Da una derashà di Rav Sacks
Nei suoi ultimi giorni di vita Mosheh rinnova l’alleanza fra D. e il popolo ebraico. Tutto il libro di Devarim è in fondo un resoconto del patto, spiega come è nato, quali sono i suoi termini e le sue condizioni, perché è il nucleo dell’identità ebraica, e così via. Ora arriva il momento di rinnovare il patto, una specie di referendum. Mosheh tuttavia si mostra attento a non limitare le sue parole a coloro che sono presenti. Nessuno avrebbe potuto dire: Mosheh ha stretto un patto con i nostri antenati, non con noi! I commentatori insistono nel dire che Mosheh ha stretto un patto anche con le generazioni che non sono ancora nate.
Da allora ad oggi, tutte le generazioni sono vincolate da questo patto. Questo è uno degli elementi più importanti dell’ebraismo. A parte i convertiti, nasciamo ebrei. Diventiamo adulti e siamo sottoposti al patto, ma facciamo parte dell’alleanza sin dalla nascita. Il bar mitzwah non è una conferma o un’accettazione dell’identità ebraica. Quest’ultima c’è stata già tremila e passa anni fa. Come può essere così? Sappiamo che non può esserci obbligo senza una libera accettazione. Come possiamo essere vincolati da un accordo al quale non abbiamo preso parte? Dopotutto i chakhamim espressero i medesimi dubbi sull’accettazione della Torah sul Sinai, quando dicono che il Signore rovesciò su di loro il monte. Il Talmud ribatte che il popolo ebraico accettò la Torah liberamente ai tempi di Ester. Il problema non è da poco. Come si può trasmettere l’identità ebraica di genitore in figlio? Se si trattasse di un elemento etnico, potremmo comprenderlo. Ereditiamo tante cose dai nostri genitori, anzitutto i nostri geni. Ma essere ebrei non dipende dalla genetica, è un insieme di obblighi religiosi. Un principio halachico recita: si conferisce un merito ad una persona anche in sua assenza. Essere ebrei è di certo un beneficio, ma anche una grande responsabilità, che limita fortemente la nostra capacità di scegliere. Se non fossimo ebrei, potremmo lavorare di Shabbat, mangiare cibo non kasher e così via. Allora, perché siamo ebrei? Molti risponderanno perché i miei genitori erano ebrei, i miei nonni altrettanto, e così via.
Tuttavia questa domanda divenne un problema durante l’esilio babilonese, così come narrato nel cap. 20 del libro di Ezechiele. Il popolo ebraico voleva abbracciare l’idolatria, al pari degli altri popoli. Successivamente nel II sec. A.e.v. parte del popolo ebraico voleva ellenizzarsi, poi alcuni vollero diventare romani. C’era persino che voleva nascondere gli effetti della circoncisione, per nascondere la propria ebraicità. La stessa tendenza si rivelò nuovamente nella Spagna del XV secolo, quando le persecuzioni cristiane si stavano rivelando insopportabili. Nei secoli le risposte furono molto differenti. Ezechiele rispose che il Signore avrebbe dominato irosamente su di loro. Potevano cercare di sfuggire al proprio destino, ma non sarebbero riusciti. Sarebbero stati riconosciuti sempre come ebrei, anche contro la loro volontà. E questo fu quanto tragicamente avvenne nei secoli successivi, quando l’antisemitismo razziale si diffuse in Europa. I Maestri diedero una risposta mistica: le anime di coloro che non erano ancora nati assistettero al patto. Uscendo da questa immagine, anche l’ebreo più assimilato in fondo sa di essere ebreo. C’erano ebrei molto assimilati, come Heinrich Heine, che vivevano da cristiano, ma scrivevano e pensavano come degli ebrei. I commentatori spagnoli trovavano questa risposta problematica. Noi siamo corpo e anima. Non basta dire che la nostra anima era sul Sinai. Perché l’anima potrebbe obbligare il corpo? E’ ovvio che l’anima sia d’accordo circa l’alleanza, per lei si tratta di un privilegio, ma per il corpo l’alleanza è un peso! Limita il piacere fisico! Forse però c’è una risposta più semplice al problema.
Non tutti gli obblighi che abbiamo derivano da un nostro assenso. Ci sono obblighi che vengono con la nascita, per esempio un principe ereditario, che avrà molti obblighi e responsabilità nei confronti degli altri per via della sua posizione. Può di certo trascurare i suoi doveri, anche un re può abdicare. Ma nessuno sceglie di essere un re, è un destino che arriva con la nascita. Israele è il primogenito di D. Questo può essere un onore, può essere un peso, può essere entrambi. Ma non abbiamo scelto molte cose su di noi, se nascere o meno, chi sono i nostri genitori, dove e quando vivere. Eppure ognuno di questi aspetti riguarda chi siamo e cosa siamo chiamati a fare. Sono parte di una storia che è iniziata molto prima della nostra nascita, e continuerà ancora dopo di noi, quando non saremo più qui. La domanda è se continueremo questa storia. Le speranze dei nostri antenati dipendono dalla nostra volontà. Nella nostra memoria le parole di Mosheh continuano a risuonare. Possiamo essere parte di quella storia o abbandonarla, ma è una scelta che non possiamo scansare e dalle conseguenze enormi, perché il futuro dell’alleanza dipende da noi.