l’Alleanza di cui si parla non è un Contratto nel senso semiotico (quello che apre l’azione stabilendo l’oggetto di valore), o almeno non è un Contratto canonico. In Gn. 15, 9-21, facendo passare Abramo fra gli animali sacrificati (secondo una caratteristica modalità dei patti della civiltà semitica arcaica), Dio non gli aveva chiesto di ottenere o di fare nulla come i Destinanti debbono fare per definizione con i Soggetti narrativi nella fase contrattuale: la scelta di Abramo era già avvenuta in numerose circostanze e la sua fedeltà era stata già sufficientemente provata. Dunque non si tratta di un Contratto, ma piuttosto di una Sanzione, di un premio. Invatti Dio gli promette come sanzione un’allenaza infinita o almeno con una forte aspettualità durativa (” ‘Orsù, osserva il cielo e conta le stelle, se le potrai contare’ e gli disse ‘tale sarà la sua posterità’.” zarèkha, letteralmente “il tuo seme” Gn. 15,6; “In quel giorno Y-H-V-H strinse un patto [berìt] con Avraham dicendo ‘alla tua posterità [lezarèkha] ho dato questa terra…’ ” Gn. 15,18). Il patto ha dunque il senso per così dire metanarrativo di stabilire un’alleanza perpetua, cioè di fondare per Dio un ruolo perenne di Aiutante in sincretismo col suo ruolo basilare di Destinante (e dunque giudicante). E’ presentata esplicitamente come una sanzione, un risultato narrativo richiesto e ottenuto del merito già acclarato di Abramo. Tutta la narrativa della Bibbia ebraica si gioca su questo doppio ruolo divino (Destinante e Aiutante) e sui complessi rapporti che si intrecciano fra l’uno e l’altro. Vale la pena di sottolineare che tutto ciò è messo coerentemente in carico al nome Elo-hìm, anche nel contesto delle fitte oscillazioni onomastiche del nostro capitolo. Il patto è stretto sotto questo nome, anche se sarà rispettato sotto l’altro.
L’ autodichiarazione del roveto che stiamo discutendo ribadisce dunque nel nome di Elo-hìm questo ruolo: l’anteriorità che essa pone coi nomi dei patriarchi è esattamente correlativa alla posterità (“le stelle”) iscritta dal patto. Questa co-appartenenza è particolarmente significativa in un contesto come quello egizio e in generale medio-orientale in cui al tempo dell’azione e per tutti i secoli abbracciati dalla Torah vige il politeismo e dunque Dio è visto come una divinità etnica. Difatti, subito dopo il nostro episodio, Egli verrà presentato al Faraone come “Dio di Israele” Elo-hè Yisraèl (Es. 5,1) e”Dio degli ebrei” Elo-hè haivrìm (Es. 5,3), in una prospettiva dunque piuttosto enoteista (come unico Dio di un popolo) che monoteista (il solo Dio esistente). Ma ciò non autorizza necessariamente, come pure teorizzano molti storici e filologi della Bibbia, a supporre che l’ideologia di questo passo sia davvero solo enoteista e non monoteista – vedremo subito che nella complicazione del testo di questi versetti si esprimono molti altri sensi del Divino.
Ma bisogna sottolineare che vi è qui una presentazione etnica della teologia monoteista, se non proprio la costruzione di una teologia etnica. Vale la pena di notare a questo proposito che la ricorrenza di Elo-hè haivrìm del versetto 5,3 è la prima in cui il popolo di Israele è nominato collettivamente[30] con questa parola, che secondo alcuni indica etimologicamente un “passaggio”, un andare al di là: il passaggio di Avraham al di là del fiume Eufrate, forse; o più in generale quel senso di erranza e di non autoctonia e insieme di nostalgia per la terra di Canaan che caratterizza già così precisamente la bibbia ebraica.[31]
5.
Le fasi immediatamente successive di questo dialogo implicano ancora il nome Elo-hìm. E’ alla divinità così nominata che Mosé pone la domanda, non si sa se umile o diffidente, ma certamente ancora identitaria: “chi sono io perché vada dal faraone è faccia uscire i figli di Israele dall’Egitto?” Ed è in nome di Elo-hìm che gli si risponde assai enigmaticamente ma in termini ancora semiotici: “io sarò con te”, ehjè immach “e questo è per te il segno”, ot “che io ti ho inviato”: ot in ebraico biblico è segno, ma anche lettera dell’alfabeto e miracolo; essendo composto dalla prima e dall’ultima lettere dell’alfabeto viene anche spesso interpretato misticamente come una totalità onnicomprensiva; tutto ciò crea un’ambiguità che si riflette in maniera significativa sull’interpretazione di questo passo. C’è un’altra ambiguità, qui, dovuta all’assenza di punteggiatura: la seconda frase (“e questo è per te il segno”) si può chiudere a questa promessa di stare con Mosé, oppure alla profezia che gli Israeliti quando usciranno dall’Egitto, serviranno Dio su questo monte”
Nel primo caso, la promessa che Dio sarà con Mosé è presentata come la prova della sua capacità di adempiere al suo compito, e certamente anche come una rassicurazione psicologica, la sicurezza di un aiuto nel momento decisivo. Così interpreta la tradizione: tu, Mosé, sei colui accanto al quale Io starò e dunque puoi farcela. Ma tale accompagnamento è anche un prodigio di per sé: non è banale che Dio accompagni l’uomo nelle sue imprese e dunque questa presenza sarà in quanto tale visibilmente miracolosa. Infine la dichiarazione è una cifra, una scrittura, qualcosa che debba essere interpretato come sempre lo devono i segni: questa dichiarazione può dunque essere letta anche come una sorta di Nome divino, ipotesi audace che verrà subito confermata nel seguito del passo. Alla domanda di Mosé sulla sua identità, il segno è che si risponda con una precisazione dell’identità divina come accompagnatrice e dunque sul piano semiotico come Aiutante.[32]
La seconda interpretazione è più plausibile sul piano grammaticale, ed è preferita anche da Rashì e ancor più paradossale: la riprova (il segno) che è stato Dio a mandare Mosé si vedrà dal successo della missione, cioè dal fatto che effettivamente i figli di Israele usciranno dall’Egitto e verranno su questa montagna a servire (cioè a compiere il culto) per Elo-hìm. Com’è che una cosa futura può provare una cosa passata? Forse perché il suo senso è futuro e futuro è chi la promette. E’ quel che si ottiene connettendo questo versetto a ciò che lo segue. Prinma di farlo notiamo ancora una volta l’intreccio dei Nomi: prima ha parlato Y-H-V-H , poi Mosé gli ha risposto rivolgendosi a Elo-hìm; la risposta (vaiòmer, “disse”)non ha specificato il nome del soggetto ma il culto sul monte è qualificato come dedicato a Elo-him.
E ancora a Elo-hìm infatti Mosé chiede il Suo nome ed è sempre sotto questo nome che ottiene risposta. E’ necessario soffermarsi su questi versetti 13-15, che stanno al centro del nostro problema. Rivediamoli:
“13. E disse Mosè a Elo-hìm: “Ecco Io vado verso i Figli d’Israele e dirò loro: ‘Elo-hìm dei vostri padri mi ha mandato a voi. E diranno a me: qual è il suo nome; cosa dirò loro?’ 14. E disse Elo-hìm a Mosè: “Sarò ciò che sarò”. E disse: “Così dirai ai Figli d’Israele: ‘Sarò’ mi ha mandato a voi’. “15. E disse ancora Elo-hìm a Mosè: “Così dirai ai Figli d’Israele: Y-H-V-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre: e questo il ricordo di me di generazione in generazione.
Fin dall’inizio la domanda di Mosé del versetto 14 è viziata da un ossimoro pragmatico: egli suppone di aver annunciato Dio agli Israeliti esattamente nei termini in cui Egli gli si è presentato poco prima, e che egli evidentemente ha capito e accettato, cioè con un nome caratterizzato dall’anteriorità del possessivo, ma suppone anche che essi invece non si accontenteranno di questa designazione e chiederanno “il suo nome” mah-shemò. Perché Elo-hìm non potrebbe essere questo nome? E se questo non è il nome che egli cerca (o che egli suppone i suoi fratelli potranno cercare), che cos’è quel che ha ricevuto? Una sorta di semplice descrizione definita? Dunque qualcosa di troppo simile a un nome comune? Una firma insufficiente per un contratto impegnativo come l’uscita dall’Egitto? Ma allora perché la risposta suggerita al versetto successivo è una frase che non somiglia affatto a un nome tradizionale e che non viene praticamente mai usata nella Bibbia come appellativo?[33]
Forse in realtà qui non è davvero questione di nomi, ma di qualcosa di più complesso. Possiamo prendere come traccia un celebre versetto del profeta Zecharià (Zc. 14, 9), naturalmente molto più tardo del nostro testo, almeno secondo la cronologia biblica della tradizione ebraica,[34] in cui si proclama un po’ enigmaticamente che “in quel giorno [usualmente interpretato come il tempo messianico] Y-H-V-H sarà uno e il suo nome [shemò]uno.” La stranezza di questo testo consiste nel fatto che l’essenziale ed eterna unità divina è da sempre il postulato principale dell’ebraismo (questo pezzo del versetto riprende esplicitamente la principale dichiarazione della fede ebraica, lo Shemàh Yisrael)e dunque è bizzarro porre tale unità al futuro (ehjèh, la stessa voce verbale insistentemente ripetuta nel versetto 14). Per una ragione opposta è strano immaginare che si debba arrivare un nome divino unico, quando proprio qui la Bibbia ne presenta diversi (e i due principali hanno analoga importanza, come ho fatto vedere sopra). Le interpretazioni spiegano che il profeta intenderebbe dire che nei tempi messianici sarà riconosciuta l’unità divina e se ne parlerà universalmente in maniera univoca, cioè allo stesso modo. Questa ambiguità fra nome, parola e discorso non deve sorprendere, qualcosa del genere avviene anche col greco logos. Dunque forse il nome richiesto qui è piuttosto un discorso, un modo di parlare, una verità, un’essenza: qualcosa di ancor più vasto di una descrizione definita. Mosé domanderebbe allora qui: in che termini, con che discorso, dovrò spiegare l’apparizione divina?
E infatti la risposta è uno delle più enigmatiche affermazioni teologiche della Bibbia: ehjèh ashèr ehjèh, e subito dopo nello stesso versetto una ripetizione o abbreviazione con un solo ehjèh usato come soggetto della frase “mi manda a voi”; forse come una sorta di riduzione ai termini più elementari della complessità della prima risposta. Vedremo in seguito qualche indizio su tale relazione. Per ora notiamo che la celebre versione dei LXX[35] traduce Eìmi ò on (mentre la seconda formulazione viene resa solo con ò on), cioè “sono l’essente” (o “l’essere”, secondo la tradizione filosofica); mentre la Vulgata la rende con Ego sum qui sum, “io sono colui che sono”, aggijngendo un pronome personale che manca in ebraico e anche in greco, ma poi incongruamente la seconda versione abbreviata diventa Qui est, un impersonale “colui che è”. Ancora, l’edizione della CEI usa “Io sono colui che sono”, e poi “Io-sono” con un trattino in più. Le traduzioni ebraiche, sulla scorta di una nota di Rashì che si appoggia al Talmud (bBerakhot 9b), di solito (ma non sempre)[36] volgono “sarò quel che sarò” e poi “sarò”. Ne discuteremo in seguito il senso. Certamente “ehjèh è la prima persona singolare del verbo hâyâh (qui all’imperfetto)”[37] e l’imperfetto in ebraico ha una funzionepiù di aspetto che di tempo verbale, indica cioè un’azione non conclusa e perciò usualmente si rende col presente progressivo inglese o col futuro. Come scrive Erri De Luca nel commento alla sua traduzione del testo[38], abbiamo qui “due volte il futuro del verbo essere alla prima persona con in mezzo il relativo “ashèr”. Grammaticalmente è: sarò ciò (o colui) che sarò. […] L’incredibile è che quelli che qui traducono l'”Ehjèh” al presente, due versi prima e in tutti gli altri luoghi della Lingua sacra lo traducono con il futuro.”
Il problema naturalmente non è solo grammaticale, ma teologico. L’interpretazione greca dei LXX, influenzata dal neoplatonismo, sottolinea il carattere metafisico di Dio come sommo Ente; il latino della Chiesa ne fa un mistero chiuso nella propria tautologia, identico a se stesso e impermeabile all’esterno, quindi capace di assumere strutture misteriose come la Trinità. Ci sono altre versioni rilevanti.[39] Per esempio Moses Mendelsohn, nella sua importante traduzione della Torah in tedesco (la prima di parte ebraica, pubblicata ad Amsterdam nel 1778) scrive “ich bin das wesen welches ewig ist” (“Io sono l’ente [o l’essenza] che è eterno”) da cui l’uso di “L’Eterno” come traduzione per il Tetragramma, che come vedremo in seguito è strettamente legato alla frase che stiamo discutendo: un’identificazione molto discussa in ambito ebraico, contestata per esempio dal fondatore della neo-ortodossia Raphael Shimshon Hirsh.[40] L'”Eterno”, nel pensiero di Mendelsohn, ha il significato dell’ente necessario in ogni tempo, il che lo riporta vicino alla traduzione dei LXX. Un secolo dopo, in stretto confronto con Mendelsohn, Franz Rosenzweig usa “ Ich werde dasein, als der ich dasein werde, “ci sarò” [oppure “esisterò”] “come [o giacché] ci sarò” [o “esisterò”], salvo passare nella seconda formulazione abbreviata al tempo presente: Ich bin da, “ci sono” [oppure “esisto”]. Su questa posizione Rosenzweig si trova in accordo con Martin Buber (insieme compilano una celebre traduzione della Torah). Come scrive Buber in una lettera a Rosenzweig del 14 luglio 1925,[41] “In un certo senso nella memoria collettiva e nella coscienza del popolo ebraico, Es. 3,14 rivela l’ultimo significato del Tetragramma, mostrando la sua essenza più profonda che persino i Patriarchi non conoscevano (Es. 6,3). La traduzione comune “Io sono Colui che sono” [Ich bin der ich bin] fornisce una descrizione dell’Essere Divino come l’Unico Ente o l’Ente Eterno, vale a dire Colui che si mantiene per sempre nella Sua essenza [….]. Tuttavia questo tipo di astrazione non è adatta per una rinascita della vitalità religiosa quale si è realizzata all’interno del popolo ebraico per mezzo di Mosè.” Alla fine, partendo da queste considerazioni, Buber propenderà per rendere il Tetragramma in termini pronominali, più prossimi alla sua posizione dialogica e finirà con lo scrivere: Er, egli.
Torniamo ancora alla traduzione ebraica tradizionale. Essa si fonda su un breve passo del trattato Berakhot del Talmud Babilonese, (p. 9a) in cui il testo che stiamo considerando è interpretato così:
Disse a Mosè: “Vai e dì agli Israeliti: sarò con voi in questa servitù e sarò con voi quando sarete schiavi delle nazioni.” Rispose Mosé: “Signore del mondo, a ogni ora la sua pena.” Disse il Santo, sia Egli benedetto: “Dì loro che ‘sarò’ mi ha inviato a voi.”
Quest’interpretazione è ripresa senza modifiche sostanziali da Rashì nel suo commento. Questo strano nome/frase indicherebbe dunque l’attenzione e la cura divina nei confronti delle disavventura del popolo ebraico, una sorta di impegno o di contratto molto significativo dal punto di vista narratologico. Come abbiamo proposto sopra, dunque, non sarebbe affatto un puro nome, caratterizzato solamente dalla referenza univoca, ma il condensato di un discorso, un dispositivo di senso che servirebbe a indicare ai compagni schiavi di Mosé come pensare al divino: in forma futura, e come una promessa di soccorso. Questa descrizione di un Dio misericordioso e provvidenziale non ci sorprende (anche perché tutto il mondo monoteista, incluso l’Occidente cristiano e l’Islam si è sviluppato alla luce di questa rivelazione). Ma se guardiamo più a fondo abbiamo ragione di meravigliarci, perché siamo lontanissimi dall’immobilità e dall’identità assoluta del Dio platonico o del Primo motore immobile di Aristotele – nonostante il tentativo dei LXX e della Vulgata di riunire le due concezioni, da cui emerge la teologia cristiana, che delega al Figlio il movimento e la storicità attraverso l’incarnazione e sostanzialmente si può esimere così dal pensare il rapporto fra Dio (Padre) e mondo.
Quello che si nomina al tempo futuro o nella modalità imperfetta è invece un Dio immerso nella storia, Lui stesso in un certo senso futuro e incompiuto in quanto si presenta come promessa di essere o di compiere, un Dio che dunque ha bisogno dell’umanità per realizzare compiutamente la Sua stessa essenza, che perciò emerge secondo una modalità contrattuale. Non deve sfuggire il carattere paradossale di quel futuro, proprio in contrapposizione alla tautologia dell’essere che semplicemente è quel che è; se prendiamo sul serio il futuro, emerge qui un Soggetto mobile che sarà quel che sarà e che dunque non si lascia identificare come un oggetto, cioè com-prendere in quanto qualcosa, ma che si presenta come un processo in divenire, un “Dio vivente“, come scrive spesso la Torah, ben lontano dall’immobilità dell’Essere greco.
Com’è possibile invocare un Dio che non c’è, nel senso che non si definisce per essere quello che è, ma per il suo futuro? Come si può concepire che l’Ente perfettissimo (una definizione su cui una ventina di secoli dopo, si costruirà la prova “ontologica” – in realtà piuttosto semantica – della sua esistenza), coniughi la propria esistenza a un tempo verbale che non casualmente è definito “imperfetto”? Questa difficoltà di concepire Dio come un ente fra gli altri, magari il maggiore e il più perfetto di tutti, ma unito a tutti gli altri dal principio tautologico per cui ogni cosa è uguale a se stessa, è fra i tratti teologicamente e metafisicamente più originali dell’ebraismo, che ancora danno frutti di pensiero oggi, a migliaia d’anni di distanza: si pensi alla teoria della trascendenza dell’Altro nel pensiero di Lévinas. Tutto ciò ha creato certamente un enorme problema teorico e anche religioso, come dimostrano i numerosi tentativi di aggirare il dato grammaticale da cui (ma non solo da cui) derivano conseguenze così dirompenti. Il principale fra questi tentativi di aggiramento è la teoria costante dell’ermeneutica cristiana a partire dai Vangeli di vedere queste dichiarazioni semplicemente come anticipazioni dell’annuncio cristiano
Vale la pena di aggiungere infine che questa complessa locuzione viene presentata nel testo come risposta a una domanda sul “nome” e in effetti è contato dalla tradizione ebraica come uno dei sette principali nomi divini, i quali meritano una particolare protezione nell’uso, come vedremo in seguito. Ma in effetti, se la voce verbale del futuro del verbo essere è diffusissima, l’uso nominale di eheyè come appellativo è testimoniato rarissimamente: solo in due luoghi dell’intero canone ebraico (Giudici 6,16 e Osea 1,9) lo impiegano in maniera tale da obbligarci a pensare a un nome divino. E’ degno di nota anche che il seguito immediato della narrazione, quando Mosé andrà ad annunciare la sua missione ai suoi fratelli, non verifica affatto le sue ipotesi: non ci viene narrato né che gli israeliti chiedano ulteriori dettagli su chi lo abbia mandato, né che egli ripeta questo nome enigmatico; e di nuovo, non certo per fastidio delle ripetizioni, che la Torah anzi non disdegna affatto. Forse, commentano alcuni, il testo vuole lasciarci intendere che “Mosé chiede per sé, non per il popolo, e la risposta che riceve è anche mirata a lui, sicché la sua vaghezza è intenzionale”[42]
6.
Queste considerazioni sono particolarmente importanti per il fatto che nel versetto successivo (15), in perfetta continuità con quelli precedenti, viene fornita un’ulteriore autonominazione, che introduce solennemente nel gioco il nome Tetragramma:
15. E disse ancora Elo-hìm a Mosè: “Così dirai ai Figli d’Israele: Y-H-V-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre: e questo il ricordo di me di generazione in generazione.
Elo-hìm dunque si ripresenta qui nella modalità dell’anteriorità che abbiamo discusso sopra (“il Dio dei vostri padri”), ma premette a questa formula il suo nome di Y-H-V-H, che nel nostro brano finora era stato usato sì in maniera diegetica (cioè come didascalia delle enunciazioni), ma mai al loro interno (anche se questo accade talvolta nelle sezioni precedenti della Torah)[43]. Subito dopo, nel versetto seguente, la voce divina ripete la stessa formula onomastica, con un’ulteriore variazione e ripetizione sotto forma di una doppia enunciazione enunciata, la quale comporta sempre un forte carico veridizionale: il testo – che è sacro e dunque infallibile – racconta che Dio – a sua volta ovviamente infallibile – dà istruzioni a Mosé di dire): “[…] Dirai loro: Y-H-V-H Elo-hìm dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco ed Elo-hìm di Giacobbe apparve a me, per dire […]”. Nel versetto 18 abbiamo ancora, sotto la stessa doppia enunciazione enunciata un “Y-H-V-H, Elo-hìm degli ebrei” e un “ Y-H-V-H, nostro Elo-hìm.” Il doppio nome viene continuamente ripetuto, come massima garanzia di verità e di autorevolezza.
La stessa struttura onomastica è ripetuta un paio di pagine dopo, al capitolo 6. Riportiamo qui per comodità i versetti già citati, che ci serviranno a comprendere meglio il rapporto fra i due nomi principali:
6. 2. E parlò Elo-hìm a Mosè. E disse a lui: “Io sonoY-H-V-H
3. E mi rivelai ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in (nome di) El Shad-dai. E il mio nome Y-H-V-H non l’ho fatto conoscere a loro.
[…]
6. Perciò dì ai Figli d’Israele: Io sono Y-H-V-H e vi farò uscire da sotto i fardelli d’Egitto […].
7. E prenderò voi per me come popolo e sarò per voi come Elo-hìm. E saprete che io sono Y-H-V-H vostro Elo-hìm, colui che vi fa uscire da sotto i fardelli d’Egitto.
Il primo senso di questi versetti, particolarmente evidente in 6.2, è dunque che il nome Elo-hìm (il soggetto divino dello strato più antico della Torah, secondo l’ipotesi documentaria; oppure piuttosto il nome che mette in evidenza l’aspetto divino del rigore e della giustizia, secondo l’interpretazione ebraica tradizionale), si riveli come Y-H-V-H (cioè il soggetto di uno strato più recente, oppure l’espressione della misericordia divina): una identità di grande significato teologico, il centro pulsante di quell’intreccio onomastico che stiamo cercando di dipanare. I due nomi in realtà erano già stati uniti (ma solo diegeticamente, mai nella forma teologicamente assai più impegnativa di un’enunciazione divina) a partire dal secondo capitolo del libro della Genesi,[44] quando dopo il primo racconto della creazione, tutta attribuita a Elo-hìm, viene proposta una seconda narrazione che attribuisce invece la creazione a Y-H-V-H Elo-hìm.
Ma ora l’identificazione è esplicita e programmatica: Elo-hìm afferma esplicitamente di essere Y-H-V-H.[45] Ancor di più, a questo nome viene solennemente accordato un carattere di eternità: si tratta di un nome “per sempre” leolàm, che verrà impiegato dalle generazioni future come “ricordo” zichor. Sono queste espressioni tutt’altro che scontate e banali, proprio a il loro oggetto. Il ricordo è un tipico obbligo della legge ebraica (per esempio la quinta parola del Decalogo impone di “ricordare il sabato”; e altrove è prescritto anche di “ricordare il male di Amalèk”, nemico archetipo del popolo ebraico; ma rispetto al Nome di Dio questa preoccupazione sembra un po’ strana: ha senso imporre di ricordare solo qualcosa che sia a rischio di oblio. Quanto alla caratteristica di nome “perpetuo” o “per sempre”, che può voler dire anche “universale”, dato che olàm vuol dire sia “eternità” che “mondo”, la tradizione ebraica la interpreta piuttosto in senso inverso, come si vede dal commento di Rashì:
Questo è il mio nome perpetuo — L’espressione leolam ( = perpetuo) è scritta nel testo biblico senza la vav,[46] per cui può essere letta lealem, cioè questo è il mio nome da tener nascosto, quasi per dire: « Tieni nascosto il nome di Dio affinchè non venga letto come è scritto ».
Così vengo designato — Gli insegna come deve essere letto. Così dice David: « O Signore, il Tuo nome è eterno e la tua memoria è per tutte le generazioni » .
Nel momento stesso in cui il nome viene annunciato, se ne prescriverebbero così quei limiti d’uso, che sono una caratteristica importante della pratica religiosa ebraica: il nome è eterno sì, ma deve essere tenuto nascosto e sostituito da un’altra parola, come abbiamo visto, in modo da non essere in alcun modo oggettivato o posseduto. Su queste analisi delle espressioni usate nel versetto, infatti, ancor prima che sulla seconda “parola” del decalogo (“non pronunciare il Mio nome invano” Es. 20,7) si fonda infatti quella proibizione della pronuncia di questo nome di cui abbiamo già parlato: una tradizione che molti storici fanno risalire solo all’epoca del Secondo Tempio, sostenendo che in antico il Nome venisse pronunziato. Non ci interessa discutere qui quest’ipotesi. Certamente il doppio distacco fra grafismo e pronuncia costituisce una peculiarità semiotica particolarmente interessante che, oltre ad avvolgerlo in una cortina di reverenza e di mistero, lascia indeterminato il suo significato, per l’assenza di vocalizzazione propria che abbiamo discusso. Esso ha anche il senso di de-automatizzare la lettura[47] e di confermare il carattere problematico, non oggettivo o non cosale, dell’ontologia divina. Ne risulta una strana entità linguistica, con tre significanti: uno grafico e due sonori che non gli corrispondono alfabeticamente. Il significante grafico che trascriviamo qui con Y-H-V-H non è mai letto nella pratica ebraica come è scritto, nessun ebreo osa pronuncialo neppure mentalmente “Geova” o “Iaveh” come lo si trascrive talvolta nelle lingue occidentali. Anche come grafismo, esso è sottoposto a certe restrizioni: è proibito cancellarlo o buttare un oggetto su cui stia scritto (da cui l’istituzione nella comunità ebraiche di un deposito di carte inservibili, detto Ghenitzà; in qualche caso, come in quello celebre del Cairo, questi depositi si sono rivelati fonti archivistiche straordinarie), ma è anche proibito interrompersi mentre lo si sta scrivendo, “si presentasse pure il Re” ovvero il Messia.[48]
Questo significante grafico ha dunque due significanti orali (casi esemplari di metasegni berthesiani, “nomi di nomi”, come dice Lévinas), il primo, Adonài viene impiegato solo nelle occasioni liturgiche, cioè per pregare, benedire ecc.; il secondo invece, Hashèm che significa “il nome[49]” per antonomasia in tutti gli altri contesti ed è in definitiva il nome del nome del nome. Perché questo complesso apparato semiotico? Senza dubbio per stabilire una separazione (sacro in molte lingue fra cui l’ebraico kadòsh ma anche il latino sacer – che viene da secare, cioè “tagliare” – significa separato, distinto; santo, cioè sancito, narrativamente concluso, è qualcosa di diverso per le lingue che consentono questa distinzione[50]).
Questo è un caso assai notevole in cui la separazione non è solo enunciata testualmente, ma anche praticata nel gioco linguistico del testo, ovvero in cui la pragmatica si fa semantica. O ancora, se ci si mette da un punto di vista storico, un caso in cui si istituiscono dei dispositivi pragmatici per esprimere in via semisimbolica una semantica – il che è in generale la logica del funzionamento cerimoniale della comunicazione e dunque di moltissimi riti religiosi e anche laici. La separazione in questo caso implica soprattutto una non oggettivazione, l’impossibilità di trattare il Tetragramma come una parola come le altre, col consueto funzionamento fonologico e segnico. Vale la pena di notare che vi è una coerenza profonda fra questa pragmatica dell’impronunciabilità che è impossibilità di un’oggettività verbale e l’autodefinizione al futuro che abbiamo discusso sopra anche nei termini di una trascendenza rispetto a qualunque stato dei fatti. Il Tetragramma non è un nome pienamente presente al linguaggio come Dio non è un ente pienamente presente al mondo. Entrambi sono concepiti secondo la logica della trascendenza, di un darsi che non si lascia afferrare.
E’ particolarmente importante dal punto di vista semiotico il modo in cui questi temi arditi vengono stabiliti: non in maniera dichiarativa ed esplicita, ma attraverso usi di lettura, tempi verbali, frammenti narrativi. E naturalmente attraverso il lavoro di interpretazione che per migliaia d’anni si è ininterrottamente compiuto a loro proposito. Non occorre certamente supporre che tutti questi sensi fossero contenuti originariamente nel testo, o addirittura che essi corrispondano alle intenzioni dell’autore (si creda o meno al suo carattere di Autore divino); quel che conta è che vi sono delle precise caratteristiche o piuttosto anomalie testuali e pratiche su cui tali interpretazioni si basano e che si sono sviluppate nel corso di una tradizione interpretativa lunghissima e ininterrotta. La dinamica di questo arricchimento ermeneutico è ben presente nella tradizione di lettura ebraica del testo. Nel Talmud, testo canonico dell’ermeneutica rabbinica, da un lato si racconta infatti di un Mosé che, pur essendo il primo depositario della rivelazione se non il suo autore, si meraviglia e perfino non comprende gli sviluppi prodotti dai rabbini; dall’altro si afferma che proprio a lui, alla sua ricezione vada attribuita qualunque “scoperta” fatta finora e anche in futuro da qualunque studioso legittimo.[51]
7.
Se passiamo all’altro lato della relazione segnica, sul significato del Tetragramma si sono riempiti volumi, proprio perché esso è stato usato da millenni come significante puro, senza contenuto descrittivo, esattamente secondo il modello della teoria classica dei nomi propri: fornito di riferimento ma senza significato linguistico. Ciò nondimeno, o forse proprio per la sfida implicita in questa condizione asemantica vi è stato un vivo interesse fra studiosi di vario orientamento per la sua possibile etimologia, pensata al solito come strada per accedere al vero significato assente.
La prima possibile etimologia è suggerita in maniera abbastanza esplicita dal testo stesso. Secondo una maniera assai caratteristica della retorica e della poesia biblica, il testo dei versetti 3,14 e 15 che stiamo esaminando contiene una ripetizione con variazioni, ciò che nelle espressioni bibliche fino ai salmi e ai profeti serve a ribadire lo stesso concetto, nominandolo diversamente. Qui la struttura non è doppia, come d’uso, ma addirittura tripla:
(1) “E disse Elo-hìm […]: ‘Sarò ciò che sarò .’
(2) E disse: ‘Così dirai ai Figli d’Israele: < Sarò > mi ha mandato a voi’. “
(3) “E disse ancora Elo-hìm […]: ‘Così dirai ai Figli d’Israele: < Y-H-V-H […] mi ha mandato a voi>’.”
Dunque Y-H-V-H e “sarò” sono messi in una posizione perfettamente simmetrica. Se si aggiunge che i significanti sono piuttosto simili, perché “sarò” si dice eheyè (aleph-he-yod-he) e Y-H-V-H è jod-he-vav-he, con un’alternanza consonantica di lettere che possono fungere da ausiliarie per la vocalizzazione (matres lectionis)[52]. Tale struttura consonantica risulta non incompatibile con la coniugazione verbale ebraica, è facile derivarne la convinzione che il senso del Tetragramma abbia a che fare con una qualche espressione del verbo essere (ahavà), in particolare con la terza persona singolare del perfetto, da cui non è inconsueto nelle lingue semitiche trarre significanti nominali. A partire da questa ipotesi si è aperto un lungo dibattito, cui abbiamo già accennato, fra quanti interpretano questo nome in senso ontologico, come se significasse “l’Essente” (o piuttosto “l’Essere”, distinzione essenziale nella filosofia contemporanea ma non chiara in ebraico né in greco antico), coloro che lo interpretano temporalmente (“l’Eterno”, “Colui che era, è e sarà”)[53] e quelli infine che ne vedono un aspetto causativo (“Colui che fa essere”, “il Creatore”) anche se la grammatica ebraica non prevede l’aspetto causativo per il verbo essere.
Un’interpretazione etimologica completamente diversa è basata sull’esistenza in ebraico del sostantivo havah (testimoniato nei salmi e in Giobbe) o hovah (nei profeti), che significano “disastro”, “rovina”, “distruzione”, probabilmente da un senso originario di “caduta” come si ritrova per esempio in arabo. In questo senso il nome vorrebbe dire il “Distruttore”, Colui che fa cadere o che abbassa. Ancora una possibilità lega il nome all’arabo hauà, il vuoto, l’atmosfera, che si collega a espressioni ebraiche che indicano il respiro, il vento e in definitiva la vita (haya), anche se vi è la notevole difficoltà filologica che l’aspirata in quest’ultima espressione è forte, mentre nel Tetragramma e nel verbo essere essa è lene. E’ comunque questa l’opinione del fondatore dell’ipotesi documentaria, Wellhausen, per cui il significato del nome sarebbe quella di un dio del vento e della tempesta.
Tutte queste attribuzione d’origine restano ipotetiche e non descrivono effettivamente la funzione del Tetragramma nella tradizione ebraica, impronunciabile e asemantico da millenni: anche per coloro che sostengono sulla base dell’interpretazione letterale di alcune fonti bibliche[54] che esso anticamente fosse talvolta effettivamente pronunciato al di fuori della cerimonia dell’Espiazione cui abbiamo accennato, è pacifico che a partire dal Secondo Tempio esso non lo fosse affatto. Resta il fatto che queste diverse connotazioni, l’Essere e il Creare, la Vita e il lato terribile della divinità debbano apparire convergenti al lettore ebraico che mediti intorno al Nome, anche per la struttura della lingua ebraica, che consente una sistematica derivazione di parole e significati dalle radici (normalmente trilettere) che costituiscono il cuore della lingua, seguendo schemi di vocalizzazione e affissazione molto più stabili e grammaticalizzati di quanto avvenga nelle lingue indoeuropee. Ciò, insieme all’abitudine di non vocalizzare lo scritto, induce il parlante/lettore dell’ebraico a un’attitudine molto più interpretativa nei confronti delle unità di espressione che incontra, rendendo naturale un lavoro ermeneutico ni confronti del testo, che valorizza omofonie, omonimie, metatesi e anagrammi. Tutto ciò spiega, fra l’altro, la fioritura della cosiddetta Kabbalah letterale che lavora sulla permutazione delle lettere dei nomi divini, non fra supestiziosi incolti ma fra rabbini di vastissime conoscenze e grandi intellettuali come Abulafia, per fornire solo un’indicazione.
8.
E’ opportuno ritornare ora direttamente al nostro tassello di questo puzzle onomastico, la seconda autodichiarazione del nome divino contenuta nel sesto capitolo del Sefer Shemot, che narrativamente si colloca subito dopo il ritorno di Mosé in Egitto, in sostanziale continuità con l’episodio che abbiamo descritto. Qui si dice ai versetti 2 e 3 “Io sono Y-H-V-H, sono apparso a Abramo, Isacco e Giacobbe come El Shad-dai, ma il mio nome di Y-H-V-H non l’ho fatto loro conoscere” lo nodàti lachèm. La cosa decisamente singolare in questo luogo del testo è che di fatto il Tetragramma è usato molto frequentemente prima di questo episodio non solo come strumento diegetico con cui il narratore si riferisce a Dio, ma anche nei dialoghi, quando i vari personaggi del testo, compreso Lui stesso, Gli si riferiscono.[55] Dunque bisogna supporre, contrariamente a quel che viene detto, che questa Sua identità fosse ben nota ai Patriarchi. Al contrario proprio il doppio nome El Shad-dai compare molto di rado.
Secondo l’ipotesi documentaria questa contraddizione si spiegherebbe con l’ipotesi che il capitolo 6 dell’Esodo appartenga alla tradizione sacerdotale (lo strato P), mentre i luoghi in cui appare il Tetragramma nella Genesi e il capitolo 3 che abbiamo analizzato sopra apparterebbero invece alla tradizione J (o forse E, vedi nota 74 per una conferma dell’incertezza). Connettere Mosé e Aronne (primo grande sacerdote) al nome Tetragramma legittimerebbe secondo questa linea di pensiero la funzione sacerdotale. Ora “se questa spiegazione supera la contraddizione apparente, non dà ragione del testo com’è ora. Perché [se ammettiamo lo schema di spiegazione dell’ipotesi documentaria] dobbiamo assumere che queste difficoltà apparissero chiare al redattore della Torah come lo sono a noi, e dobbiamo chiederci allora come egli percepisse il contenuto della rivelazione che derivava dalla storia che ci ha trasmesso.”[56] In sostanza l’invocazione di “strati” o tradizioni” testuali non spiega nulla, ancor meno della biografia di un autore per un testo narrativo, salvo che si supponga che la Bibbia sia una semplice ottusa giustapposizione di brani senza rapporto fra loro che anzi letteralmente si ignorano; e si immagini inoltre che questa giustapposizione sia stata compiuta da un redattore tanto incosciente da non rendersi conto di contraddizioni così evidenti come questa e che quindi il Libro non abbia affatto un significato e neppure un’organizzazione unitaria. Tutto ciò si può certamente sostenere, ma allora è difficile capire com’è accaduto che un’accozzaglia così casuale di vicende e di brani disordinati e conflittuali abbia avuto un tale successo sul “mercato” delle storie da influenzare, anche grazie ai Vangeli e al Corano che gli sono debitori, la vita spirituale e morale di due terzi dell’umanità. Se invece si crede che il testo biblico voglia dire qualche cosa, anche se eventualmente i suoi elementi abbiano una storia filologica tormentata, si è costretti a cercare una spiegazione del modo in cui esso effettivamente si presenta, attribuendone la responsabilità al redattore finale, si sia trattato di Mosè, i Esdra, o anche di un anonimo tardo sacerdote del Secondo tempio, come alcuni pretendono. Perché, seppure fosse stato tardivamente costruito, bisognerebbe spiegare il funzionamento della struttura uscita della redazione finale, così come si fa, per esempio con Omero. Ed è ragionevole pensare che questo redattore sapesse ciò che faceva, o almeno che fosse capace di ricordare quel che aveva scritto qualche pagina prima.
Vale la pena dunque di seguire un metodo d’analisi più articolato, considerando ì luoghi testuali precedenti del nome Shad-dai: essisono Gn 17.1, dove Dio annuncia il patto della circoncisione con Abramo e Gn. 28,3 dove Isacco benedice Giacobbe e gli profetizza, in analogia col passo della circoncisione e anche con i versetti che stiamo esaminando, la costituzione futura di un grande popolo sulla terra di Canaan.[57] Una concomitanza di temi contrattuali è evidente. Bisogna allora ripartire dall’idea che nella semiotica implicita dei nomi biblici conoscere per nome non sia semplicemente avere l’informazione del significante che si può usare per designare qualcuno (soprattutto Qualcuno), o di chi sia designato da questo significante, ma comprenderne il valore intrinseco, apprendere la sua (o una sua) essenza.
Così si comprende anche l’autorevole ma decisamente strano commento di Rashì ad loc. che spiega l’espressione “apparvi come Dio Onnipotente” come equivalente a “Feci loro delle promesse e in tutte dissi loro: ‘Io sono il Signore.’ ” Dio cioè appare secondo un nome dicendosi con un altro nome. La sua opinione si completa infatti col commento a “non l’ho fatto conoscere loro” in questo senso: “Qui non è scritto ‘non feci conoscere ‘, ma ‘non mi feci conoscere’, cioè non mi feci riconoscere con l’attributo della mia verità per il quali il mio nome è Hashem, vale a dire fedele nell’attuare e dimostrare che le mie parole sono vere, perché Io ho fatto loro delle promesse ma non le ho ancora mantenute.” La contraddizione sarebbe interna al nome Shad-dai, che indicherebbe l’onnipotenza della promessa e non quella della sua realizzazione. Qualcosa del genere sostiene anche Ibn Ezra, il grande filosofo ebraico del XII secolo, per cui il senso del testo è il seguente: [58]
Allora Dio disse a Mosè: sono apparso ai patriarchi con la potenza del mio braccio […] con cui aiuto quelli che ho scelto, ma la potenza del mio nome Y-H-V-H, con cui tutto ciò che esiste venne alla luce non l’ho reso noto loro; ciò avrebbe voluto dire creare cose nuove per loro cambiando apertamente la natura. E perciò dì agli Israeliti che io sono l’Eterno e informali di nuovo del mio Tetragramma, perché con questo nome opererò dei miracoli per loro ed essi vedranno che io sono l’Eterno, colui che crea ogni cosa
Ramban o Nachmanide, il commentatore del XII secolo che rivaleggia con Maimonide nell’essere il punto focale della filosofia ebraica medievale sostiene invece un’interpretazione che risente ancora più fortemente dell’idea che i diversi nomi divini individuino modalità diverse o diversi caratteri della presenza divina, abbiano cioè una forza teologica reale. Qui, afferma, si
sta dicendo che “Io, l’Eterno apparvi ai patriarchi solo attraverso lo specchio di El Shad-dai” nel senso del versetto (Nm. 12,6) “In una visione io mi faccio conoscere a lui”. “Ma Io non mi feci conoscere loro così [cioè in una visione profetica, U.V.], ed essi non mi contemplarono attraverso uno specchio lucido abbastanza da conoscermi” poiché “prima di Mosé non sorse in Israele un profeta come Mosé, che l’Eterno conosceva a faccia a faccia”. I patriarchi conoscevano il nome proprio dell’Eterno, ma esso non era loro noto per il tramite della profezia. Per questa ragione, quando Abramo parlava con Dio usava il Suo nome proprio insieme con l’espressione Adonai o solo questa. Il senso di ciò è che la rivelazione della Presenza divina e la Sua comunicazione con loro venne loro attraverso l’attributo della giustizia e secondo questo attributo si realizzò la Sua condotta nei loro confronti. Ma con Mosé la Sua condotta e il Suo riconoscimento passarono attraverso l’attributo della misericordia, che è indicato dal Tetragramma […] Così Mosè non menzionò più il nome El Shad-dai e la Torah fu data secondo il nome Y-H-V-H
In questo passo insomma, secondo il multiforme commento rabbinico, verrebbe consegnato a Mosé un’idea di Divinità diversa e più profonda di quella designata da Shad-dai, un’idea che come abbiamo visto viene letta dalla tradizione come un “essere con” gli Israeliti nella difficoltà presenti e future e quindi poter corrispondere alle promesse fatte; un’idea connessa con la realizzazione del patto e il principio di misericordia. Il modo di chiamare Dio, insomma, e la sua rivelazione non riguarda semplicemente una questione discorsiva o anche cognitiva, ma la relazione reale che il divino intrattiene con il popolo ebraico. Rivelarsi sotto un nuovo nome significa trasformare attivamente la relazione. Farsi conoscere come Tetragramma significa, come abbiamo già sottolineato, assumere un ruolo narrativo diverso del puro destinante, l’onnipotente Shad-dai o il rigoroso Elo-hìm.
Vale la pena di accennare qui a un’altra questione connessa a questo cambio di nomi. Esso avviene in concomitanza con una trasformazione fondamentale nella narrativa biblica. Il tempo dell’anteriorità rispetto a Mosé, quello cui si riferiscono le formule che ho analizzato prima e anche quello di cui vien detto che Dio vi era nominato come El Shad-dai, ha come soggetti narrativi i Patriarchi: persone individuali descritte in una serie di circostanze che coinvolgono solo secondariamente mogli, figli, membri del clan. Con il passaggio dall’Egitto, il soggetto diventa collettivo, il popolo ebraico, i bené Yisrael, i figli di Israele, rispetto a cui in sostanza Mosé funge nella grande sintagmatica narrativa da Aiutante, anche se magari nei singoli episodi è lui spesso il Soggetto narrativo e il popolo funge da Destinatario se non talvolta addirittura da Avversario. La relazione fondamentale fra Dio, che è sempre il Destinante finale e diventa qui Aiutante (come si era detto e come afferma esplicitamente Nachmanide) e il popolo di Israele richiede secondo questa narrazione, un cambio di nome.
Questo carattere collettivo dell’Ebraismo nei rapporti col divino è radicata in molti modi nelle pratiche liturgiche. L’esempio più chiaro è la necessità di un quorum di dieci adulti (minjan) per compiere certi atti, come la lettura della Torah (che è rivelata al popolo, non a un profeta) e per quei gesti religiosi di cui è oggetto il nome divino, innanzitutto quella antichissima preghiera detta Kaddìsh il cui oggetto è la santificazione del nome divino (in particolare del Tetragramma, come si capisce dal testo senza che esso vi sia mai esplicitamente nominato) e poi la benedizione dello stesso Tetragramma, che viene richiesta alla comunità (barechù, “benedite”), all’ingresso nel nucleo centrale della liturgia quotidiana.
Bisogna notare infine[59] che il testo può e dovrebbe essere tradotto letteralmente (e il mio nome Y-H-V-H non l’ho fatto loro penetrare” secondo quella conoscenza carnale che ancora si definisce “biblica” (perché in diversi luoghi a partire da Gn. 4,1 si usa questo verbo per l’unione sessuale). Invertendo la metafora, si può vedere in queste parolo l’accenno a una conoscenza intima e profonda.
Tutta la complessa rivelazione dei nomi divini serve, secondo le interpretazioni accreditate che ho citato, come premessa pedagogica e efficace per il passaggio da un certo programma narrativo a un altro. Il brano che abbiamo esaminato costituisce un vero Contratto in senso semiotico, a differenza del patto precedente stretto con Abramo e poi confermato a Giacobbe, perché prelude a una serie di azioni volte a realizzarlo. Anzi, si tratta di un doppio Contratto. Uno, quello fondamentale con i figli di Israele (soggetto collettivo), è accennato qui (Gn. 3,8) per la prima volta e sarà stretto definitivamente sul Sinai, cioè sullo stesso luogo (e come abbiamo visto, viene proposto qui come “segno” in risposta alla prima domanda di Mosé: chi sono io). E’ il patto della cosiddetta “elezione”: Israele, Soggetto semiotico della narrazione, diventa il popolo di Dio accettando la sua Rivelazione, la Torah, strumento supremo di Competenza semiotica della narrazione biblica. Il suo compito è rispettarla, l’Oggetto di valore da conquistare è la “santità”[60], la Terra di Israele funge da sanzione positiva sempre revocabile, come accadrà più volte durante la narrazione biblica. Il secondo Contratto subordinato e funzionale al primo è concluso qui (Es. 3,9) con Mosé, che è incaricato ora di ottenere come suo Oggetto di valore immediato una premessa (una Competenza) fondamentale per il primo contratto, la liberazione dei suoi fratelli dal giogo egizio. egli tenta di sottrarsi ma non vi riesce, e ottiene dettagliate istruzioni su come fare, Aiutanti cognitivi e pragmatici.
La rivelazione del Tetragramma non serve, nell’autocomprensione della tradizione biblica, a informare su un nome che era già usato in precedenza, e che non verrà mai usato per convocare Dio (questa è la forza dei veri nomi, secondo la concezione che la Torah condivide in fondo con Platone e con il pensiero magico di molti popoli) come Egli convoca via via Adamo, Noè, Abramo ecc. fino ai profeti e a Mosé, chiamandoli. Il cambiamento del nome, da Elo-hìm cui è attribuita la giustizia e da Shaddài che riguarda la potenza a Y-H-V-H connotante la misericordia, indica una trasformazione modale, da Colui che può giudicare a Colui che vuole salvare: un passaggio decisivo nella narrativa biblica.
Vediamo ora ancora più da vicino il senso di questo nome precedente, cui alludono i commentatori citati. El può essere considerato un nome comune generico della divinità, o addirittura dell’autorità in tutto il mondo semitico,[61] con qualche sottolineatura della forza, visto che si applica anche a giudici, capi e altri maggiorenti, come rileva anche Maimonide. Shad-dai invece è invece un nome molto più connotato. Appare invece etimologicamente legato al verbo shaddal, “devastare” “agire violentemente” e si usa tradurre con l’ “Onnipotente” e altri analoghi termini delle lingue occidentali. Nella tradizione ebraica è spesso interpretato come una sorta di acrostico dell’espressione she amàr dài, colui che disse basta, che pose cioè dei limiti all’espansione del creato.[62] Anche qui il centro è il potere divino. Shad-dai è dunque la potenza dominante, “il Vittorioso” (Così il Ramban) il padrone dell’universo (un nome che sarà tradotto nell’ebraismo post-talmudico come Ribbono shel Olam. Forse per questa ragione nel corpus biblico appare soprattutto nel libro di Giobbe, dov’è più esplicita l’espressione della potenza divina e compare anche nell’episodio di Baalam, il profeta assoldato per maledire gli israeliti che invece si trova sua malgrado, per intervento divino a benedirli (Num. 24,4)
Come sempre ci sono numerose altre spiegazioni paraetimologiche. Si parla di una città amorita sull’alto Eufrate che porta lo stesso nome, e allora si tratterebbe della divinità di questo luogo. Oppure dell’accadico shadu (montagne) o del nome semitico ed anche ebraico shad che si riferisce alle mammelle[63] e per metafora alla fertilità. Un altro acrostico possibile viene dall’espressione shomèr delatòt Yisraèl, guardiano delle porte di Israele, che spiega la regola di iscrivere la lettera shin, sua iniziale, o l’intero nome sulle mezuzot, quegli astucci contenenti una pergamena con alcuni brani della Torah che gli ebrei affiggono sugli stipiti. Il nome viene spesso usato nel mondo ebraico come elemento di identificazione; per esempio portato al collo appeso su una catenina come fosse un ornamento in analogia a quel che si fa con la stella di Davide.
9.
Ci resta da prendere in considerazione brevemente i tredici attributi comunicati a Mosé un po’ più in là nella storia, dopo la rivelazione del decalogo e la costruzione del vitello d’oro. Nel capitolo 33, nel momento della massima esaltazione del profeta dopo la consegna delle tavole della legge e la giusta conclusione dell’episodio del vitello d’oro, quando si dice che “Y-H-V-H parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla col suo prossimo” (versetto 11), gli viene attribuita una richiesta piuttosto misteriosa: “mostrami” et kevodecha, “la Tua gloria” come si usa tradurre [64] il Tuo onore, dice rivolto a Dio. Un’altra traduzione possibile è “il Tuo onore” dato che si tratta della stessa radice che viene impiegata nella quinta parola del Decalogo per ordinare do “onorare” i genitori. Letteralmente si tratta di “peso”. Tutto ciò comunque viene interpretato normalmente come l’aspetto fisico, con una specie di inversione dei numerosi antropomorfismi della Bibbia, che Maimonide suggerì con forza di considerare metafore di nozioni più astratte e filosofiche.
Qui è la “gloria”, ripresa anche al versetto 22 a essere interpretata come una metafora del corpo, anche a causa della risposta negativa del versetto 20 che dice “non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”, il che è certamente problematico proprio perché la parola usata per volto (panài) è la stessa del versetto 11 in cui Mosé era detto parlare direttamente con Dio. Solo che in quella occasione si tratta di un plurale: e però parlare “facce a facce” (panìm el panìm)[65] non è forse la stessa cosa di vedere “la mia faccia” (panài), è una condizione di dialogo e non di oggettivazione. Come compensazione però, Dio fa vedere a Mosé et achorai, quelle che normalmente si traducono “le Mie spalle” e che Lévinas, in una memorabile “lettura talmudica” ha proposto di intendere “le Mie tracce, quel che Io lascio nella storia”[66] Il testo nella sua traduzione più consueta dice così (versetti 22-23): “Quando passerà la mia Gloria, ti nasconderò nella cavità della roccia, ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; poi ritirerò la mia mano e tu mi vedrai da dietro, ma la mia faccia resteà invisibile”.
Bisogna aggiungere che pur rifiutando di far vedere la sua “gloria” Dio promette con espressione parallela di far “passare davanti a te tutta la mia Bontà”.[67] Inoltre Dio promette a Mosé che “chiamerò per nome Y-H-V-H” (vecarati beshem; così De Luca; tutti gli altri traducono più o meno “pronuncerò il nome”). Questo pronunzia del nome e esibizione della bontà accadrà nei versetti 6 e 7 del capitolo 34:[68]
6. E traversò I-H-V-H davanti al suo volto e chiamò: “I-H-V-H è I-H-V-H, El misericordioso e prodigo di favore. Lento all’ira e abbondante di grazia e verità.
7. Custodisce grazia per migliaia, solleva colpa e torto e peccato. E assolvere non assolverà, persegue una colpa di padri su figli e su figli di figli4” fino ai terzi e ai quarti”.
L’azione è esattamente quella promessa, il verbo chiamare è lo stesso (vaicrà beshem). Quel che segue sono i 13 “attributi” o “caratteri” di Dio (middot),[69] che hanno una grande importanza nella liturgia ebraica, e anche nella sua teologia, perché si tratta del più importante tentativo esplicito di definizione delle qualità del divino nell’ambito della Torah. I primi tre degli attributi sono nomi divini che già conosciamo (il nome El segue la ripetizione del Tetragramma, che di solito si interpreta come segnata da una copula che indica non una tautologia ma un’esplicazione: “Il Signore è il Signore” come specificato dalle apposizioni che seguono). Gli altri dieci sono nomi, spiga Nachmanide, perché se no sarebbero oggetto di una proposizione relativa, ma hanno un doppio verso: dalla parte umana sono qualità, da quella divina costituiscono l’albero delle Sefirot, il celebre schema cabalistico degli aspetti divini.[70] Nella storia dell’ebraismo vi è una lunga discussione teologica sul senso da dare a questi attributi. Da un lato tutti concordano che essi mettano in luce la dimensione misericordiosa del nome Y-H-V-H, cui abbiamo già fatto riferimento; dall’altro non è chiaro se sia possibile darne una definizione semanticamente più compatta. La discussione rosegue da Abraham Ibn Daud (Toledo 1100-1180 circa) che propose di ridurli sette attributi positivi (unità, verità, esistenza, onniscenza, volontà, onnipotenza, essere) a Maimonide (1138 Cordoba – 1204 Fostat, Egitto) che si oppose a qualunque mossa del genere notando che essi non descrivono un’essenza ma solo dei comportamenti, lasciando dunque inattingibile l’essere divino fino al filosofo neokantiano Hermann Cohen (Coswig, Germania 1842 – 1918), che ridusse gli attributi a due proprietà principali (amore e giustizia), la discussione non si è mai arrestata. A noi interessa qui ribadire che vi è una differenza fondamentale fra il nome vero e proprio e gli “attributi”, non consistente nel fatto che esso non abbia senso e questi invece sì, quanto nel fatto che gli attributi non sono esclusivi, trattandosi di proprietà che, sia pure in grado diverso, possono essere attribuite anche ad altre realtà.
Sul piano di un’analisi logica la distinzione fra nomi e attributo è importante, ma sul piano semantico vi è una vicinanza molto maggiore: i due versetti sono definiti dal testo come una chiamata o proclamazione del nome. Il nome stesso o se vogliamo il suo significante è paradossalmente parte dei suoi stessi attributi. Ma è abbastanza chiaro che il senso del testo è quello di una esplicitazione di ciò che si debba intendere col Tetragramma, di quali siano i comportamenti divini che questo nome proprio implica. Alla luce della teoria implicita dei nomi veri che ho illustrato sopra, tutta la proclamazione è un nome (del resto, come è noto, nei testi cabalistici si sostiene che tutta la Torah, cioè il complesso delle narrazioni e delle norme che costituiscono l’insegnamento dell’ebraismo, costituisce un nome divino. Se il significante del Tetragramma era legato al suo essere futuro, il suo significato qui enunciato si lega a quella dimensione di misericordia molte volte enunciata, che qui è oggetto esplicito degli attributi dal quarto al dodicesimo[71] e che è limitato dal tredicesimo come pure dalla clausola tautologica liberatoria del versetto Es. 33,19 (che abbiamo indicato nella nota 65). Si capisce in particolare il rapporto fra i due ruoli attanziali (di Destinante e di Aiutante) che il Tetragramma inserisce nel testo. Siamo comunque nella sfera particolarmente delicata di un’etica divina. Analizzarne il senso dettagliato è un compito estremamente complesso che non possiamo affrontare qui.
10.
Finiamo qui questa esplorazione testuale del labirinto onomastico che apre il libro dei “nomi” (shemot) o dell’Esodo, come usiamo chiamarlo in Occidente. Bisogna ora trarne qualche conclusione, anche per giustificare lo sforzo richiesto al lettore che abbiamo invitato a soffermarsi minuziosamente su dettagli linguistici della parte meno emozionante o sentimentale di un testo che di solito si conosce solo nei suoi aspetti più spettacolari sul piano narrativo (le piaghe, il passaggio del “Mar rosso” ecc.)
La prima conclusione è che in questo intreccio si può rintracciare una logica molto precisa, non solo sul piano teologico, ma anche su quello narrativo e cioè semioticamente del senso. I nomi non sono detti a caso, ma sono portatori di valori e relazioni che influenzano profondamente la percezione del testo da parte dei suoi interpreti successivi più autorevoli. Anche dove sembra di trovarsi di fronte a semplici ripetizioni e variazioni, queste hanno senso o quantomeno permettono una sua attribuzione molto ricca. Una rete molto fitta di simmetrie e di opposizioni regola la superficie significante, ed è capace con ciò di veicolare contenuti impliciti con grande precisione. Se li si esamina da vicino, anche i dettagli apparentemente casuali del testo mostrano un’organizzazione che li mette in grado di essere portatori di senso, come è puntualmente avvenuto nella tradizione ermeneutica. Si riconferma così l’utilità di una lettura che rispetti la natura di testo “denso” della Bibbia, in cui ogni aspetto e dettaglio del piano dell’espressione va considerato motivato e investito da molteplici isotopie e semisimbolismi.[72]
Questo è un risultato molto significativo, perché sembra contraddire la lettura standard che teologi e storici delle religioni fanno di questo testo, secondo la cosiddetta ipotesi documentaria. Ogni volta che nella torah si trova una stessa cosa nominata in due modi diversi (il che accade non solo per i nomi di Dio, ma come abbiamo visto anche per Sara e poi per il sacerdote midianita Ytrò, suocero di Mosé (chiamato anche Reuel) e per il monte Sinai, che negli stessi versetti che abbiamo esaminato viene nominato come Chorev, i sostenitori di tale ipotesi pensano sistematicamente di trovarsi di fronte alla fusione di narrazioni diversi o alla sovrapposizione di strati narrativi differenti, opera di diversi autori; lo stesso accade quando un episodio viene narrato due volte o ricorrono due episodi simili in luoghi diversi. Una lettura destrutturante di questo tipo è stata molto utile per approfondire lo studio del testo, ma oggi appare piuttosto insoddisfacente, perché le attribuzioni di strati testuali e autori si sono moltiplicate senza raggiungere un vero consenso e soprattutto perché essa non rende ragione dell’effettivo funzionamento testuale. Sarebbe interessante applicare questo meccanismo filologico non solo a Omero e alla sua tecnica degli epiteti, o alle narrazioni al bordo fra oralità e scrittura che sono tutte ridondanti e ripetitive, ma anche a Virgilio, Tasso, Ariosto e in fondo anche a narratori in prosa complessi come Tolstoi o Proust: con tali criteri sarebbe possibile dimostrare che la loro opera non può essere unitaria, un po’ come chi applicasse i metodi negazionisti per dimostrare l’inesistenza di Napoleone.[73]
Il fatto è che la spiegazione della convergenza di narrazioni diverse e la sovrapposizioni degli strati richiede ipotesi di gran lunga più impegnative rispetto al riconoscimento della sostanziale unità narrativa del testo, sia pure frutto della convergenza di molteplici tradizioni e non priva di evidenti interpolazioni. All’ipotesi documentaria manca evidentemente una teoria sul funzionamento dei testi narrativi, per cui essa oscilla fra vedere la Bibbia come “letteratura” in senso romantico e propaganda politica intesa un po’ ingenuamente come rete di allusioni al presente dissimulate nella narrazione storica. L’ipotesi documentaria spiega il testo biblico come costituito da strati di cui ognuno sarebbe il mezzo di certe azioni politiche da parte della corte davidica, di quella dei re nell’esilio babilonese, dei sacerdoti post-esiliaci ritornati da babilonia o dei loro avversari rimasti sul luogo. Peccato che tutte queste azioni siano congetturali, al massimo sostenute da indizi testuali esili e generici. E peccato soprattutto che stratificazioni e motivazioni assai diverse fra loro del tutto incompatibili siano state presentate volta volta come fatti storici.[74] Il suo potere esplicativo risulta in effetti molto meno ricco dell’autocomprensione ermeneutica della tradizione biblica che abbiamo cercato di illustrare qui. Nel nostro brano, al posto di un cambiamento del senso del divino che è coerente con una modificazione narrativa fondamentale avremmo semplicemente la giuntura male realizzata di strati narrativi incompatibili e assemblati chissà perché in questa maniera.
Senza entrare nei dettagli di queste letture testuali, che del resto nel corso del tempo si sono fatte via via più generiche e meno impegnative, vogliamo suggerire l’utilità di analizzare il testo come si presenta e soprattutto come si comprende o come lo comprende la tradizione ermeneutica che ne è scaturita. La semiotica della Bibbia è in grado di rivelare i meccanismi di senso che vi sono in gioco e che in qualche modo stanno alla base e insieme sintetizzano la vita delle religioni che vi si appoggiano, in particolare per il nostro testo dell’Ebraismo. L’attività religiosa è innanzitutto percezione e proclamazione di un senso. Nelle religioni del libro questo senso è scritto e va rintracciato nel testo. Questo saggio ha cercato di mostrare come la semplice nominazione e autonominazione del divino abbia una straordinaria densità di senso nel testo della Torah, sia portatrice di contenuti articolati e complessi.
* Ugo Volli
Università di Torino
[1] Che sia per il nome o il numero, essi sono talvolta messi in relazione ai princìpi ermeneutici di Rabbi Ishmael, un tema di grande interesse cui ho accennato nelle mie Lezioni di filosofia del linguaggio (Laterza, 2008) e che non posso trattare ulteriormente qui. Accennerò ancora a queste coincidenze in conclusione a questo saggio.
[2] Nel seguito userò una trascrizione facilitata dell’ebraico basata sulle abitudini di scrittura dell’italiano. Si noti solo che “sh” andrà pronunciata come in “scena” e “h”, “ch” e “kh” indicano suoni progressivamente più aspirati, più o meno come la pronuncia toscana della “c” di “casa” o quella inglese della “H” di “Hemingway”. Per non violare le regole dell’ebraismo religioso spezzerò con trattini inesistenti nel testo originale ebraico i principali nomi divini, che come vedremo sono sottoposti a vincoli di pronuncia e di scrittura. In particolare scriverò Elo-hìm e Y-H-V-H. Non farò invece alcuna modifica al sostantivo italiano”dio”, come pure è d’uso nella pubblicistica religiosa ebraica contemporanea, per l’appartenenza di questo termine alle lingue indoeuropee e la sua natura di nome comune, discussa in seguito.
[3] Per un passo parallelo precedente al nostro e significativo, anche se molto meno esteso, si veda Gn. 15, 7: “Io sono il Signore” anì Y-H-V-H, “che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti questa terra in eredità”. Un altro luogo ancora più vicino alla dimensione dell’anteriorità – che vedremo in seguito così caratteristica di queste autodefinizioni – si trova nell’episodio (Gn. 28, 12-13) del sogno di Giacobbe dove a Giacobbe appaiono gli “angeli di Elo-hìm” che salgono e scendono da una scala fino in cielo; in cima ad essa vi è Y-H-V-H che gli dice “Io [sono] Y-H-V-H, Elo-hìm di Abramo tuo padre e Elo-hìm di Isacco.” Fra gli altri problemi di questo passo estremamente denso, Haim Baharier mi ha fatto notare che vi è una sorta inversione di paternità, dato che la qualità di “tuo padre” viene attribuito al nonno di Giacobbe, Abramo, invece che al vero padre Isacco.
[4] Per esempio nel cap. 19 del Levitico, che contiene norme etiche essenziali.
[5] Per embryage intendiamo qui il fatto che l’enunciazione prodotta dalla narrazione sia riportata al mondo reale da cui essa è derivata e in particolare a uno degli attori della narrazione di cui viene implicitamente attribuita un’esistenza esterna al testo. Ciò che ci interessa in maniera peculiare è il fatto che certe attribuzioni di nomi siano compiute sotto forma di enunciazione enunciata: all’interno dell’enunciazione del testo si genera una seconda enunciazione, attribuita a un personaggio. In termini moderni, l’enunciazione enunciata sta fra virgolette. Ancora di più, l’enunciazione enunciata è in prima persona e afferma certe proprietà del soggetto enunciatore (i nomi e i predicati di Dio sono detti da lui). Se al testo è attribuita una veridicità, com’è evidentemente il caso della Bibbia per i credenti, quest’enunciazione enunciata in prima persona da parte di Dio è particolarmente autorevole, perché si tratta, per così dire, della rivelazione di una rivelazione.
[6] Si veda per un esempio Ebraismo a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Bari-Roma 1999, in particolare il saggio di C. Grottanelli sullebraismo pre-esiliaco.
[7] L’espressione più completa è Deuteronomio 4, 15-19: “Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sul Chorev dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualche animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia nel suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra”.
[8] La ragione è che tutti i libri del pentateuco in ebraico traggono il loro nome dalla prima espressione importante che ricorre nel testo. Così Genesi è chiamata originariamente Bereshit, cioè “in principio” ed Esodo Shemot, cioè “nomi” per il fatto che il primo versetto dice Veèle shemòt benè Israèl habaìm Mitzraim et Yaakov, vale a dire “Questi [sono] i nomi dei figli di Israele che vennero [in] Egitto con Giacobbe”. La ragione di questa enumerazione è stata molto discussa, perché si tratta di una ripetizione rispetto a un elenco analogo che si trovava alla conclusione del libro precedente. Una delle ragioni offerte dai commentatori è che i nomi esprimono l’individualità, dunque la condizione umana che sarà negata dalle condizioni abbrutenti della schiavitù; un’altra è che i nomi, appartenendo alla lingua ebraica (nella Bibbia ebraica è frequentissima l’esposizione di etimologie più o meno fondate per i nomi propri) implicano la sopravvivenza di una cultura autonoma rispetto alla potenza assimilatrice della civiltà egiziana: una condizione che si andrà perdendo nel corso dell’esilio. Entrambe queste spiegazioni si riferiscono a quella importante dimensione semiotica dei nomi che discuteremo nel testo a proposito dei nomi divini.
[9] Anzi è evidente che il cristianesimo organizzandosi nell’ambito culturale gerco-romano abbandona l’idea di un nome proprio del Dio unico, traducendo col nome comune Signore (kurios, dominus) il Tetragramma, e poi rendendolo ancora come Dio o Padre, altri nomi comuni. Il piano onomastico è dunque un indizio importante della separazione fra ebraismo e cristianesimo.
[10] Un designatore rigido è un termine che “si riferisce alla medesima entità in tutti i mondi possibili”( Saul Kripke Naming and Necessity, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1980 (tr.it. Nome e necessità, Torino, Bollati Boringhieri, 1999)., cioè che è legato al suo oggetto da una sorta di necessità che noi riconosciamo ai nomi propri grazie al fatto che vi è stato un momento inaugurale in cui il nome è stato dato: non era necessario che il secondo re di Israele si chiamasse David, ma l’individuo denominato da quel nome una volta che gli sia stato dato è lui, qualunque siano le sue vicissitudini. Le descrizioni definite sono sintagmi nominali formati dall’articolo determinativo singolare seguito da un nome comune semplice o complesso, cioè catturano un individuo specificando qualche sua proprietà, che si presuppone unica. (Bertrand Russell “On Denoting,” Mind, 14, 479-493. trad. it., Sulla denotazione, in Andrea Bonomi, (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano, Bompiani, 1978, pp. 179-195) Nell’uso linguistico teorizzato dalla filosofia analitica contemporanea, almeno nella sua versione standard, i due concetti sono antitetici: il designatore rigido è tale proprio perché è vuoto, una descrizione non è rigida perché si riferisce a una proprietà del suo oggetto che potrebbe non esserci.
[11] Haim Cipriani ha richiamato la mia attenzione sul fatto che il verbu usato qui, vaikrà, viene dalla radice qr’ , che significa “leggere”. In una visione mistica Elo-hìm “legge” questi nomi nella Torah, xhe infatti è chiamata mikrah, “lettura” o “chiamata”. Lo stesso verbo è usato in riferimento all’azione di Adamo che dà nomi agli animali. Dunque anch’egli “legge” la loro essenza, e l’arbitrarietà della sua azione è dunque relativa.
[12] East and West Library, Oxford and London 1947.
[13] Gn.17,5 “Non ti chiamerai (ikarè) più col nome di Avràm, il tuo nome sarà Avrahàm, perché ti ho reso padre (av) di una moltitudine (hamòn) di popoli”, mentre prima lo era solo del popolo di Aram da cui proveniva. Così il commento del principale esegeta della tradizione ebraica, Rashì di Troyes (Rabbi Shlomoh Ben Yizhaq c.1040-1105) , ad loc. (trad. it. p. 120) E allo stesso tempo (Gn. 17,15) Sarài diventa Saràh perché il primo nome “significa ‘mia principessa’, principessa cioè per me e non per gli altri”, mentre con il secondo “ella sarà principessa per tutti” (Rashi ad. loc., trad. it. p. 123). Va notato che a Saarah viene attribuito anche un terzo nome, Yiskà sulla base di Gn.11.29. Scrive Rav Shlomo Bekhor (I primi grandi uomini, testo commentato di Genesi 1-22, Ed. Mamash, Milano 2003) “Sarà stessa venne chiamata Yiskà (dal verbo sakhà, e significa vedere, guardare) perché poteva vedere il futuro con l’ispirazione divina e perché tutti guardai/ano la sua bellezza (Talmùd Meghillà I4a; Rashì). Yiskà indica inoltre il concetto dì nessikhùt, aristocrazia (Talmùd Berakhot I3b; Rashì). Il Maharàl approfondisce il significato di entrambi i nomi di Sarà. La i donna ha due missioni: la prima, dalla nascita, in quanto persona, mentre la seconda le viene assegnata quando si sposa, ossia al momento in cui le viene affidata una missione più elevata da compiere assieme al marito e in armonia con lui. Yiskà è quindi il nome che indica la sua grandezza personale, mentre il nome Sarày, che indica la sua missione in quanto moglie di Avrahàm e madre di Israèl, viene -ripiegato solo a partire dal suo matrimonio.” Si tratta di un ragionamento che può sconcertare un lettore moderno, ma rientra perfettamente nel tipo di teoria implicita dei nomi che stiamo discutendo. E’ interessante notare, a proposito del passaggio subito dai nomi di Avraham e Sarah che esso consiste nell’aggiunta di una stessa lettera he, la stessa che, come vedremo, rende grammaticalmente inusuale il nome divino Elo-him rispetto al plurale ordinario Elim da El (dio). Il linguista Joel M. Hoffman, nella sua storia della lingua ebraica In the beginning (New York University Press 2004, pp.39-44) suggerisce che esista una relazione con l’innovazione dell’ebraico rispetto alle scritture circostanti, che consiste nell’esistenza di lettere “matres lectionis”, usate oltre che per il loro valore consonantico come segno della presenza di certe vocali. He è per l’appunto una di queste lettere, e introdurle nel nome di alcuni patriarchi e nel nome divino stesso costituirebbe una sorta di marcatura culturale. Quest’analisi vale anche per il Tetragramma, comoposto solo da matres lectionis: jud, he, vav e ancora he.
[14] Vale la pena di citare tutto il passo, così pieno di questioni di nomi da richiedere una grande attenzione (Gn.,32, 25-31): “25. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò contro di lui fino allo spuntar dell’aurora. 26. Vedendo che non riusciva a vincerlo,lo percosse nell’articolazione del femore e l’articolazione del femore si lussò mentr’egli continuava a lottare con lui. 27. Quegli disse “Lasciami andare perché spunta l’aurora.” Rispose “Non ti lascerò partir se non mi avrai benedetto.” 28. Gli domandò “Qual è il tuo nome( mah shemècha)?” Rispose “Giacobbe.” 29. Riprese “Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio (Lo Yaakòv leamàr od shemchà ki-im-Yisraèl ki-sarìta im Elo-hìm) e gli uomini e hai vinto” 30. Giacobbe allora gli chiese “Dimmi il tuo nome (aghidà-na shemèha), ti prego!” Gli rispose “Perché chiedi il mio nome” e qui lo benedisse. 31. Allora Gicobbe chiamò que luogo Penuèl perché, disse, “ho visto Dio faccia faccia (ki rahìti Elo-hìm paìim el-panìm) eppure la mia vita è rimasta salva”)
[15] Ciò può sembrare un po’ strano dal punto di vista logico, ma si spiega perfettamente pensando che i nomi biblici sono anche descrizioni definite. Qualcosa del genere del resto avviene in certi “nomi motivati” anche nella nostra pratica. Se si dice che la Gran Bretagna venne chiamata Regno Unito dopo la fusione fra le corone di Inghilterra e Scozia e che però allo stesso tempo il suo nome fa riferimento alla provincia francese da cui partì l’invasione normanna, ci si trova in un contesto problematico simile. “In the Scriptures there is the closest possible relationship between a person and his name, the two being practically equivalent, so that to remove the name is to extinguish the person (Numb. 27:4; Deut. 7:24) To forget God’s name is to depart from Him.”Zondervan Pictorical Bible Dictionary, p. 571 (1964)
[16] Utilizzo qui la traduzione di Erri De Luca (Esodo/Nomi – Traduzione e cura di Erri de Luca, Feltrinelli,. Milano 1994), per la sua estrema fedeltà alla lettera del testo, che mi permetterà di semplificare la mia analisi. Dato che questo è il nostro tema di discussione, mi sono solo permesso di applicare il trattino di separazione a Elo-him e nel sostituire la resa di De Luca del tetragramma (Jod) con le quattro lettere latine, secondo quanto già illustrato alla nota 2. Sono state inserite anche alcune traslitterazioni di parole fra lettere quadre, mentre le brevi spiegazioni testuali di De Luca sono in corsivo fra parentesi tonde.
[17] Devo questa lettura a Haim Baharier. Per una riflessione sul regime ermeneutico di una simile spiegazione, si veda il cap. V delle mie Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2008
[18] Come vedremo in seguito, quest’identificazione non è priva di problemi. Per un’interpretazione diversa del senso di questo nome si vedano le osservazioni di Joel M. Hoffman riportate alla nota 13.
[19] Un’eccezione interessante è in Es. 32,4, quando gli Israeliti attribuiscono al vitello d’oro costruito da Aronne il titolo di Elo-hìm, ma idolatrandolo gli attribuiscono un verbo al plurale “che ti hanno fatto uscire d’Egitto” heelùha me-èretz Mizràim.
[20] Così il Ramban, acronimo di Moshe ben Nahman Gerondi, detto anche in Occidente Nachmanide (figlio di Nachman) (Girona 1194 – Israele 1270 circa), uno dei massimi commentatori, mistici e filosofi del Medioevo ebraico. La citazione è tratta dai suoi Commentary on the Torah, trad. inglese di Rav Chavel, Shilo Publisher, Brooklyn NY, 1973, vol II p. 585. Questa definizione di nome proprio si può convalidare anche notando un uso linguistico importante: mentre è normale e comunissimo che il nome Elo-hìm sia sottoposto a suffissi possessivi (Eloè-ha, “il tuo E.”; Eloh-ènu,“il nostro E.” ecc., quest’uso non si applica mai al Tetragramma. Per affermare un possessivo – attivo o passivo che sia – nei suoi confronti si usa invece la formula, tipica delle benedizioni, “Y-H-V-H Elo-hènu“, come se il Tetragramma fosse appropriabile solo attraverso Elo-hìm.
[21] Emmanuel Levinas, L’au-delà du verset, Ed. de Minuit, Paris, p. 150. La vocalizzazione del Tetragramma secondo le vocali di “Adonai” viene attribuita ai Masoreti, con l’intenzione di ricordare la doppia pronuncia. Da questa vocalizzazione pedagogica, presa alla lettera da un traduttore cristiano del Sedicesimo secolo deriverebbe la scrittura scorretta “Jehova” che in italiano diventa ancor più incongruamente “Geova”. L’altra vocalizzazione corrente “Javeh” deriva invece dall’idea che si tratti di una voce del verbo essere, come abbiamo già accennato. Se si trattasse di una terza persona singolare della rafice corrispondente, le vocali dovrebbero essere queste, Meno diffusa è la vocalizzazione “Yahuh” o “Yehu”, forma quest’ultima che compare qualche volta nella Bibbia, soprattutto all’interno di nomi. Secondo chi sostiene questa ipotesi sdi tratterebbe di una sorta di “Grido primitivo”, che vorrebbe dire “Yah è Lui” oppure “Yah esiste”, essendo Yah un altro nome divino, considerato comunemente una contrazione del Tetragramma e usato in molti nomi e locuzione come Alleluya (imperativo plurale di Allel: “lodate il Signore!”
[22] Nel Tetragramma vi è, nell’ordine, uno shèva un kamàz e un chòlem, mentre in Adonài troviamo un kamàz, un chòlem e un altro kamàz
[23] Infatti, dal punto di vista grammaticale la parola sembra formata come un plurale, piuttosto che come un possessivo. Si noti che Adonài non è solo un sostituto, ma anche un nome usato col Tetragramma (per esempio Gn. 15,2 e 8) o da solo (Gn. 18, 30 e 31) Si noti che la Vulgata non distingue fra Tetragramma e Adonài, traducendo sempre Dominus. La LXX tende a usare Despotes per Adonài e Kurios per il Tetragramma, ma non sempre in maniera coerente
[24] Si vedano il versetto 7 e il 9 (e anche 2,24), l’8 e il 17 ecc. Peraltro questo tipo di ripetizione formulaica è fra i trattai caratteristici della tradizione orale, come sono individuati per esempio da Ong si ritrovano facilmente in Omero e in altri testi derivanti da tradizioni orali. Ne riparleremo in seguito. Espoisizioni molto simpatetiche con l’ipotesi documentaria si trovano in Ebraismo, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Roma-Bari 1999; Richard. E. Friedman, Who wrote the Bible, Sunnit Books, New York, 1987 e Ernest Nicholson, The pentateuch in the Twentieth Century, Oxford University Press 1998. Una critica molto analitica si trova nel fondamentale libro di Umberto Cassuto La questione della Genesi, università di Firenze, 1934, riassunto nel più consultabile The Documentary Hipothesis, Shalem Press, Jerusalem-New York. Si veda anche, per un punto di vista esplicitamente cristiano M.W.J. Pelan, The inspiration of the Pentateuch Twoedged Sword Publications, Waterlooville 2005
[25] E’ una distinzione fondamentale per tutta l’ermeneutica ebraica, dalle fonti talmudiche alla Kabbalah. Per citare solo un testo in appoggio a questa distinzione, si veda la nota di Rashì al primo versetto della Torah, quella in cui si dice che Dio (cioè Elo-hìm, non il Tetragramma) creò il cielo e la terra: “Creò Dio – non è detto “Creò il Signore [cioè Y-H-V-H], perché all’inizio gli venne in animo di creare il mondo ponendolo sotto la legge della giustizia. Poi però vide che esso non sarebbe potuto sussistere e perciò premise la legge della misericordia e la congiunse a quella della giustizia. Sta scritto infatti: Nel giorno in cui il Signore Dio [Y-H-V-H Elo-hìm] fece il cielo e la terra” (Gm.2,4)
[26] Che Dio non si presenti al popolo ebraico in maniera astratta come il creatore o il “motore immobile” dei filosofi, ma come il portatore di rapporti concreti con i suoi interlocutori, è un fatto generale la cui importanza è sottolineata con molta forza da Yehudah ha-Levi (si veda fra l’altro Kuzarì, I, 25 e IV, 16): è un Dio esistenziale e storico, piuttosto che teologico e astratto.
[27] Devo a Haim Baharier la comprensione dell’importanza di questa dimensione nell’esperienza ebaica, che privilegia come lui spiega l’ “anteriore” sull’ “interiore”.
[28] Ai versetti 13 e 15, con la sola variante del possessivo al plurale: avotechèm “dei vostri padri.
[29] Al versetto 7.
[30] Prima lo si usa – raramente – come aggettivo per caratterizzare delle persone: Abramo (Gn 14,13) la prima volta in assoluto, Giuseppe (Gn. 39,14 e 17), lo schiavo picchiato da un egizio e difeso da Mosé (Es. 2,11) e lui stesso (2, 6). Anche Giona si autodefinisce così. Si è notato che ivrì è una definizione che viene usata sempre in relazioni con persone esterne, come se fosse un nome attribuito dal di fuori.
[31] Nella Torah è associato a un mitico progenitore Ever (Gn. 11,16); ma forse va ricollegato a uno strato sociale di persone marginali, come mercenari, ribelli, mercanti stranieri che si ritrovano spesso nelle testimonianze della mezzaluna fertile della seconda metà del secondo millennio prima della nostra era. In genere il nome è usato nei rapporti dei personaggi israeliti della Bibbia con l’esterno; nei rapporti reciproci essi sono più spesso nominati secondo la tribù o il comune antenato Giacobbe (Yisraèl).
[32] Non è forse un caso che il saluto rituale ebraico “Y-H-V-H immachèm” riprenda in sostanza questa formula. Una semiotica dei saluti è ancora da fare, ma vien subito da notare come in “Addio”, “Adieu”, “Adios”,”Gruesst Gott”, “Salve” ecc. vi sia sempre un contenuto teologico.
[33] C’è un’eccezione molto significativa. Il Targum Onkelos, cioè l’antica traduzione aramaica della Torah usata a fini liturgici nel periodo ellenistico e trattata dal Talmud come una sorta di commento autorizzato, anche perché si tratta spesso di una traduzione esplicativa, traduce la prima espressione (“sarò quel che sarò”) letteralmente senza modificarla; ma non la sua ripetizione immediata “Dirai: ‘sarò’…” che viene lasciata nel significante originale. Il versetto suona allora “Sarò quel che sarò […] Ehejèh mi ha mandato a voi”. Il Talmud cita questo fatto per dimostrare che si tratta di un vero nome.
[34] Perché oggi c’è chi prova a proporre in maniera più o meno convincente una priorità degli scritti profetici sulla definizione del Pentateuco. Cfr. Grottanelli, op.cit.
[35] Realizzata in Alessandria d’Egitto nel III secolo prima della nostra epoca, da un gruppo di “settanta” studiosi che in reciproco isolamento avrebbero miracolosamente realizzato esattamente la stessa traduzione; dopo la sua adozione come testo base per l'”antico testamento” cristiano, la traduzione fu sostanzialmente rifiutata dall’Ebraismo rabbinico, anche perché si discosta notevolmente dalla lettera del testo ebraico che noi conosciamo, in parte per errori, interpolazioni e aderenza allo spirito della lingua greca, in parte riportando altre versioni della Bibbia, come si è potuto notare dal confronto coi materiali di Qumram.
[36] Non così per esempio quella di Rav Di Segni in uso nelle comunità ebraiche italiane.
[37] Francesca Albertini “Ehyèh ashèr èhyèh: Ex. 3,14 according to the interpretations of Moses Mendelssohn, Franz Rosenzweig and Martin Buber”, in Zehut, raccolta on line di testi teorici dell’ebraismo italiano, http://www.morasha.it/zehut/index.html
[38] Esodo/Nomi – Traduzione e cura di Erri De Luca, Feltrinelli,. Milano 1994, nota 49, p. 23. Per ragioni di uniformità ho cambiato la grafia del testo ebraico rispetto a quella adottata da De Luca. Cfr. una fra le molte fonti accademiche che sostengono una posizione analoga: The translation I am is doubly false: the tense is wrong, being present; and the idea is wrong because am [in an incorrect translation] is used in the sense of essential existence. All those interpretations which proceed upon the supposition that the name is a name of God as the self existent, the absolute, of which the Septuagint’s ‘ho on’ is the most conspicuous illustration, must be set aside…the nature of the [Hebrew] verb and the tense pre-emptorily forbid them.” A. B. Davidson, The Theology of the Old Testament in “The International Theological Library”, 1920, p.55. Hayah [“to be,” root of “ehyeh”] does not mean ‘to be essentially or ontologically [i.e., what He is basically or that He exists], but phenomenally [i.e., what He will do]…it seems that in the view of the writer “‘ehyeh and yahweh are the same: that God is ‘ehyeh, ‘I will be’ when speaking of himself, and yahweh ‘He will be,’ when spoken of by others. What he will be is left unexpressed :He will be with them, helper, strengthener, deliverer.” Ibid., Vol. II, p. 199.
[39] E molte altra ancora meno rilevanti teoricamente. Ecco un elenco di traduzioni inglesi che si trovano in Internet: “I will be what I will be.” New International Version ;“I will be that I will be” American Standard Version ; “I Will Become whatsoever I please.” Rotherham’s Emphasized Bible ;“I shall prove to be what I shall prove to be” New World Translation, “I will be-there howsoever I will be-there.”The Shocken Bible, Everett Fox, “I shall come to be just as I am coming to be” Concordant Version of the Old Testament; “I will be-there howsoever I will be-there.” The Five Books of Moses, The Shocken Bible, “I Will Become whatsoever I please.” Rotherham. Non discuteremo qui nei dettagli queste diverse proposte, le assumiamo semplicemente come sintomo di una difficoltà.
[40] Per una discussione, vedi Francesca Albertini, op. cit.
[41] Cit. ivi
[42] Così The Torah, A modern commenrtary, Gunther Plaut, ed. , Union of American Hebrew Congregations, New York, 1981
[43] Per la prima volta il Tetragramma appare in un’enunciazione enunciata a Gn.4,1, nell’enigmatica frase di Eva che ho già citato a proposito del nome di Caino “Ho acquistato un uomo con Y-H-V-H“. Ma,come quasi sempre in questi dialoghi, è solo, non accompagnato dal nome Elo-hìm.
[44] Gn.2,4: “Queste sono le origini del cielo e della terra quando furono creati, nel giorno in cui Y-H-V-H Elo-hìm fece terra e cielo”
[45] E teologicamente critica, come mi ha atto notare in un colloquio Haim Bharier, perché potrebbe far pensare a una sorta di incarnazione o di mascheramento del Dio della legge nella forma di un Dio della misericordia. Ma il rischio è che questa direzione di identità, se fosse presa in maniera assoluta e metafisica e non come un mutamento di atteggiamento nei confronti del popolo ebraico potrebbe indicare l’assunzione di “un’identità ittizia o una maschera di misericordia”. E’ importante notare che nella Bibbibia ebraica viene stabilito anche il legame inverso fra i due nomi in un versetto di 1Re18,39 che si riferisce alla vicenda di Elia dove si legge: “Y-H-V-H è Elo-hìm“, Y-H-V-H hu haElo-hìm., Questo versetto viene usato, ripetuto dieci volte, per concludere la liturgia della più importate festività ebrica, Yom Kippur. Vale anche la pena di notare che la stessa direzione dell’equazione fra i due nomi è proclamata nella principale dichiarazione di fede ebraica, lo “Ascolta Israele”, shemàYisrael, dove si afferma che “Y-H-V-H è il nostro Elo-hìm, Y-H-V-H è uno” (un’altra traduzione è: unico). Quel che si sembra sottolineare con queste formulazioni è che l’aspetto divino della misericordia genera quello delle regole, cioè in definitiva che la Legge è un aspetto della misericordia divina; non si parla invece di un Dio severo che a unn certo punto prenda la maschera della misericordia.
[46] La vocale o in ebraico, normalmente non scritta come tutte le vocali, viene indicata di solito in certe parole da una lettera vav che opportunamente completata da un segno di vocalizzazione darebbe l’indicazione del suono. L’esistenza di consonanti usate solo per veicolare un suono vovalico (dette matres lectionis) è una caratteristica dell’ebraico. Ma la vocalizzazione può stare anche senza la mater lectionis e le parole che normalmente ne sarebbero fornite ma in un certo caso sono scritte senza di esse sono dette difettive. Questa caratteristica ortografica, che viene riprodotta rigorosamente su tutte le copie del testo biblico, è giudicata dall’ermeneutica ebraica un fatto significativo, suscettibile di interpretazione: come se in italiano si traessero conclusioni semantiche dall’uso della “d” eufonica in “ed”, “ad” ecc. Per una riflessione su questo carattere di interpretazione totale e sul primato del significante che ne segue nell’interpretazione ebraica, si veda il cap. VI delle mie Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2008.
[47] E’ un’osservazione che devo a Haim Cipriani.
[48] Su questo punto e sulle sue conseguenze teoriche, vedi Emmanuel Levinas, L’au-delà du verset, cit., cap. VIII. I nomi che è proibito cancellare sono sette: E-l, Elo-hìm, Ad-onai, Y-H-W-H, Ehyeh-Asher-Ehyeh, Shaddai e Tzevaot (quest’ultimo è il solo che non discutiamo in queste pagine). La proibizione dell’interruzione riguarda però solo il Tetragramma, stabilendo così una “gradazione” (Lévinas). Vi sono poi dei nomi di dimensione maggiore, usati in contesti più mistici che liturgici. Vi è infine la convinzione cabbalistica che l’intera Torah sia un nume divino, o il suo anagramma. Di qui il lavoro combinatorio della cabala di Abulafia e dei suoi allievi, su cui si può utilmente consultare il lavoro di Sholem. Noi non ci occuperemo qui di questi aspetti.
[49] Appare nella Torah in Lev.24,11.
[50] Non l’ebraico, dove kadòsh traduce entrambi i termini, tant’è che la famosa esortazione “Siate santi, percé io sono santo” “Lev, 19,2 suona kedoshìm tihejù ki kadòsh anì. Kadòsh appare qui tanto nel senso di separato dall’impurità, quanto in quello di moralmente inappuntabile. Il legame è problematico, dato che molte situazioni normalmente connesse al ciclo della vita sono impure per la Bibbia, come la nascita, le mestruazioni, la morte ecc. La mediazione, come suggerisce Samson Raphael Hirsh, uno dei grandi maestri dell’ebraismo moderno sta nel controllo: La kedushà “consiste nel fatto che un essere umano moralmente libero abbia completo controllo sulle sue energie e inclinazioni e sulle attrazioni e sulle tendenze che vi sono associate e le collochi al servizio di Dio” Commento al Pentateuco, Judaica Press 1990, ad. loc.
[51] Si veda una discussione di questo punto nel cap. V delle mie Lezioni di filosofia della comunicazione, cit.
[52] Per una spiegazione di questo concetto, vedi la nota 45. Rimando alla nota 13 per l’idea originale e problematica del linguista Joel Hoffman secondo cui il Tetrragramma sarebbe composto proprio di matres lectionis per marcare l’importanza della scrittura come identità ebraica.
[53] Quest’ultima è anche la lettura di Spinoza, nel secondo capitolo del Trattato teologico politico, trad. it Utet, Torino 1972, p. 430.
[54] Salmo 105, 1-3; 116, 13-17; Proverbi 18,10; Ruth 2, 4
[55] Salvo che si immagini, come secondo Ibn Ezra avrebbe fatto Rabbi Jehoshua, che queste occorrenze siano interpolazioni anacronistiche alla narrazione fatte da Mosé.
[56] Gunther Plaut (ed.), The Torah, a modern commentary, p. 424, traduzione mia
[57]Una curiosità è che in tutti e tre questi passi la Vulgata traduce Shaddai “omnipotens”, mentre la LXX non traduce questa parola, sostituendola con un pronome possessivo mou, oppure sou oppure on auton: “il tuo, il suo, il loro stesso” theos. Difficile capire la ragione di questo rifiuto.
[58] Riassunto così dal Rambàn. Per il riferimento di questa citazione e di quella successiva, vedi la nota 19
[59] Secondo un suggerimento di Haim Cipriani
[60] “Siate santi come Io sono santo”, Lev. 19,2 ; “Se ascolterete la mia voce e osserverete il mio patto, voi sarete la mia proprietà particolare fra tutti i popoli[…] farò di voi un regno di sacerdoti, una nazione consacrata” Es. 19, 5-6
[61] Cfr. L’ugaritico El, il babilonese Ilu e naturalmente l’arabo Allah.
[62] Oppure she dai che basta, che non ha bisogno di null’altro: un nome che alluderebbe dunque al monoteismo
[63] Il che, come mi ha fatto notare Haim Cipriani suggerisce l’idea di un divino completo e autoreferenziale, che cioè si nutre da solo, oltre che provvido.
[64] In quasi tutte le edizioni moderne (in qualche caso inglese è presence) e anche nella Vulgata. I LXX scrivono doxa.
[65] Ma nache “interiorità a interiorità” visto che le lettere del testo si possono leggere anche penìm (suggerimento di Haim Cipriani)
[66] Ma Rashì, citando i commenti rabbinici dice che si tratta del nodo posteriore dei filatteri… immagine antrpomorfica che fa di Dio un pio ebreo che prega secondo la sua legge, a sua volta tutta da interpretare.
[67] Versetto 19; questa è la traduzione letterale, visto che nel testo è scritto kol tovì; ma la LXX parla ancora di doxa, rendendo inintellegibile la contrapposizione e l’edizione della CEI dice “il mio splendore”.
[68] Ma prima, nello stesso versetto 19 vi è un’altra doppia clausola molto interessante, perché al di là dell’apparenza linguistica che qui non possiamo analizzare è perfettamente parallela al nostro ehjè asher ehjè: “Perdonerò a chi perdonerò e avrò misericordia di chi avrò misericordia” vehannòti et ashèr ahòn verichàmti et ashèr rihàmti. Non è possibile approfondire neanche il significato di quest’altra doppia tautologia al futuro (che in tutta la torah non trova altri riscontri). dato che non ha altre giustificazioni nel testo è evidente comunque che si tratta di un’affermazione parallela a quella di Es.3,14 posta strategicamente prima della proclamazione degli attributi di Y-H-V-H: un’altra affermazione della libertà divina, ma anche dell’accompagnamento di Dio.
[69] Per chiarezza li numeriamo qui secondo i termini usati la traduzione più diffusa, che differisce in parte da quella di De Luca usata finora: 1) Y-H-V-H 2) [è] Y-H-V-H, 3) Dio 4) misericordioso 5) longanime 6) lento nell’indignarsi 7) pieno di bontà 8) verace 9) conserva il favore per 1000 generazioni 10) disposto al perdono della colpa 11) e dell’errore 12)e della ribellione 13) ma non assolve.
[70] Sui numeri 10 e 13 che definiscono questi attributi si è costruita una fitta rete di rimandi nella tradizione ebraica in particolare cabalistica: dieci sono oltre agli attributi diversi dai nomi, le “parole” (dibberòt nella tradizionale traduzione europea i Comandamenti), le diciture divine della creazione, e anche le sefiròt, gli aspetti divini visualizzati in uno schema ad albero che furono uno degli oggetti preferiti della speculazione cabalistica: tredici invece sono oltre agli attributi anche i principi ermeneutici del Talmud, tanto codificati da entrare nella liturgia quotidiana. Tredici è anche il valore numerico della parola echàd, “uno” o “unico”, che è usata nella proclamazione del monoteismo nella principale dichiarazione di fede ebraica, lo shemà (“Ascolta Israele”) che ogni buon ebreo ripete diverse volte al giorno. Il valore numerico (ghimatria) è una tecnica interpretativa diffusissima nella tradizione ebraica che parte dal fatto che le lettere possono essere usate come cifre, in analogia alla numerazione romana. Si ritiene che il valore numerico di una parola sia uno strato del suo senso, per cui per esempio due parole con la stessa ghimatria sarebbero sottilmente imparentate sul piano semantico.Non abbiamo qui la possibilità di occuparci di tali corrispondenze.
[71] Per l’elenco vedi la nota 69
[72] Per una giustificazione più ampia di tale aspetto, si veda il cap. 5 delle mie Lezioni di filosofie della comunicazione cit.
[73]Il che è stato puntualmente fatto, anche se per burla: cfr. Jean-Baptiste Pérès, Richard Whately e Aristarchus Newlight, L’imperatore inesistente, Sellerio, Palermo 1989
[74] Oltre ai saggi di Sacchi e Grottanelli nel volume a cura di Giovanni Filoramo, Ebraismo, citato sopra, si veda il classico di Richard Elliott Friedman, Who wrote the Bible?, Summmit Books, New York 1987 (trad. it. Boringhieri, Torino 1991), le cui attribuzioni sono completamente diverse da quelle degli autori italiani citati (e che a proposito del nostro brano scrive “partendo da Es. 3,16, risulta quanto mai problematico assegnare a J o a E la porzione non sacerdotale del racconto di Mosé in Egitto”). Per una posizione ancora diversa si veda Mark S. Smith The origins of Biblical Monotheism, Oxford Un. Press, Oxford, 2001