Franco Giannantoni, autore della prefazione, espone il contesto dell’epoca cui è dedicato l’ottimo lavoro di Francesco Scomazzon
“Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!”, sottotitolo “La caccia nazifascista agli ebrei in una terra di confine”, scitto da Francesco Scomazzon per i tipi di Arterigere-EsseZeta, è un’opera destinata a lasciare un segno nel dibattito storico su un periodo oscuro della nostra storia. Si tratta del 1943-1945, segnato dall’occupazione di gran parte d’Italia da parte della Wehrmacht hitleriana, dalla Repubblica Sociale fascista spalleggiata dalle baionette tedesche e complice dei crimini nazisti, dagli eroisimi e dalla ferocia della guerra partigiana condotta dalla Resistenza. In questo quadro Varese, provincia di confine, assumeva il ruolo di luogo di passaggio, alla disperata ricerca della salvezza oltre il confine elvetico, per decine di migliaia di persone, fra cui migliaia di ebrei, cui i nazisti davano la caccia per sterminarli. Quasi sei milioni di loro correligionari – ma non solo, per i nazisti l’ebraismo era un concetto razziale, quindi la conversione non salvava la vita – furono annientati (vernichtete) nei lager del regime più abietto e malvagio che la storia della civiltà occidentale ha mai conosciuto.
Di questo quadro alla base dell’opera di Scomazzon parliamo con l’autore della prefazione, lo storico e giornalista Franco Giannantoni (foto), persona dalle opinioni nette e priva di peli sulla lingua anche quando si parla della “sua” Varese.
“Ho seguito con ammirazione il lavoro di Scomazzon fin dall’inizio” racconta Giannantoni. “Francesco si è laureato a Milano nel 2003 con una tesi che ha poi espandso con ricerche d’archivio in Italia e in Svizzera per trarne il libro; ora lavora per il Fondo Nazionale Svizzero, per interessamento del prof. Fabrizio Panzera, docente di Storia della Svizzera a Milano. Del resto in Italia opportunità per giovani ricercatori ce ne sono sempre meno”.
Il titolo dell’opera nasce da una frase pronunciata il 12 dicembre 1943 dal console Marcello Mereu della Legione confinaria della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) durante un appello ai camerati, e bene esprime la caccia spietata che il regime di Salò diede agli ebrei, non limitandosi al minimo indispensabile per non irritare l’occupante nazista, bensì distinguendosi per zelo.
“Addirittura l’allora questore, Luigi Duca, poi sindaco di Valganna negli anni Ottanta, fece deportare gli ebrei di sangue misto (Mischlinge, nella terminologia nazista), quelli cioè che avevano per esempio padre ebreo e madre cristiana, o viceversa”. Le istituzioni furono pienamente complici, salvo eccezioni individuali, della individuazione e deportazione degli ebrei. Così come per anni avevano meticolosamente schedato tutti gli ebrei, a seguito delle infami leggi razziali del 1938, questure e prefetture si guardarono bene dal far sparire i relativi documenti dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista, pur sapendo bene che i tedeschi con gli ebrei non si limitavano alla discriminazione, come aveva fatto fino ad allora il regime mussoliniano. Il puntiglio con cui le istituzioni fasciste diedero la caccia agli ebrei è testimoniato nelle pagine di Scomazzon: ed è importante ricordarlo, anche perchè l’80% degli ebrei fuggiti in Svizzera passò per il Varesotto, e si parla di qualcosa come 6000 persone. “Per fuggire dovettero pagare pesanti pedaggi agli spalloni, ai contrabbandieri che conoscevano le zone di confine, i turni delle pattuglie” racconta Giannantoni. “Si parla di cifre da 4 a 10mila lire di allora (suppergiù equivalenti ad altrattanti euro di oggi, ndr). Il prezzo era più alto se si passava nelle zone meno controllate, più basso se si correva il rischio di battere strade più note, e più pattugliate”. Non va dimenticato il dramma dei traditi, consegnati dagli stessi contrabbandieri ai nazifascisti in cambio di altro denaro: in tali occasioni, la Gazzetta Ufficiale repubblichina pubblicava desolanti e minuziosi resoconti dei beni confiscati ai morituri, e nel libro, corredato da un’ampia mole di documentazione, vi sono fotografie fatte dai tedeschi che ritraggono gli sventurati all’atto della loro cattura. Vi fu poi il dramma, per certi versi ancora più scandaloso, dei respinti alla frontiera, citato da Giannantoni. “È vero, la Svizzera respinse circa 6-700 persone alla frontiera, e questi refouleés (respinti) finirono nelle mani degli aguzzini nazifascisti. Il caso più noto è quello di Liliana Segre, testimone d’eccezione dell’Olocausto, e unica sopravvissuta ad Auschwitz, lei ragazzina adolescente, di tutta la sua famiglia. Il fenomeno del refoulement, grave, si ripetè peraltro in proporzioni ben maggiori sul confine franco-svizzero del Giura. Recentemente la Commissione d’inchiesta Berger ha stabilito che, no, la Svizzera non fece tutto quanto era in suo potere e dovere per aiutare questa gente. La sua legge non distingueva gli ebrei come categoria, e non vi era dunque una protezione legale come perseguitati per loro”. La Svizzera era, aggiunge Giannantoni a parziale scusante, impreparata all’ondata di rifugiati dall’Italia; dopo l’8 settembre 1943 circa 45.000 italiani vi fuggirono, tra cui, come detto, quasi ottomila ebrei; e chi venne accolto fu in genere – ma non sempre – trattato con generosità.
Dall’altra parte del confine, nel Varesotto, al servile e zelante collaborazionismo delle autorità saloine, in una provincia “blindata” dai militari per la presenza di importantissime industrie di guerra, spesso sfollate dalle città bombardate, si contrapponeva l’eroismo di un pugno di laici e religosi che, a rischio della vita, falsificavano documenti e aiutavano i ricercati a fuggire. “L’elenco di quanti aiutarono g li ebrei è lungo, vi furonoi esponentid el basso clero, come don Pietro Folli di Voldomino di Luino, suor Lina Manni della Congregazione delle Suore di San Giuseppe, scomparsa quest’anno alla veneranda età di cent’anni, don Natale Motta, l’organizzazione cattolica antifascista O.s.c.a.r., la rete del Clnai (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) nelle mani dell’ing. Giuseppe Bacciagaluppi. Ma su tutti si staglia la figura di Calogero Marrone, deportato e ucciso a Dachau, lui funzionario pubblico di Salò, per aver falsificato documenti con cui salvare vite umane”.
Quale è l’importanza di un libro del genere nella Varese di oggi? chiediamo a Giannantoni.
“È importante perchè copre un vuoto storiografico sull’argomento. Il mito del varesino brava gente non regge all’esame di Scomazzon, accanto ai Marrone abbiamo tanta indifferenza, il servilismo zelante delle autorità fasciste, i tedeschi accolti quasi a braccia aperte da molti, troppi dopo l’8 settembre.” Il ritratto è impietoso. E la Varese di oggi? “Ha mille facce, una città che da un lato amo e dall’altro detesto. Il neofascismo vi fa breccia e vi assume potere nell’indifferenza delle autorità, giungendo a controllare i locali del centro, ma anche molti traffici illeciti. La città dovrebbe accettare quest’opera e fare i conti con il proprio passato, nel bene e nel male”.
Sabato 10 Dicembre 2005
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