Non tutte le memorie sono uguali. Osserva il Sefer ha-Chinnukh (prec. 603) che c’è una differenza fondamentale fra la memoria dell’Uscita dall’Egitto e la memoria di ciò che ci fece ‘Amaleq. La memoria della Yetziat Mitzrayim deve essere evocata quotidianamente, giorno e notte (Mishnah Berakhot 1,4; Rashì a Shemot 13,3), perché rappresenta un fondamento del nostro credo: l’affermazione dell’autorità Divina sul mondo. Nel caso di ‘Amaleq è invece sufficiente che il suo odio nei nostri confronti non sia dimenticato dai nostri cuori.
A questo scopo basta ricordarlo una volta all’anno. I nostri Maestri hanno fissato l’appuntamento con questa Mitzwah, che per la Torah non ha un tempo fisso, per lo Shabbat che precede Purim. Haman, l’oppressore che nella Meghillat Ester voleva ucciderci tutti, è infatti un discendente di ‘Amaleq: prima di festeggiare il miracolo della liberazione è giusto e doveroso esercitare il dovere della memoria e questo Shabbat è così chiamato Shabbat Zakhor (Berakhot 21b; Maimonide, Hil. Melakhim 1). Negli anni di dodici mesi come questo Shabbat Zakhor coincide con la Parashat Tetzawweh.
La memoria, peraltro, non è un esercizio puramente mentale. Il brano speciale che leggiamo nel secondo Sefer comincia con la parola Zakhor (“Ricorda ciò che ti ha fatto ‘Amaleq” – Devarim 25, 17-19) e termina con l’espressione lo tishkach (“non dimenticarlo”), che appare pleonastica. I Maestri del Talmud spiegano l’apparente ripetizione. Ci sono due modalità. “Non dimenticarlo” si riferisce al cuore. Zakhor (“ricorda!”), l’imperativo iniziale, deve invece riferirsi alla bocca (Sifrè, Meghillah 18a). Se vogliamo cioè garantirci che il ricordo del Male non svanisca dai nostri cuori è essenziale che la memoria sia esercitata anche attraverso l’espressione verbale, il racconto e la testimonianza viva. La lettura della Meghillah è a sua volta parte di questa Mitzwah. Anche gli eventi che diedero origine alla festa di Purim “vanno ricordati e messi in pratica in ogni generazione” (Est. 9,28). In epoca recente i Decisori si sono domandati se la rievocazione di quegli eventi, la lettura appunto, può essere eseguita mediante l’uso di mezzi tecnici, in maniera da raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile. Proporre una lettura della Meghillah registrata o eseguita attraverso il telefono non serve allo scopo (Resp. Mishpetè ‘Uzziel, Orach Chayim 5 e 21). E’ necessaria la presenza di una bocca che legge nel luogo e nel momento in cui ascoltiamo, altrimenti la trasmissione della memoria diviene un fatto artificioso e perde forza. La domanda è stata posta piuttosto nel modo seguente: si esce d’obbligo ascoltando la lettura della Meghillat Ester effettuata mediante il microfono?
I grandi Decisori esprimono parere negativo. Il microfono è una novità tecnologica e ciò suscita perplessità. Rav Moshe Feinstein (Resp. Iggherot Moshe, Orach Chayim 2,108; 4,126) viene posto di fronte al caso di una scuola nella quale la richiesta era di eseguire la lettura al microfono a beneficio delle ragazze che altrimenti non avrebbero sentito. Purim cadeva allora di Sabato Sera come quest’anno e la sala da pranzo non era stata ancora sgombrata dagli avanzi dello Shabbat. Egli rispose che sarebbe stato preferibile eseguire due letture in contemporanea, una nel Bet ha-Kenesset della scuola per i ragazzi e l’altra nella sala da pranzo per le ragazze pur di evitare il problema dell’amplificazione, anche se ciò avesse comportato un’interruzione della Tefillat ‘Arvit per riordinare la sala da pranzo in vista della lettura. Non avrebbe costituito differenza alcuna il fatto che l’uso del microfono fosse destinato all’ascolto delle ragazze: le donne hanno l’obbligo di seguire la lettura della Meghillah al pari degli uomini, perché “anch’esse a suo tempo beneficiarono dello stesso miracolo” (af hen hayu be-otò nes).
Rav Eli’ezer Waldenberg (Resp. Tzitz Eli’ezer 4,26) aggiunge ai dubbi tecnici di cui si parlerà fra un attimo un argomento di fondo: il fatto che il microfono viene spesso adoperato per spettacoli frivoli e male si adatta l’introduzione di un impianto di amplificazione radio nel Bet ha-Kenesset con la sua atmosfera di qedushah. Ma la questione principale resta legata al funzionamento dell’impianto stesso. Da un lato si può argomentare che la voce riprodotta attraverso il microfono non è la voce originale di chi parla, legge o canta. Quest’ultima verrebbe riprodotta dal macchinario a una frequenza superiore per facilitare l’ascolto a distanza utilizzando tecniche diverse, tali comunque da farci ammettere che gli ascoltatori non odono più la voce della persona, ma la voce dello strumento. In questo caso è come se ascoltassero la Meghillah da qualcuno che non ha l’obbligo di leggerla e la regola è che “chi non ha un certo obbligo non fa uscire altri dal medesimo obbligo” (kol she-eynò mechuyyav be-davar eynò motzì et ha-rabbim yedè chovatam – Rosh ha-Shanah 3,8). D’altro lato si può controbattere che l’impianto entra in funzione solo sotto l’impulso acustico diretto della voce di chi parla e che quindi è un’emanazione diretta di quest’ultima.
Rav ‘Ovadyah Yossef (Resp. Yechawweh Da’at 3,54) propone una soluzione di compromesso. Egli sostiene che chi si trova rispetto al microfono a una distanza tale da essere in grado di seguire la lettura dalla viva voce di chi la pronuncia anche se l’amplificazione non fosse attivata, esce d’obbligo comunque. Lo impara per analogia da una Mishnah che parla del suono dello Shofar. “(Nel caso di) chi suona all’interno di un pozzo o all’interno di una cisterna o all’interno di un barile, se si sente il suono dello Shofar si esce d’obbligo, se invece si sente l’eco (cioè un suono indiretto) non si esce d’obbligo” (Rosh ha-Shanah 3,7). Rav Hay Gaon spiega che questa Mishnah fu insegnata in un’epoca di persecuzioni, in cui i dominatori cercavano di impedire l’osservanza delle Mitzwot. Gli ebrei quindi si nascondevano in pozzi e caverne per compiere il proprio dovere verso H. Il Talmud puntualizza che coloro che si trovano dentro al pozzo o alla cisterna insieme al toqea’ certamente odono il suono dello Shofar ed escono d’obbligo, mentre la Mishnah si riferisce a coloro che stanno all’esterno e persino sul bordo del pozzo. In questo caso occorre distinguere: se odono il suono originale dello Shofar provenire dall’interno escono d’obbligo, altrimenti no. Così stabilisce la Halakhah Maimonide (Hil. Shofar 1,8).
Anche Resp. Be-Mar’eh ha-Bazaq 1,26 e 5,62 condivide l’impostazione del Rav ‘Ovadyah Yossef. Ma la lettura che Maimonide dà della Mishnah non è l’unica possibile. Rosh sostiene infatti che una persona non riesce a distinguere fra il suono originale e la sua eco: pertanto solo chi sta dentro il pozzo certamente ha udito il suono originale dello Shofar ed è uscito d’obbligo, mentre chi si trova all’esterno si presuppone in ogni caso che abbia percepito solo l’eco e quindi non ha assolto il suo dovere. Ammesso dunque che la lettura della Meghillat Ester sia paragonabile al suono dello Shofar, la soluzione qui proposta è di dubbia utilità. Si esce d’obbligo dalla Meghillah soltanto se la si ascolta direttamente dalla viva voce di chi la legge, senza l’ausilio di altoparlanti. Aldilà di ogni tecnicismo, ritengo che per comprendere la Halakhah sia utile tornare al tema della memoria da cui siamo partiti e fare due considerazioni. Anzitutto la memoria autentica si trasmette da persona a persona senza dover passare attraverso artifici. Inoltre la memoria autentica non ha bisogno di amplificazioni. Semplicemente si impone da sé.