Da una derashà di Rav Sacks
Con i suoi 176 versi la parashah di Nasò è la più lunga delle parashot della Torah. Nonostante ciò il suo passaggio più commovente, e quello che ha avuto maggiore fortuna nella storia, è un passo molto breve e conosciuto praticamente da tutti, la Birkat Kohanim (Bemidbar 6,23-27): “Parla ad Aron e ai suoi figli e dì loro: così benedirete i figli d’Israel, dicendo loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca; faccia luce a te la faccia del Signore e ti doni grazia. Elevi il Signore la Sua faccia a te e ti conceda pace. Essi invocheranno il Mio nome sui figli d’Israele ed Io li benedirò”. Questo è uno dei testi di preghiera più antichi in assoluto, usato dai Sacerdoti quando c’era il Bet ha-miqdash e recitato tutt’oggi. Lo recitano i genitori il venerdì sera per benedire i figli. Viene pronunciato sotto la chuppah.
E’ la più semplice e la più bella delle berakhot. Fra i testi biblici fisicamente sopravvissuti è il più antico. Infatti nel 1979 un archeologo che stava effettuando degli schiavi fuori da Yerushalaim, Gavriel Barkay, rinvenne in una caverna un migliaio di manufatti, fra cui degli amuleti, che contenevano, assieme ad altri testi, la benedizione sacerdotale. Queste piccole pergamene erano tanto fragili, che ci vollero tre anni per capire come srotolarle senza distruggerle. L’indagine scientifica ne stabilì la datazione, fissandola al VI sec. a.e.v., l’età di Geremia e della distruzione del primo Tempio. Si trattava del testo biblico più antico conosciuto, quattro secoli più antico dei Rotoli del Mar Morto. Questi piccoli amuleti possono essere ammirati al Museo d’Israele, e sono una grande testimonianza del legame del popolo ebraico con la sua terra e della continuità della fede ebraica. La potenza della birkat Kohanim deriva dalla sua semplicità e dalla sua bellezza. I suoi versi, composti da tre, cinque e sette parole, hanno una forte struttura ritmica. Il Nome Divino costituisce la seconda parola di ciascun verso. La prima parola invece si riferisce sempre ad una attività che H. compie, benedire, illuminare il volto, rivolgere il proprio volto verso qualcuno.
La seconda parte del verso descrive l’effetto della benedizione su di noi, che beneficiamo di protezione, grazia, pace. I commentatori spiegano che tali effetti hanno a loro volta una crescita progressiva. La prima benedizione infatti si riferisce ad aspetti materiali, il sostentamento e la salute fisica. La seconda benedizione richiama invece l’abito morale. La grazia è quanto mostriamo agli altri, e gli altri a noi. Riguarda i rapporti interpersonali. Quello che chiediamo ad H. è di concedere a noi e agli altri un po’ della Sua grazia affinché possiamo vivere assieme senza i conflitti e l’invidia che possono distruggere la nostra vita relazionale. Il terzo aspetto è quello più interiore. Si racconta che una volta un gruppo nutrito di persone si riunì su una collina per assistere al passaggio di una nave. Un bambino piccolo vedendola iniziò a sbracciarsi vigorosamente. Uno degli astanti gli chiese perché si stesse comportando in questo modo. Il bambino rispose: perché il capitano possa vedermi e salutarmi. L’uomo gli chiese allora come pensava che il capitano potesse vederlo, visto che la nave era molto lontana e loro erano in molti. Il bambino rispose: il capitano mi cercherà fra la folla, perché è mio padre. Questo è quello che affermiamo nell’ultima parte della benedizione. Sulla faccia della terra ci sono sette miliardi di persone.
Cosa ci rende speciali, diversi da un granello di sabbia sulla riva del mare? Il fatto che siamo figli di H. Lui è nostro padre, e si interessa di noi. D. non è una semplice forza della natura, e nemmeno tutte le forze della natura messe assieme. Uno tsunami non fa delle domande circa l’identità delle proprie vittime. Un terremoto o un tornado non hanno nulla di personale. Questo è Eloqim, la causa di tutte le cause, la totalità delle leggi di natura. Eloqim rappresenta l’attributo di giustizia, perché la giustizia è essenzialmente impersonale. Ma il Tetragramma è D. che si interessa a noi in quanto individui, ciascuno con le proprie speranze e le proprie paure, con i propri doni e le proprie possibilità. A questa divinità possiamo dare del Tu, è Colui che ci parla e che ci ascolta quando parliamo. Non sappiamo come ciò avvenga, ma il fatto che sia così è centrale nella nostra fede. Siamo un tassello importante nello schema generale. La benedizione sacerdotale è espressa al singolare, perché la benedizione divina non è solo collettiva, ma anche individuale, e questa è la più grande fonte di pace. I conflitti e la violenza dipendono dalla necessità di dimostrare che contiamo. Ci comportiamo in un certo modo per dimostrare di essere più potenti, più ricchi, maggiormente efficaci. Posso farti paura. Posso piegare la tua volontà alla mia. Posso farti diventare una mia vittima, o se voglio un mio schiavo. Questa non è la fede ma il suo fallimento. Fede vuol dire acquisire la consapevolezza che D. si occupa di me. Sono qui perché così ha voluto. Questa consapevolezza procura pace interiore, e così possiamo riappacificarci con il mondo. Come si fa a raggiungere tutto questo? La berakhah che precede la birkat kohanim presenta una stranezza. I sacerdoti infatti dicono “che ci ha comandato di benedire il Suo popolo di Israele con amore”. Questo concetto non compare in nessuna altra benedizione. Sappiamo che per compiere un precetto è necessario in molti casi mostrare una certa intenzione, ma mai incontriamo la necessità di compiere una mitzwah con amore.
Perché questa volta sì? La Torah ci spiega esplicitamente che la benedizione in realtà non arriva dai kohanim, ma direttamente da H. I sacerdoti sono solo dei canali attraverso i quali la benedizione divina scorre nel mondo e nelle nostre vite. Solo l’amore può portare a questo. Vuol dire essere concentrati non su noi stessi, ma sugli altri. Amore è altruismo, e solo per mezzo dell’amore possiamo accogliere una forza più grande di noi, quella forza che come diceva Dante nella Divina commedia “move il sole e l’altre stelle”, l’amore che porta nuova vita nel mondo. Avere questa consapevolezza ci fa essere veramente in pace.