Per gli ebrei è la città santa, per Hamas solo un semplice obiettivo da distruggere
Eravamo alla seconda strofa del canto mistico Yedid Nefesh, il pyut che in alcuni riti accompagna il pubblico verso l’accoglienza dello Shabbat. Stavamo per concluderla, richiamando la gioia eterna che avrebbe avvolto l’anima quando il gelo ha fermato le nostre voci. Il gelo della sirena. Il gelo del segno di un inverno nel quale gli abitanti del Sud di Israele si trovano ormai da anni. La mia prima sirena.
Il primo trauma non solo per me ma per molti abitanti di Gerusalemme colpiti nell’immaginario prima ancora che nelle loro vite da quella che gli analisti hanno sottolineato come una grande novità militare: il coinvolgimento dell’aerea di Gerusalemme nel lancio dei missili di Hamas. Durante il lungo suono della sirena personalmente non ho avuto tempo di analisi storiche o militari. Ho a malapena continuato a respirare, a cantare, a prendere per mano mio figlio Joshua e portarlo, per quanto serenamente, nella sala antimissile della costruzione nella quale ci trovavamo. Nessuno, tra coloro che stavano pregando, ha interrotto il suo canto: testardamente, in lacrime, serenamente, con rabbia, con tristezza, con angoscia, nessuno ha cambiato il proprio tono. Un codice sottile di sguardi però univa tutti nell’ansia del momento e nel pensiero fatale: “Sanno arrivare anche a Gerusalemme!”
Chi legge questa frase senza una adeguata consapevolezza potrebbe pensare ad un gruppo di abitanti viziati della capitale che hanno sempre considerato la guerra come una cosa da “Sud” di Israele, un problema di Beer Sheva, Ashkelon, Ashdod, Sderot… le cose non stanno in questo modo. Il trauma della sirena a Gerusalemme è indice di molte altre riflessioni, di un vento freddo che improvvisamente ha spalancato in una sola volta, con un solo soffio alcune delle innocenti certezze degli abitanti della capitale.
Gerusalemme non è una città santa per gli arabi. Non è nei loro pensieri come è nei nostri, non è nelle loro preghiere come nelle nostre, non è nei loro cuori come nei nostri, non è sulla loro lingua come nella nostra. Gerusalemme non ha per loro nessun diritto inalienabile, Gerusalemme per loro è un obiettivo come un altro, come lo fu per l’imperatore Adriano, pagano e romano, che la rase al suolo perché per lui era solo una città nemica, non Gerusalemme.
Gli arabi voltano le spalle a Gerusalemme quando pregano per indirizzarsi verso la Mecca. Hamas è pronta a sparare su Gerusalemme, pronta anche a sparare sulla moschea dalla cupola d’oro, sui fratelli mussulmani che vivono ad Est pur di tentare di ammazzare un nemico non mussulmano di Gerusalemme ovest. Quanta distanza etica tra questo approccio e quello di chi cerca, come Israele, di colpire solo obiettivi militari.
Gerusalemme non è per il mondo arabo un respiro dell’anima, uno stato del pensiero, un sospiro atavico. Da venerdì scorso i palestinesi di Hamas hanno dimostrato al mondo che Gerusalemme è un obiettivo militare. Come Sderot, come Ashkelon, senza alcuna differenza. Che il mondo segni e ricordi questa data, che il mondo tenga impresso nella mente questo missile quando ai prossimi negoziati di pace verrà risollevata la “questione di Gerusalemme”. Che il mondo cristiano e cattolico in particolare ricordi il silenzio del Pontefice nell’Angelus di questa domenica 18 novembre 2012, perché dopo due giorni, dal missile che ha minacciato il cuore delle nostre tre fedi, dal cuore di Roma non è stata detta una parola per Gerusalemme ed a difendere, questo luogo, le nostre fedi ed il nostro cuore, restano solo gli ebrei e la loro santa testardaggine. Una difesa che non è solo nostra, ma salvaguardia ogni singola libertà della quale godiamo in Occidente, a cominciare da quella di religione. Perché Gerusalemme è capitale indiscussa di Israele, ma è pupilla dell’occhio del mondo, suo cuore, suo respiro eterno.
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