Torino, 13.5.2021
Nel suo ultimo volume Rav Sacks intende rivolgersi alla società nel suo complesso, per questo sceglie di attingere a un bacino di fonti meno indirizzato alla tradizione ebraica rispetto ai volumi precedenti. Nella prefazione (pp.12-15) Rav Sacks ricorda alcuni momenti dei suoi ultimi anni di vita, il conferimento del Templetone Prize del 2016, la conferenza TED tenuta a Vancouver nel 2017, la lunghissima collaborazione con la BBC in radio e in TV. Possiamo comprendere così il peso eccezionale di Rav Sacks nel mondo e nella cultura anglosassone.
In questo testo Rav Sacks torna al suo primo amore, la filosofia morale. In modo particolare intende restituire dignità a questo bistrattato comparto della filosofia. Il titolo dell’opera riprende quello che Bernard Williams, maestro di Rav Sacks, scrisse nel 1971. Nella prefazione Rav Sacks condivide la sua ammirazione per Alasdair MacIntyre, che in Dopo la virtù scrive che, anche se continuiamo a utilizzare un linguaggio morale, abbiamo, ampiamente se non completamente, perso la comprensione, sia teorica che pratica, della moralità. Tuttavia Rav Sacks sottolinea una differenza fondamentale con MacIntyre, la cui opera è permeata di un soffuso pessimismo. In Sacks invece c’è la predisposizione tipicamente ebraica alla speranza. La speranza, nota giustamente Rav Sacks è inscritta nella natura, che comprende una gamma sorprendente di entità che guariscono quanto è stato danneggiato. Queste forze sono inglobate nella vita, e questa è la base empirica della speranza (p.38). In un passaggio molto affascinante (pp. 239-240) viene citato Jack Miles, che in D., una biografia, opera una distinzione fra la tragedia greca e quella shakespeariana; nella tragedia greca il fato è determinato da fattori esterni a colui che agisce, al di fuori del suo controllo, mentre nella tragedia shakespeariana questi fattori sono interni. Senso di colpa, pentimento e responsabilità originano una cultura della speranza. Abbiamo sempre la facoltà di scegliere, non c’è un destino predeterminato. La nostra società, così come le nostre comunità, devono intraprendere un serio esame di coscienza e indirizzarsi verso un recupero della moralità. Rav Sacks incastona una serie di riferimenti biblici a considerazioni di ordine generale in un passo molto bello nella prefazione del libro:
Ama il tuo prossimo. Ama lo straniero. Ascolta il grido di chi altrimenti è inascoltato. Affranca il povero dalla povertà. Abbi a cuore la dignità di tutti. Fa’ che coloro che hanno più di quanto abbiano necessità condividano le loro benedizioni con coloro che hanno meno. Dai da mangiare agli affamati, dai una casa a chi non ce l’ha e cura i malati nel corpo e nell’anima. Combatti l’ingiustizia, da chiunque sia praticata e contro chiunque sia perpetrata. E fai queste cose perché, essendo umani, siamo moralmente obbligati da un patto di solidarietà umana, indipendentemente dal colore della pelle o dalla cultura, dal ceto o dal credo religioso (pp. 10-11).
e poi:
Quando ci spostiamo dalla politica dell’«Io» a quella del «Noi», riscopriamo quelle verità contro-intuitive che trasformano la vita: che un paese è forte quando si prende cura dei deboli, che diventa ricco quando si occupa dei poveri, che diventa invulnerabile quando presta attenzione ai vulnerabili (pp. 38-39).
Perché è tanto fondamentale adoperarsi per recuperare la moralità? Rav Sacks esprime questo concetto usando un suo cavallo di battaglia: la moralità funziona secondo modalità totalmente differente rispetto al mercato e allo Stato, che sono fondamentalmente dei giochi a somma zero, se io vinco tu perdi. Se ho mille sterline e le divido con altre nove persone, alla fine avrò 100 sterline. Per i beni sociali non vale questa logica, più li condividiamo più ne abbiamo (p. 36). Mercato e stato sono arene di competizione, mentre la moralità è un ambito di cooperazione.
Per recuperare la moralità un passaggio fondamentale è rappresentato dal rafforzamento del Noi. Viviamo in un’epoca in cui c’è molto Io e troppo poco noi. Quando si parla del noi ci si riferisce a quella forza in grado di dire no al Me individuale a vantaggio del Noi collettivo. È possibile chiamarla coscienza, Super-io, costumi e tradizione, legge naturale o volontà e parola di D. (p. 29). Questa visione delle cose, nella quale al noi viene riconosciuto uno spazio angusto e limitato, nel mutamento climatico culturale che stiamo vivendo, porta a delle conseguenze disastrose. In un’epoca di inaudite possibilità, le persone si sentiranno vulnerabili e sole. Questo è molto paradossale, perché tantissimi indicatori ci suggeriscono che non potremmo trovarci in un mondo migliore. Abbiamo una grande quantità di opportunità che i nostri nonni non si sarebbero neppure sognati. Realtà come povertà, fame, analfabetismo, morte precoce non sono mai affrontate con tanto successo come in questa epoca. Ci attenderemmo un aumento della felicità, ma è tutt’altro che così. Abbiamo sempre un senso di insoddisfazione, perché non teniamo conto dell’unica cosa che può garantire una felicità duratura, aspetto che Rav Sacks ha affrontato in varie sedi: rendere migliore la vita altrui. A tale scopo è necessario uscire da se stessi, per considerare oggettivamente i propri desideri e istinti e valutare il potere dell’aiuto che può giungere dall’esterno. Nel secondo capitolo del libro (pp. 57-68) Rav Sacks fornisce due potenti esempi, ricordando il lavoro che Victor Frankl fece nei campi nazisti, e quanto, dopo la guerra, fece Ludwig Guttman, che rivoluzionò letteralmente il modo di curare i pazienti paraplegici proprio in forza di quanto patito nei campi nazisti. Non vide nei malati degli storpi moribondi, ma il meglio degli uomini, e ciò cambiò totalmente la loro vita, conducendo alcuni anni dopo all’istituzione delle Paralimpiadi. Cose che ai nostri nonni sembravano invece semplicissime, sposarsi, rimanere sposati, far parte di una comunità, avere un forte senso di identità, sentirsi in continuità con il passato prima della nostra nascita e con il futuro dopo che non ci saremo più, a noi sembrano terribilmente difficili (p. 54). La nostra società ha perso di vista delle verità fondamentali: non siamo macchine, ma persone, e le persone sopravvivono prendendosi cura reciprocamente. Come scrive Robert Hall «la verità è che le relazioni umane sono la risorsa più preziosa e creatrice di valori di qualunque società» (p. 108). Si registra invece in moltissimi ambiti una crescita dell’acredine. Un esempio notevole è quello delle elezioni americane. Secondo una ricerca il 15% degli americani ha smesso di parlare con un parente o con un caro amico in conseguenza delle elezioni. Le presidenziali del 2016 hanno poi inaugurato l’epoca della post verità, in un contesto in cui i social media hanno dato voce a tutti, comportando una significativa perdita di educazione nel discorso pubblico (p. 28). Allo stesso modo abbiamo perso la predisposizione, e persino gli spazi, per il dibattito. Rav Sacks ricorda (p. 215) una deliziosa storia relativa a R. Yochanan e Resh Lakish. Il loro rapporto era molto affascinante. Una volta erano in disaccordo su una questione legale, R. Yochanan umiliò Resh Lakish, che si ammalò e morì. R. Yochanan era addolorato e i maestri temettero per la sua salute mentale e gli cercarono un altro compagno di studi, R. Elazar ben Pedat, che nello studio però trovava sempre delle fonti a sostegno di quanto sosteneva R. Yochanan, che era molto risentito per via di questo atteggiamento. Resh Lakish gli poneva infinite obiezioni, alle quali rispondeva, e in questo modo la comprensione veniva affinata. La ricerca della verità dipende in maniera determinante dalla discussione civile. Il sedicesimo capitolo (pp. 250-263) porta un titolo che fa scorrere un brivido lungo la schiena, La morte della civiltà. Viene affrontato un tema, quello del “cenare con l’opposizione”, che nella politica attuale sembra essere assolutamente tabù. La tradizione ebraica ha sempre insistito sul valore del discutere insieme. Rav Sacks pone tre principi fondamentali per costruire una civiltà (p. 262):
1. Perché ci sia giustizia, tutte le parti devono essere ascoltate.
2. La verità sulla terra non può aspirare ad essere come la verità in cielo. Tutta la verità sulla terra rappresenta una prospettiva, e ci sono molteplici prospettive.
3. L’alternativa alla discussione è la violenza. Ecco perché la discussione deve continuare e non cessare mai.
È indispensabile operare anche un ripensamento dell’economia, che deve recuperare il proprio collegamento con le relazioni umane e divenire una socioeconomia, interessandosi anche del proprio impatto sociale (p. 26).
Come siamo arrivati a questo punto? Abbiamo assistito negli ultimi decenni a diverse rivoluzioni, negli anni ‘60 la rivoluzione liberale, negli anni ‘80 la rivoluzione economica, negli anni ‘90 quella tecnologica. Come conseguenze di tali rivoluzioni la moralità ha ceduto il passo all’autonomia, gli Stati hanno diminuito sensibilmente le loro interferenze sui mercati, e la natura dei nostri incontri interpersonali si è modificata significativamente (p. 31).
Cosa succede nelle comunità?
Una considerevole parte della storia umana ha beneficiato di una moralità condivisa offerta dalla religione, nell’ultimo mezzo secolo la situazione è divenuta, per usare un eufemismo, molto più ingarbugliata. Rav Sacks cita Lord Devlin (p. 172), che nel lontano 1959 sosteneva che una moralità condivisa è essenziale per la società. Senza idee condivise sulla politica, la morale e l’etica non può esistere nessuna società. La stessa idea molto prima veniva espressa da de Toqueville (p. 305):
Senza idee comuni non vi è alcuna azione comune, e senza un’azione comune possono esserci ancora uomini, ma non c’è alcun organismo sociale. Perché una società esista e, a fortiori, perché una società prosperi, è necessario che le menti di tutti i cittadini vengano unite e tenute assieme da alcune idee principali…
Il professor Robert Putnam di Harvard si è speso molto per documentare la perdita di capitale sociale in America. Un suo famoso volume è intitolato Bowling alone: sempre più gente gioca a bowling, ma sempre meno persone lo fanno in squadra. In tanti ambiti le persone fanno da sole quello che un tempo facevano assieme (p. 43). Sarà banale affermarlo, ma la pandemia non ha fatto altro che accentuare questa tendenza. La nostra dipendenza dai social si è senz’altro accresciuta, e, quando sarà possibile, sarà opportuno disintossicarsi, perché i social esercitano su di noi una pessima influenza. Rav Sacks (p.69) racconta di una signora della Silicon Valley che aveva deciso assieme ai figli, ormai dipendenti dagli schermi, di avere un giorno alla settimana, nel quale avrebbero fatto a meno di qualsiasi schermo, che avrebbero chiamato Shabbat. Ci troviamo nel bel mezzo di una rivoluzione paragonabile a quella legata all’invenzione della stampa, che ha molti lati positivi, ma provoca alcuni problemi relazionali alle persone, in modo particolare ai più giovani, che passano molte ore al giorno davanti a uno schermo (p 71). Un altro fenomeno estremamente preoccupante (cap. 4) è quello dell’abbandono della famiglia. Tutti sappiamo quanto sia centrale la famiglia nell’ebraismo, quale sia il ruolo delle celebrazioni familiari negli Shabbatot e nelle feste. Famiglie forti creano comunità in grado di adattarsi. La famiglia è il primo e più significativo esempio di un patto, che non è un contratto. Nei secoli vissuti in diaspora il popolo ebraico ha resistito grazie al senso della famiglia, il senso di comunità e la fede. Rav Sacks narra della registrazione di un programma per la BBC sulla famiglia in Gran Bretagna, quando portò Penelope Leach, maggiore esperto nell’assistenza all’infanzia in Gran Bretagna, in una scuola elementare un venerdì mattina. Vide una mamma e un papà di cinque anni, che benedicevano figli di cinque anni, alla presenza di nonni di cinque anni. L’esperta, incantata da questa organizzazione, chiese a un bambino cosa amasse di più del Sabato. Questo rispose: è la sola sera della settimana in cui papà non deve scappare via. Alla fine della registrazione, andando via, l’esperta disse: Rabbino capo, questo vostro Shabbat sta salvando il matrimonio dei loro genitori. In un altro passo (p.142) Rav Sacks considera il Sabato un antidoto mirato, con la sua cadenza settimanale, alla mentalità del mercato. È dedicato alle cose che hanno un valore, ma non hanno un prezzo. È al massimo grado il giorno senza mercato. È un giorno in cui celebriamo le relazioni umane. La descrizione fornita è molto ispiratrice:
I mariti cantano un canto di lode alle mogli. I genitori benedicono i figli. Ci concediamo il tempo per un pasto insieme alla famiglia e agli amici. In Sinagoga rinnoviamo il nostro senso della comunità. Le persone condividono le loro gioie… con gli altri. Le persone in lutto trovano conforto al loro dolore. Studiamo la Bibbia insieme, ricordando a noi stessi la storia di cui siamo parte. Preghiamo insieme, ringraziando D. per i doni che ci ha dato.
Nel settimo capitolo Rav Sacks affronta il tema dei mercati. Sebbene risulti evidente a tutti che le comunità abbiano dinamiche molto differenti dai mercati è importante sottolineare un punto, che il riguarda il rapporto fra gli amministratori e i membri delle comunità (p. 126):
I mercati furono creati per essere al nostro servizio, non viceversa. L’economia ha bisogno di etica. I mercati non sopravvivono con le sole forze dei mercati. Essi dipendono del rispetto per le persone coinvolte nelle nostre decisioni.
Rav Sacks ritorna sul concetto nel capitolo dedicato alla felicità (p. 143): sebbene il mercato produca innegabili vantaggi, abbiamo bisogno di spazi nella nostra vita che siano protetti da esso. La nostra umanità è più importante della nostra redditività. Il nostro mondo gioca sulla polarità di due dinamiche molto diverse fra di loro, la competizione e la cooperazione; mentre lo Stato e il mercato sono basati sulla competizione, la società civile, che non è lo Stato, poggia sulla cooperazione, ed è un elemento imprescindibile per la salute della democrazia (p. 299), senza il quale si sprofonderebbe in una tirannia, gentile ma pur sempre tirannia. La situazione attuale è molto pericolosa, perché nessuna società, neppure la più grande, può sopravvivere così: quanto avvenuto alla Grecia antica, a Roma antica e all’Italia rinascimentale dovrebbe essere istruttivo. La liberazione dai freni morali ha condotto a un’esplosione di energia e creatività, ma portò poi al declino e alla caduta. Con il solo mercato e lo Stato, ma senza una società civile che ci colleghi con legami di responsabilità collettiva l’economia diviene iniqua e la politica insostenibile (p. 306). Funzionando in modo sostanzialmente diverso, la sostituzione della comunità da parte dello stato ha condotto alla sostituzione della moralità con la politica (p.353).
Secondo Rav Sacks (pp.345-346) tuttavia non è necessario disperarsi: in realtà non abbiamo bisogno di uno sforzo speciale per essere morali, che è, sotto molti aspetti la nostra modalità predefinita. Il bello è che per essere morali non abbiamo bisogno di aspettare il politico di turno, o un cambiamento a livello economico. Tutto inizia con noi, iniziando a pensare in termine di Noi e non di Io. Operare questo cambiamento climatico culturale però è più semplice rispetto al cambiamento climatico ambientale. La cultura è più locale, dobbiamo cambiare noi stessi (p. 360),
Agire moralmente. Essere interessati al benessere degli altri. Essere qualcuno di cui le persone si fidano. Dare. Fare volontariato. Ascoltare. Sorridere. Essere sensibili, generosi, premurosi. Fare una qualsiasi di queste cose significa fare una differenza immediata, non soltanto per la nostra vita, ma per coloro nelle cui vite interveniamo.
Le dinamiche proprie della vita online ci hanno portato sempre di più in contatto con persone simili a noi, mentre dobbiamo riprendere i contatti faccia a faccia con quanti sono diversi da noi (p. 362). Tutti gli interrogativi che Rav Sacks pone acquisiscono un significato particolare nel momento attuale perché il Covid ha accelerato molti processi che erano già in corso nella nostra società, e con il ritorno auspicato alla vita avremo l’occasione per riconsiderare le nostre priorità e il nostro modo di vivere (pp. 377-382). Torneremo ad essere esattamente quelli di prima? Quanto abbiamo vissuto comporterà una svolta nella storia o sarà solo una sua interruzione? La reazione che l’umanità ebbe alla prima guerra mondiale e alla spagnola fu molto diversa da quella che ebbe dopo la seconda guerra mondiale. La prima crisi condusse a un rafforzamento dell’individualismo, alla crisi del ‘29 e ai fascismi che fecero sprofondare il mondo in un altro conflitto mondiale; la seconda ci fu la sensazione diffusa che le cose dovevano cambiare. La società doveva divenire più solidale, coesa e comprensiva. Ora ci troviamo in un momento simile. La scelta è nostra e il tempo è ora.