La Giustizia
“Il savio non si glorii della sua saggezza, il forte non si glorii della sua forza, il ricco non si glorii della sua ricchezza; ma chi si gloria, si glorii solo di questo: che ha intelligenza e conosce Me, che sono l’Eterno e che esercita il diritto e la giustizia sulla terra” (Ger. 9). “L’Iddio santo è santificato per la sua giustizia” (Isaia).
Giusto è infatti il Signore, che è pronto a ricompensare largamente colui che agisce bene e a giudicare con amore e misericordia le cattive azioni. Possiamo dire, dunque, che è dovere di ogni ebreo agire e vivere secondo giustizia, che è la legge fondamentale su cui si basano i rapporti fra uomo e uomo e il mondo stesso. La giustizia ci viene prescritta in molti libri della Torà; ad essa si sono richiamati in ogni tempo i nostri Profeti, incitando il popolo ebraico a non allontanarsene, per poter vivere i suoi giorni con felicità e con la benedizione del Signore. Ma che significa essere “giusto”, tzadìk? Significa considerare con benevolenza i nostri simili, abbandonare ogni astio, ogni parzialità, ogni considerazione personale, al momento in cui dobbiamo giudicarli.
Nella Torà infatti leggiamo:
“Non commettere iniquità nel giudizio, non aver riguardo al misero e non onorare il grande; con equità giudicherai il tuo prossimo” (Levitico 19, 15).
“Non abbiate riguardi nel giudicare; porgete ascolto al piccolo e al grande, non abbiate paura degli uomini, perché la giustizia appartiene a Dio” (Deut. 1, 16).
“Non torcere il diritto, non avere riguardi di sorta, non farti corrompere… La vera giustizia seguirai, affinché tu viva ed erediti la terra che il Signore tuo Dio sta per darti” (Deut. 16, 19).
Dice Hillèl: “Non giudicare il tuo simile finché non sei arrivato al suo posto” (Pirkè Avòth).
Dice Rabbàn Shim’òn: “Da tre cose è salvato il mondo: dalla verità, dalla giustizia, dalla pace” (Pirkè Avòth).
Essere giusto significa anche agire con giustizia verso i bisogni altrui, che è un dovere di fratellanza umana. Dobbiamo sempre ricordare che, se noi abbiamo una casa accogliente in cui ripararci, dei buoni pranzetti con cui saziarci, degli abiti caldi con cui coprirci, c’è tanta gente che soffre la fame, il freddo e non ha da vestirsi. Ma la vera mitzvà della tzedakà consiste nel dare alla kuppà (cassa) della tzedakà dal 10 al 20 per cento dei propri guadagni netti. I gabbayìm (amministratori) provvederanno a dare ai bisognosi in maniera anonima.
“Quando in mezzo a te si trovi un povero…non dovrai indurire il tuo cuore né chiudere la tua mano. Dovrai invece aprire a lui la tua mano e prestargli quanto ha bisogno, ciò che gli mancherà” (Deut.,15, 7).
Nella Torà ancora è prescritto che quando giunge l’ora del raccolto, una parte di esso debba essere destinato a chi non ha mezzi; il raccolto è infatti un dono che Dio elargisce agli uomini ed è giusto che tutti ne possano beneficiare.
“E quando farete la mietitura nel vostro paese, non mietere del tutto l’angolo del tuo campo, non raccogliere i chicchi caduti nella tua vigna, li lascerai al povero e allo straniero” (Lev., 19).
È atto di giustizia, infine, rispettare sempre i diritti degli altri: dobbiamo, cioè, non solo non recare danno a chi ci sta vicino, ma aiutare e difendere colui che venga ingiustamente sopraffatto, anche se questi è uno straniero.
“Imparate a fare del bene, cercate la giustizia, rialzate l’oppresso” (Isaia, 1).
“Liberate dalla mano dell’oppressore colui a cui è tolto il suo” (Geremia, 21).
“Quello che a te è odioso, non farlo ai tuoi simili” (Hillèl).
“Non gioire quando il tuo nemico cade e non permettere al tuo cuore di essere felice quando egli inciampa” (Shemuèl, Pirkè Avòth).