Capitolo secondo: L’Impero Napoleonico
2.1 Il Concordato con Pio VII del 1801
La rivoluzione aveva “riabilitato” la religione protestante e quella ebraica, ma in realtà essa aveva organizzato – a suo modo – soltanto il culto cattolico ed il suo sostituto, il culto rivoluzionario. Essa aveva praticato la politica dell’annientamento ed alla fine quella dell’“indifferenza ostile”[1].
Napoleone Bonaparte attuò la tattica del recupero. Egli, invece di perpetuare il regime di separazione tra Chiesa e Stato stabilito dal Direttorio (con l’art. 354 della Costituzione dell’anno III), cercò di ripristinare i rapporti diplomatici tra la Francia e la Santa Sede, di restituire alla Chiesa cattolica il ruolo ufficiale che essa aveva detenuto in Francia fino alla fine dell’Ancien Régime, e di inserire anche le altre due religioni in questa sua “politica di recupero” dettata non tanto da una fede profonda, quanto da motivazioni politiche ben più terrene. Napoleone era convinto che la religione fosse “l’opium du peuple”[2] e che ristabilire il culto cattolico avrebbe condotto, placando gli animi, ad una riconciliazione generale allontanando i cattolici dalla causa realista. Nello stesso tempo, la sua volontà “de tout relier au char de l’Etat”[3] (e quindi a se stesso) gli impediva di condividere la politica di separazione e neutralità del Direttorio, che aveva concesso la libertà alla Chiesa nello Stato. Per Napoleone la Chiesa doveva essere controllata dallo Stato; essa rientrava nei servizi amministrativi che facevano capo al potere centrale, ed era annoverata, come sostiene Boineau, tra “les chiens de garde de la société”: senza dubbio infatti costituiva il migliore strumento di propaganda e di “sorveglianza degli spiriti”. L’esigenza di esercitare un controllo sulla Chiesa, di “reinserire nello Stato” il culto cattolico in base ad un preciso piano legislativo era esplicitamente affermata da Portalis (consigliere di stato nominato da Napoleone “direttore dei culti”) nel suo rapporto sul Concordato presentato al Consiglio di Stato: “…La ragione di Stato raccomanda in questo momento più che mai le misure che sono state concertate per inserire non lo Stato nella Chiesa, ma la Chiesa nello Stato, per far riconoscere il diritto essenziale del governo di nominare i ministri del culto e di assicurarsi in tal modo della loro fedeltà e della sottomissione alle leggi della Patria… Lo Stato non potrebbe avere alcuna pretesa su degli uomini che tratti come estranei allo Stato. Il sistema di una ragionevole sorveglianza sui culti non può essere garantito che mediante il piano conosciuto di una organizzazione legale dei culti. E’ una materia che appartiene all’alta polizia dello Stato…”[4]. Napoleone cercò subito una soluzione per risolvere al meglio il problema religioso: la sua attenzione si rivolse dapprima alla Chiesa ed alla religione cattolica “que est celle de la très grande majorité des Frainçais”, ed al nuovo capo Papa, Pio VII[5] che grazie alla struttura gerarchica, costituiva l’interlocutore privilegiato con il quale lo Stato, certo dell’obbedienza dei fedeli, poteva trattare.
Inoltre per valutare compiutamente le ragioni che spinsero il Primo Console all’accordo con la Chiesa romana occorre considerare non solo la prospettiva già accennata di rafforzamento del regime interno, ma anche quella di acquisizione di prestigio e di consensi in campo internazionale. A questo proposito Portalis nella sua relazione sottolineava: “… I Francesi occupano una posizione di primo piano tra le nazioni continentali dell’Europa; i vicini più potenti della Francia, i suoi alleati più costanti, le nuove repubbliche d’Italia… sono cattolici. Presso i popoli moderni la conformità delle idee religiose è divenuta un grande mezzo di comunicazione tra i governi e gli individui, di riavvicinamento e di influenza, per rafforzare e anche per estendere i legami di amicizia, di buon vicinato, e tutte le forme di relazioni politiche; perché dunque la Francia avrebbe dovuto rinunciare ad un culto che l’accomuna con tanti altri popoli ?”[6].
Una volta raggiunto l’accordo con il Papa, Napoleone estese il nuovo modello centralizzato e gerarchico creato per l’organizzazione della Chiesa cattolica, alle altre due religioni esistenti nel Paese: i Protestanti e gli Ebrei[7].
I rapporti tra lo Stato Repubblicano e la Chiesa erano alla fine del 1799 in una situazione di stallo. Napoleone decise così di ammorbidire taluni aspetti eccessivamente duri: l’8 frimale anno III (29 novembre del 1799) emanò un decreto che escludeva dalla deportazione i preti giurati o che avevano contratto il matrimonio; il 7 nevoso (28 dicembre 1799) dichiarò che la libertà dei culti era garantita dalla Costituzione e assicurò l’apertura delle Chiese e dei luoghi di culto anche al di fuori del decadì[8].
Ma la sua politica di riavvicinamento a Roma, fu “ufficialmente” inaugurata durante la campagna d’Italia del 1800. Il 5 luglio Egli, allora Primo Console della Repubblica, ricevuto in pompa magna nella Cattedrale di Milano, tenne davanti al clero dell’Italia del Nord un discorso risonante nel quale sottolineava l’importante ruolo della morale e della religione cattolica all’interno della organizzazione statale.
E concludeva: “…Actuellement que je suis muni de pleins pouvoirs, je suis décidé à mettre en oeuvre tous les moyens que je croirai les plus convenables pour assurer et garantir la religion (catholique)… Quand je pourrai m’aboucher avec le nouveau pape, j’espère que j’aurai le bonheur de lever tous les obstacles qui pourraient encore s’opposer à l’entière réconciliation de la France et de l’ Eglise…”[9].
Napoleone espresse dunque il desiderio di porre termine a quello stato di tensione con la Santa Sede che la Costituzione Civile del Clero del 1790 aveva causato nel Paese. I suoi intendimenti erano che, in cambio del riconoscimento del cattolicesimo come religione “dominante” in Francia e del pagamento degli emolumenti ecclesiastici da parte dello Stato, il pontefice facesse dimettere tutti i vescovi, sia “costituzionali” (cioè quelli che avevano accettato la Costituzione Civile), sia “non giurati” (quelli che rimasti fedeli al Papa, avevano rifiutato di aderire) e riconoscesse, secondo il Concordato di Bologna del 1516, il diritto del Primo Console di nominare i vescovi per un numero limitato di diocesi. E così il 25 giugno in un colloquio con il Cardinale Martiniana, vescovo di Vercelli, Napoleone espose il suo piano: dare un taglio netto alla questione della chiesa scismatica, rinnovamento dell’episcopato, riordinamento delle diocesi e rinuncia della Chiesa a rivendicare i beni nazionali[10].
Pio VII, informato dallo stesso Martiniana, scelto da Napoleone come intermediario, decise di avviare le trattative.
Il suo progetto di ristabilire i legami con la Francia e di mettere fine allo scisma suscitò clamori presso tutte le monarchie (anche da parte di Luigi XVIII che si era proclamato re in esilio) e ostilità negli ambienti dell’esercito (con molti generali giacobini) e della polizia, guidata da Fouché, e soprattutto l’abbé Grégoire. Un Concordato significava il rinnegamento di tutto ciò per cui aveva lottato. La sua fedeltà alla Rivoluzione, che lo aveva indotto ai vari giuramenti, lo poneva ora in contrasto con lo Stato che aveva difeso. Inoltre un tale accordo avrebbe “sconfitto” la tradizione e le libertà gallicane, dal momento che i negoziati si sarebbero svolti tra Roma e Parigi.
Nel settembre del 1800 Pio VII diede l’incarico di condurre le trattative a Mons. Giuseppe Spina, arcivescovo titolare di Corinto, assistito da padre Caselli, Generale dell’Ordine dei Serviti, in qualità di consulente teologico.
Da parte francese esse furono teoricamente condotte dal ministro delle Relazioni estere, Talleyrand[11]; ma la sua condizione di vescovo “giurato” e sposato, quindi a doppio titolo scomunicato, gli impedì di trattare in prima persona. Così egli fece agire al suo posto Bernier, curato d’Angiers, prete refrattario, riunitosi al regime dopo aver svolto un ruolo di pacificatore nelle guerre di Vandea.
I negoziati si svolsero dapprima in Italia (a Vercelli) e poi a Parigi e si rivelarono molto difficili dal momento che le parti aumentavano continuamente le loro pretese.
Poiché il Papa era disposto ad accettare la confisca dei beni ecclesiastici, ma non ad approvare l’espulsione dei vescovi dalle loro sedi, Napoleone svuotò la sua proposta iniziale di riconoscere il cattolicesimo come “religione dominante”[12] ad un semplice riconoscimento di “religione della maggioranza dei francesi”.
Inoltre sollevando la questione di un giuramento di fedeltà al regime da parte del clero, provocò la reazione di Pio VII che riaprì la discussione sulla legalità delle confische dei beni ecclesiastici, compiuta durante la Rivoluzione.
Poiché i negoziati proseguivano lentamente, il 19 maggio 1801, un ultimatum francese costinse il Papa ad inviare a Parigi il Cardinale Consalvi, segretario di stato della Santa Sede, per risolvere le difficoltà. Furono nominati dei rappresentanti ufficiali francesi[13] per conferire con lui.
A mezzanotte del 15 luglio 1801 (26 messidoro dell’anno IX), i plenipotenziari Consalvi, Spina e Caselli per la Santa Sede ed i tre rappresentanti per la Francia, firmarono la “Convention passée entre le gouvernement français et Sa Saintité Pie VII”, ratificata in agosto e settembre dai due capi di stato. Il testo comprendente un preambolo e diciassette articoli, iniziava con un duplice e rispettivo riconoscimento. Il governo dichiarava il cattolicesimo la “religione della maggioranza dei cittadini francesi”; in cambio la Chiesa attribuiva allo Stato un importante merito dichiarando che la religione cattolica aveva tratto grande giovamento dall’azione del governo e dalla professione di fede dei consoli. E ciò rappresentava un’importante legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica della svolta che si era operata.
Nel primo articolo (“…que la religion catholique, apostolique et romaine serait librement exercèe en France, et que son culte serait public, en se conformant aux réglements de police que le Gouvernement Jugerait nécessaires pour assurer la tranquillité publique”) erano formulate – come rileva Consalvi nelle sue “Memorie”- le due principali richieste della Santa Sede: l’esercizio libero e pubblico del culto, pur nel rispetto dei regolamenti di polizia. Ma questa restrizione, dava adito ad un controllo governativo che fu in seguito ritenuto inaccettabile dalla Chiesa. L’articolo 2 prevedeva la riorganizzazione delle diocesi, mentre l’art. 3 disponeva che il Papa persuadesse i vescovi, a lui fedeli, a dimettersi dalle loro sedi, se necessario. L’inserimento di queste clausole era strettamente collegato alla volontà di Napoleone di semplificare la struttura della Chiesa francese, riducendo notevolmente il numero dei vescovati. Nello stesso tempo egli desiderava che tutti i vescovi francesi, tanto quelli che ricoprivano cariche effettive, quanto quelli che si trovavano in esilio, rassegnassero le dimissioni, per facilitare la creazione di un nuovo episcopato, che non risentisse l’influenza delle passate divergenze e condizioni politiche.
Gli artt. 2 e 3 facilitavano il raggiungimento di questi due scopi in cooperazione con il Pontefice. Infatti in conformità all’art. 2 il numero delle diocesi fu ridotto da 136, esistenti prima della Rivoluzione, a 60; l’art. 3 inoltre permetteva al Primo Console di fare “tabula rasa” dei titolari delle sedi episcopali, obbligando tutti i vescovi di Francia a dare le dimissioni e ottenendo che il Pontefice persuadesse quelli, che erano in esilio, a fare altrettanto. Alcuni sostenitori della Santa Sede trovarono che era ingiusta questa pressione verso coloro, che avevano sostenuto la Chiesa romana durante gli anni turbolenti della Rivoluzione, e 35 vescovi esiliati si rifiutarono di rinunciare alle loro sedi, formando una piccola Chiesa scismatica “anticostituzionalista” (conosciuta come la “Petite Eglise”[14]) che durò fino al 1893. Tuttavia Napoleone, forte degli artt. 4 e 6 del Concordato, che gli garantivano il diritto delle nomine vescovili, spettante ai Re di Francia sin dal tempo del Concordato di Bologna del 1516 e che comprendevano un giuramento di fedeltà e obbedienza al governo, riuscì a formare un nuovo episcopato, composto per la maggior parte di dignitari, che non erano influenzati dal peso delle passate controversie.
Gli artt. 9 e 10 concedevano ai vescovi il completo controllo sul clero parrocchiale, annullando i precedenti diritti di patronato laico. Una serie di articoli si preoccupava poi della riorganizzazione delle diocesi: potevano essere istituiti seminari o capitoli cattedrali ma senza oneri per lo Stato (art.11); le chiese non alienate erano a disposizione dei vescovi (art. 12); la Santa Sede “per il bene della pace e la felice reintegrazione della religione cattolica” rinunciava a pretese sui beni ecclesiastici alienati (art. 13). A sua volta lo Stato si impegnava a stipendiare vescovi e parroci (art. 14). Da ultimo, al Primo Console della Repubblica erano riconosciuti “i medesimi diritti e prerogative del regime precedente la Rivoluzione” (art. 16). Qualora il capo dello Stato non fosse stato cattolico sarebbe stato necessaria un nuovo concordato (art. 17).
2.2 Gli Articoli Organici del culto cattolico e del culto protestante
Le disposizioni dell’accordo, che costituivano senza dubbio un quadro favorevole ad una riconciliazione tra i due poteri, avevano tuttavia provocato l’ostilità di elementi influenti dell’opinione pubblica (si è già detto di Talleyrand e Portalis) e di molti sostenitori di Napoleone, in particolar modo dell’esercito e delle assemblee (Consiglio di stato, Tribunato, Corpo Legislativo, Senato) alle quali, come ogni trattato, il Concordato doveva essere sottoposto. Così Napoleone, per farlo approvare, decise di presentarlo contemporaneamente alla normativa (redatta da Portalis), che avrebbe dovuto precisare il testo stesso del Concordato, introducendo i dettagli per fissare il numero e le frontiere delle diocesi, l’ammontare degli stipendi dei ministri del culto, il funzionamento delle fondazioni ed i regolamenti di polizia relativi all’esercizio del culto. Portalis e Talleyrand suggerirono anche l’aggiunta di “misure di garanzia” contro eventuali usurpazioni del potere religioso.
E così la legge di organizzazione dei culti, detta più correntemente “Articles organiques du Concordat”, accontentò, per così dire, anche gli oppositori e fu votata nell’aprile del 1802 (18 germinale anno IX).
I 77 “Articoli Organici” che contenevano delle clausole non menzionate dal Concordato, furono ritenuti molto offensivi della Santa Sede e considerati violazione dell’accordo del 15 luglio 1801, in quanto essi presentavano numerosi strumenti giuridici per l’esercizio del controllo politico dell’attività della Chiesa in Francia, che segnavano un ritorno al Gallicanismo “puro” di Luigi XIV e di Bossuet: autorizzazione governativa per la pubblicazione di bolle, brevi, rescritti ecc. della Curia romana (art.1), e dei decreti dei Sinodi stranieri (art. 2); preventiva autorizzazione per l’esercizio in territorio francese di funzioni relative a questioni della Chiesa Gallicana da parte di nunzi, legati, vicari o commissari apostolici (art. 21); obbligo di conformare l’insegnamento nei seminari alla dichiarazione
del clero del 1862 relativa alla superiorità dei Concili generali sul Pontefice (art. 24); interdizione ai vescovi di uscire dalla propria diocesi senza il permesso del Primo Console (art. 29); autorizzazione governativa per aprire al pubblico cappelle ed oratori privati (art. 4) e soprattutto lo ”appello per abuso”[15].
Gli artt. 6 e 7 consentivano di adire il Consiglio di Stato, in sede amministrativa, per generiche e indefinite infrazioni: l’usurpazione e l’eccesso di potere, la contravvenzione alla legge e ai regolamenti della Repubblica, l’infrazione delle regole sancite dai canoni recepiti in Francia, l’attentato alla libertà, alle franchigie e alle consuetudini della Chiesa Gallicana, e ogni attività o procedura che, nell’esercizio del culto, potesse compromettere l’onorabilità dei cittadini, turbarne arbitrariamente la coscienza, degenerare contro di loro in oppressione, in ingiuria, o in pubblico scandalo (art.6).
Era parimenti ammesso il ricorso per ogni attentato all’esercizio pubblico del culto e alle libertà garantite ai suoi ministri[16].
Altro motivo di contrasto tra Roma e Parigi dipendeva dal fatto che i vantaggi del Concordato non sarebbero andati alla sola religione cattolica. Gli articoli organici contenevano infatti una seconda parte (redatta dal ministro degli Interni Chaptal) che estendeva tutte le concessioni (riconoscimento ufficiale, retribuzioni, ma anche organizzazione statale e sorveglianza) ai culti protestanti; ed a ciò si aggiunse il discorso di Portalis al Corpo Legislativo che prevedeva l’estensione, in un secondo tempo, della regolamentazione alla religione ebraica e, nel 1806, la discussa promulgazione di un “catechismo imperiale” che prevedeva in primo luogo l’insegnamento della sottomissione alle autorità.
In tal modo ebbero inizio le controversie tra le due parti che culminarono, nel 1809, con l’annessione degli Stati Pontifici da parte di Napoleone imperatore, con la sua successiva scomunica pronunciata il 17 maggio e con la prigionia prima a Savona e poi a Fointainebleu, di Pio VII, al quale nel 1813 Napoleone riuscì ad “estorcere” una nuova Convenzione (“detta Concordato del 1813”), rinnegata subito[17], nella quale il Pontefice riconosceva le ammissioni e abbandonava interamente al potere imperiale, le norme dei vescovi.
La rivoluzione aveva avuto al suo inizio “effetti benefici” per i protestanti, grazie alla proclamazione dell’uguaglianza dei diritti; ma – come rileva Boineau[18] – “ce temps de consolation et de progrès” era terminato nel 1793 con l’ondata di “decristianizzazione” e del Terrore, che si era abbattuta anche su di loro.
Esistevano in Francia due chiese protestanti: i calvinisti o riformati (circa 500.000 distribuiti in tutto il territorio, ed in particolar modo a Parigi e in Guascogna) ed i luterani (o Chiesa della Confessione di Augusta) che, in poco meno di 20.000 abitavano l’Alsazia.
Il progetto di Napoleone, nel 1800, era quello di unificarli e di estendere loro la struttura che lo Stato stava articolando per la Chiesa cattolica. Egli infatti voleva escogitare il modo di coinvolgere e quindi di “attaccare al suo carro” l’importante e facoltosa borghesia protestante[19].
Ebbero luogo delle consultazioni (e non delle negoziazioni): tra Chaptal (ministro degli interni), Portalis (ministro dei culti) ed il Pastore di Parigi, due laici, un luterano ed un calvinista, Rabaut-Dubui[20], membro del Corpo Legislativo.
L’unità delle chiese non fu possibile (d’altra parte, eccetto il governo, nessuno la desiderava) ma gli “Articoli Organici dei Culti Protestanti”[21] pubblicati accanto a quelli della Chiesa cattolica nella Legge del 18 germinale anno X, prevedevano uno “stretto coinvolgimento” dello Stato e soprattutto una nuova organizzazione gerarchica e aristocratica, nuova e per così dire contraria alla tradizione della Chiesa protestante.
Gli Articoli distinguevano le due confessioni. Il sistema di base era lo stesso: i protestanti dovevano raggrupparsi in “Eglises Consistoriales”, con a capo un concistoro composto di un pastore e di notabili laici (o “anciens”) che erano scelti tra i cittadini “les plus imposés au role des contributions directes”, quindi più facoltosi della comunità[22].
I culti protestanti, come quello cattolico e quello ebraico, dipendevano dal Ministero dei Culti, affidato a Portalis, fino al 1807 [23].
La scelta dei pastori delle due confessioni e quella degli ispettori luterani dovevano essere approvate dal capo della Stato, che nominava anche il presidente del concistorio generale luterano d’Alsazia.
Tutti i pastori, stipendiati dallo Stato, dovevano avere i “diplomes minutieusement exigés”[24] dagli articoli organici e prestare, entrando in servizio, lo stesso giuramento di fedeltà al governo previsto per i vescovi ed i curati. Nello stesso tempo, il governo verificava le ragioni della loro eventuale destituzione da parte dei concistori.
I sinodi dei riformati, gli ispettorati e il concistorio generale dei luterani, le cui riunioni si svolgevano in presenza del prefetto o del sotto-prefetto, non potevano riunirsi senza l’autorizzazione del Ministro dei Culti, che riceveva una comunicazione preliminare dell’ordine del giorno.
Inoltre, una disposizione ancor più limitante, stabiliva che “aucune décision doctrinale ou dogmatique, aucune formulaire…” poteva essere pubblicato (o adottato per l’insegnamento) senza l’autorizzazione del governo, che era necessaria anche per ogni modifica nella disciplina.
Era dunque concesso allo Stato un diritto di vero e proprio controllo religioso. Inoltre, le relazioni con le comunità straniere, vitali fino ad allora per la diffusione del protestantesimo, erano proibite ed era imposto l’obbligo, in tutti i luoghi di culto, di recitare preghiere per la nazione e per il capo dello Stato.
I protestanti accettarono dunque gli “aspetti negativi” degli articoli (il controllo esercitato dallo Stato anche in campo dogmatico e dottrinale, la struttura gerarchica dipendente dal ministero dei culti, l’autorità concessa nelle comunità ai membri più ricchi), ma in cambio riuscirono ad ottenere dallo Stato la garanzia della completa libertà di fede e l’uguaglianza con la chiesa cattolica, grazie ad un legge promulgata nello stesso momento di un trattato concluso dal Papa[25].
2.3 I decreti del marzo 1808 concernenti gli Ebrei
La religione ebraica non era stata inclusa nella “ Loi sur les cultes” del 1802. E nel discorso di presentazione degli Articoli Organici, Portalis aveva così giustificato questa eccezione: “Les juifs forment moins une religion qu’un peuple. Le gouvernement a cru devoir respecter l’éternité de ce peuple, qui est parvenu jusqu’à nous…et qui, pour tout ce qui concerne son sacerdoce et son culte, regarde comme un de ses plus grands priviléges de n’avoir que D. lui-meme comme legislateur”[26].
Tuttavia gli ebrei che, come nota Boineau, costituivano un problema sociale ed economico, non potevano a lungo sottrarsi alla mentalità “tolitaristica” e alla politica di Napoleone[27].
Con la legge del 28 settembre 1791 promulgata dalla Costituente essi avevano ottenuto l’uguaglianza con gli altri francesi cattolici e protestanti. Ma mentre nel Midì e nel Contado Venassino si erano assimilati ed integrati alle popolazioni locali ed esercitavano funzioni pubbliche, nell’Est (in Alsazia e Lorena) avevano continuato a vivere secondo le loro tradizioni, rifiutando la completa assimilazione, e provocando, per questo le proteste dei concittadini.
Ma l’ampliarsi della presenza giudaica in Francia[28]rese, in breve tempo, impossibile all’amministrazione di ignorare quello che, all’epoca si cominciò a chiamare il “problème juif”. Le stesse comunità ebraiche si rivolgevano infatti al governo francese, in occasione delle ricorrenti difficoltà da esse registrate per quello che riguardava l’esazione dei tributi, destinati a finanziare le spese per il culto, e per dirimere le controversie che quasi quotidianamente intervenivano nel loro seno tra tradizionalisti e riformisti. Alcune comunità, come quella di Metz per esempio, richiedevano inoltre all’amministrazione di dare sanzione ai loro regolamenti interni, per fornire ad essi maggior vigore nei confronti della riottosa obbedienza dei fedeli[29]. Per risolvere questi differenti problemi, Portalis riunì una “commission es affaires juives”, che confermò il desiderio degli ebrei francesi di godere di una “paterne surveillance du gouvernement”. Numerosi progetti furono elaborati a questo scopo, ma alla fine del 1805 nessuno di essi era stato realizzato[30].
Proprio durante il 1805, a complicare ulteriormente la situazione, si sviluppò in Alsazia, per poi propagarsi a buona parte della Francia, un forte movimento antisemita. Da più parti, infatti, si rimproverava agli ebrei di praticare il prestito usurario, pretendendo dai propri creditori tassi di interesse intollerabili, resi ancor più pesanti dalla crisi economica e finanziaria che colpiva quella regione[31].
In questo contesto, i prefetti ed il Ministro della Giustizia richiedevano in un rapporto all’Imperatore misure draconiane per stroncare queste pratiche, che avrebbero dovuto concretizzarsi in un rinvio generalizzato del pagamento di tutti i debiti dovuti ai prestatori ebrei[32].
Nel gennaio del 1806, di ritorno dalla vittoria di Austerlitz, l’Imperatore fece tappa a Strasburgo, in Alsazia, dove ricevette nelle sue stesse mani le numerose e accorate lamentele concernenti le gravi conseguenze che l’ “usura ebraica” comportava per l’economia di quella regione. Date queste circostanze, il governo imperiale non poteva più, allora, limitarsi a considerare la questione giudaica dal solo punto di vista religioso. Era infatti il problema dell’assimilazione della nazione ebrea a quella francese a tornare d’attualità in questo periodo e ad apparire bisognoso di una nuova radicale definizione.
A tale scopo Napoleone decise di adire il Governo e il Consiglio di Stato per predisporre delle misure contro gli ebrei.
Nonostante questa prima decisione, l’agitazione persisteva prolungata anche da un violento articolo del visconte Louis de Bonald apparso sul Mercure de France del 9 febbraio 1806, che metteva in discussione l’emancipazione degli ebrei sottolineando gli errori che, a suo dire, aveva commesso l’Assemblea Costituente, trascurando sia la questione dei crediti vantati dai cristiani nei confronti delle comunità, sia il problema dell’usura che era rimasto irrisolto e che aveva abolito la feudalità dei nobili per sostituirla con quella degli ebrei. L’articolo era dunque una violenta requisitoria contro gli usurai “véritables hauts et puissants seigneurs de l’Alsace” (ai quali l’autore suggeriva di ritirare i diritti civili). Egli affermava inoltre che “…Les juifs sont des étrangers inassimilables, que leurs tribulations s’exoliquent par la malédiction divine et que la Révolution a eu tort de les émanciper…”[33].
Altri esponenti conservatori si unirono a lui[34] e, poiché stava montando una vera e propria campagna denigratoria, la difesa venne nuovamente affidata all’abate Grégoire, già noto per simili lotte e all’ebreo Rodigues che rispose a Bonald nella Revue philosophique, littéraire et politique.
Il 5 marzo su sollecitazione di Cambacérès[35], arcicancelliere dell’Impero, Napoleone deferì la questione al Consiglio di Stato che, composto di vecchi giuristi della Rivoluzione (Regnault de Saint-Jean-D’Angely, Beugnot, Berlie, Segur) decisi a difendere strenuamente i principi di uguaglianza del 1789, seppe esercitare su di lui un’influenza moderatrice.
“L’affaire des juifs” fu affidato da Regnault de Saint-Jean- Angely[36], presidente del “Comité de l’Interieur”, ad un giovane “rapporteur”, amico di Bonald e futuro ministro dello Impero e della Restaurazione.
Molé nel suo rapporto sostenne che occorreva ritirare agli israeliti i diritti civili accordati dalla Rivoluzione e che era necessario sottometterli a leggi di eccezione, almeno per ciò che si riferiva a transazione di interessi privati, e concluse: “…Nulla può spiegare la loro situazione anche agli occhi della ragione senza ammettere la maledizione da cui essi sono stati colpiti…”[37].
Il suo rapporto fu giudicato insufficiente dai membri del comitato e Beugnot ne presentò un altro sostanzialmente diverso e favorevole agli ebrei, ottenendo la maggioranza del Consiglio[38].
Il 30 aprile, in seduta plenaria, lo stesso Beugnot, parlando davanti a Napoleone, disse che il pregiudizio cristiano era all’origine della piaga degli ebrei e “qu’enlever aux juifs leur droits équivaudrait à une bataille perdue sur le terrain de la justice”[39].
L’Imperatore infuriato disse: “Le Gouvernement français ne peut voir avec indifférence une nation aviliée, dégradée, capable de toutes les bassesses, posséder exclusivement les deux beaux départements de l’Alsace. Des villages entiers ont été expropriés par les juifs; ils ont remplacé la féodalité; ce sont de véritables nuées de corbeaux… Il serait dangereux de laisser les clefs de la France… entre les mains d’une population d’espions qui ne sont pas attachés au pays”[40].
Aggiuse poi di essere deciso ad ottenere misure legali contro di loro, a trattarli secondo leggi politiche e non civili, e “puissqu’ils ne sont pas citoyens” a non considerarli allo stesso modo dei cattoilici e dei protestanti.
Egli voleva proteggere l’Alsazia, limitando a 50.000 il loro numero, agli altri, che si erano aggiunti in seguito alle vicende rivoluzionarie, doveva essere ingiunto di abbandonare la Francia.L’imperatore accusò gli israeliti di non essere veri francesi, accusò il Talmud[41] di fomentare l’odio verso i cristiani, e sostenne che erano auspicabili un controllo e una supervisione nelle scuole ebraiche organizzando i rabbini in gerarchia[42].
Coraggiosamente Saint-Jean-D’Angely e il conte Ségur appoggiarono le opinioni di Beugnot, ma la seduta si chiuse senza che fosse presa una decisione.
Il giorno dopo Molé[43], ricevuto da Napoleone, senza contestarne le tesi gli manifestò la sua idea: occorreva sperare nella rigenerazione degli ebrei.
Il 7 maggio in una nuova riunione del Consiglio, Napoleone riufiutando l’ipotesi di espulsione (“… il y aurait de la faiblesse à chasser les juifs; il y aura de la force à les corriger…”[44]) propose una soluzione di compromesso, dichiarando, da una parte la sua ferma volontà di promulgare una legge di eccezione sulle attività commerciali ebraiche, ma agggiungendo, dall’altra, la necessità di convocare un’assemblea composta dalle rappresentanze di tutti gli ebrei francesi e dell’Impero, per indagare più a fondo sulle possibilità di una loro integrazione nel corpo politico nazionale.
Il decreto del 30 maggio 1806, preparato da Cambacérès e Regnault, disponeva la convocazione delle comunità ebraiche a Parigi, per il 15 luglio seguente[45]. VEDI FOTOCOPIE
[1] BOINEAU J. SZRAMKIEVICZ R. Histoire des institutions 1750-1914. Droit et société en France de la fin de l’ancien régime à la première guerre mondiale, Parigi, 1992. p.282.
[2] IBIDEM
[3] IBIDEM
[4] GOVERNATORI RENZONI L. La separazione tra Stato e Chiesa in Francia e la tutela degli ordini religiosi, Milano, 1977, p. 2.
[5] Il 14 marzo 1800 infatti, il cardinale benedettino Chiaramonti aveva sostituito Pio VI.
[6] GOVERNATORI RENZONI L. op cit, p.17.
[7] Come rilevano BOINEAU J. – SZRAMKIEVICZ R. op cit, p. 283 a Marsiglia esistevano piccolissimi nuclei di Musulmani e di Mamelucchi tali da non poter giustificare l’estensione dl sistema concordatario alla religione islamica.
[8] Periodo nel quale ciò era precedentemente concesso.
[9] BOINEAU J.- SZRAMKIEVICZ R. op cit, p. 284.
[10] Lo Stato con il provvedimento del 2 novembre 1789 aveva infatti deciso l’incameramento e la successiva vendita dei beni del clero.
[11] Che tra l’altro pare non fosse favorevole all’accordo
[12] Definizione che si scontrava con il principio già codificato dell’uguaglianza dei culti.
[13] Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, Cretet, consigliere di stato e Bernier.
[14] Questa chiesa dissidente aveva le sue roccaforti in Poitou e a Lione.
[15] Questo istituto era stato introdotto nel XV secolo in un periodo di tensione tra la Francia e la Curia pontificia e consisteva nell’appello del giudice laico contro le decisioni di quello ecclesiastico. Esso finì per costituire un pretesto per sottomettere alla giustizia dello Stato anche gli atti non contenziosi dell’autorità ecclesiastica. MARONGIU A. op cit, pp. 100-101. La protesta della Santa Sede fu vivacissima e Pio VII ne contestava la legittimità nei seguenti termini: “Les lois organiques ont pour objet la doctrine, les moeurs, la discipline du clergé, les droits et les devoirs des éveques, les relations avec la Saint Siège et le mode d’exercise de leur jurisdition. Or tout cela tient aux droits imprescrittibles de l’Eglise: Elle a reçu de D. seul l’autorisation de décider les questions du doctrine sur la foi ou sur la régle des moeurs, et de faire des canons de discipline”. (in Journal historique et litteraire, t. VII, 217 ss.) cit da GOVERNATORI RENZONI L. op cit, p. 22.
[16] Il Concordato e gli Articoli Organici operarono inoltre una riorganizzazione territoriale della chiesa cattolica utilizzando la struttura piramidale della Francia amministrativa con regioni, dipartimenti, circoscrizioni. Gli artt. 9, 13, 14, 15, 30, 31 sancivano l’autorità del curato sui cappellani, del vescovo sui curati, degli arcivescovi sui vescovi, dello Stato sul corpo episcopale nel suo insieme ed il controllo dell’autorità del Papa da parte del governo.
[17] Questa bozza di convenzione firmata il 25 gennaio 1813 accoglieva, nelle linee essenziali, i desiderata dell’ imperatore. Il Papa rinunciava al potere temporale in cambio di un appannaggio annuale di due milioni di franchi; inoltre l’istituzione canonica dei vescovi sarebbe spettata agli arcivescovi, in nome del pontefice, mentre la nomina dei vescovi imperiali veniva quasi totalmente attribuita all’imperatore. Napoleone pubblicò la bozza come nuovo concordato, nonostante la vivace protesta di Pio VII, che rinnegò l’atto.
[18] Op cit, p. 295.
[19] BOINEAU.J – SZRAMKIEVICZ R. op. cit, p. 293.
[20] Membro di una famiglia di illustri pastori di Nimes. Suo fratello, Rabaut Saint-Etienne, deputato agli Stati Generali e alla Convenzione era stato ghigliottinato perché girondino.
[21] Gli “Articoli Organici” riprendevano un progetto di nove articoli elaborato nel marzo 1802 da Portalis che accordava ai protestanti tutte le libertà concesse ai cattolici
[22] Come rileva PONTEIL F. op. cit, pp.170 la struttura gerarchica superiore era differente a seconda della confessione: presso i luterani, cinque chiese concistoriali costituivano un “inspection”. Ogni inspection, composta da notabili laici e pastori eleggeva un suo ministro di culto, che prendeva il nome di “ispettore ecclesiastico” e che aveva l’incarico di garantire il buon funzionamento delle chiese della sua “inspection”.
Per i calvinisti, cinque chiese concistoriali formavano un “synode” diretto, come l’inspection, da notabili laici e pastori. Questi sinodi regionali dovevano vegliare “à tout ce qui concerne le culte, l’inseignement de la doctrine et la conduite des affaires…”
[23] Dopo la morte di Portalis, il ministero fu affidato prima a suo figlio e, nel 1808 a Bigot de Préameneu, che lo amministrò fino al 1814. La sorte del Ministero fu -come rilevano BOINEAU J. – SZRAMKIEVICZ R.- assai bizzarra. Durante la Restaurazione, le sue competenze furono divise tra il ministero dell’interno e la Grande aumonerie Royale. Dal 1830 esso fu collegato ad un altro ministero: istruzione o giustizia o interno. Con la legge di separazione tra Chiese e Stato esso non aveva più ragione di esistere.
[24] Dovevano soddisfare due condizioni: aver studiato tre anni in un seminario francese e avere un certificato di “capacità e buoni costumi”.
[25] BOINEAU J. SRAMKIEVICZ R.op.cit, p. 255 rilevano che il sistema stabilito nel 1802, eliminati la sua componente oligarchica e il controllo dello Stato, è ancora, nel suo insieme quello dei protestanti francesi.
[26] DI RIENZO E. Tra discriminazione, assimilazione ed emancipazione: la questione ebraica in Francia tra rivoluzione e impero. Articolo contenuto in La questione ebraica dall’Illuminismo all’Impero (1700-1815), a cura di Alatri. P. e Grassi S. Napoli, 1994, p.95.
[27] Al suo debutto Napoleone non sembrò nutrire un’animosità particolare verso gli ebrei. Durante la campagna d’Egitto egli concepì addirittura l’idea di restituire loro la Palestina affinché vi ricostituissero il loro Stato. Il Moniteur Universel, l’organo ufficiale del Governo rivoluzionario francese, nel N. 3 del 3 pratile, anno VII della Repubblica francese (corrispondente al 22 maggio 1799), pubblicava un telegramma ufficioso da Costantinopoli in cui si annunciava che Napoleone aveva emanato un proclama agli ebrei d’Asia e d’Africa chiamandoli “ad arruolarsi sotto le sue bandiere per restaurare la vecchia Gerusalemme”. Cit. da FEUERWERKER R. L’émancipation des juifs en France de l’Ancien Régime à la fin du Second Empire, Parigi, 1976.
[28] Le leggi di emancipazione del 1790 e del 1791-nota DI RIENZO op. cit, p. 95.-provocarono, nel corso del decennio seguente, forti ripercussioni sulla composizione stessa della popolazione ebraica francese, che si trovò ad essere incrementata numericamente da gruppi di correligionari, provenienti dai più svariati paesi europei, considerato il regime di libertà e di ampia tolleranza che la grande nazione sembrava assicurare. I nuovi arrivati impiantarono così nuove comunità, con statuti, abitudini, tradizioni diametralmente opposte le une alle altre, e soprattutto profondamente differenti dalle regole in vigore nell’ambiente ebraico francese di antico regime.
[29] SCHWARZFUCHS S. Du juif à l’israélite. Histoire d’une mutation. (1770-1870), Parigi, 1989, pp. 161-162 ricorda che il Capo della sinagoga di Metz all’inizio del 1804 aveva scritto una lettera a Portalis nella quale lamentava il fatto che l’esercizio dei culti cattolico e protestante fosse stato regolamentato nel corso degli anni precedenti mentre quello ebraico non poteva ancora beneficiare di una costituzione che gli assicurasse e che definisse il suo funzionamento, le modalità di designazione, la durata del mandato e i poteri dei dirigenti delle comunità.
[30] Tra essi SCHWARZFUCHS S. op. cit, p. 163. ricorda un “Plan d’organisation du culte juif en France” fatto pervenire a Portalis da alcuni notabili ebrei di Parigi. Essi, ancora una volta, rivendicavano per l’ebraismo lo stesso riconoscimento ottenuto dal culto cattolico e da quello protestante e chiedevano al Ministro dei culti un regolamento che prevedesse, tra gli altri, l’apertura di due seminari ebraici (uno per i portoghesi ed uno per i tedeschi) per reclutare rabbini, che eletti da una commissione composta da membri di famiglie ebraiche agiate (con il consenso del Ministro dei culti), avrebbero avuto, una volta prestato giuramento al governo, la responsabilità del funzionamento delle sinagoghe sotto il controllo dei prefetti e del Ministero dei culti.
[31] Ricordiamo che fin dal Medioevo l’usura era stata condannata dalla Chiesa cattolica: l’interdizione ai cattolici del prestito ad interesse aveva dunque indotto gli ebrei a specializzarsi nel mestiere di prestatori.
[32] Il 5 settembre 1805 il prefetto del Basso Reno scriveva al suo ministro: “…Cette classe d’hommes est tellement exécrée dans le pays qu’il ne faut pas etre surpris si dans quelques localités des hommes qui ont été les victmes de leur insatiable cupidité s’exhalent en injures ou en menaces contre eux lorsqu’ils sont échauffés par la colère ou par le vin…”. DELPECH F. Sur les juifs, Lyon, 1983, p. 68.
[33] DELPECH F. op. cit, p. 69. CALIMANI R. Storia dell’ebreo errante,. Milano, 1987, p. 435. FEUERWERKER D. op. cit, p.73.
[34] Tra questi l’avvocato Poujol che nel suo pamphlet “Quelques observations concernant les juifs en géneral, et plus particulièrment ceux d’Alsace, pour fixer lìattention du Gouvernement sur la législation des différents peuples à leur égard, sur leurs moeurs et habitudes, et sur les mesures qui pourraient etre convenables d’adopter dans la circonstance actuelle”, Paris, 1806, sosteneva che la soluzione del problema esigeva uno stretto controllo della loro attività economica e delle riforme del loro culto. “…Une fois assimilés, ils ne différaient plus de leurs concitoyens que par leur religion…”.
[35] SCHWARZFUCHS S. op.cit, p. 164 rivela che nella sua lettera all’Imperatore, egli sosteneva che le lamentele concernenti gli ebrei dipendevano dalla libertà della quale essi godevano e dall’aumento del loro numero. Egli propose dunque di adottare dei provvedimenti per controllare l’attività dei prestatori ebrei e per sorvegliare i numerosi ebrei stranieri che stabilitisi in Francia, ne godevano tutti i diritti senza assolverne i doveri. Suggerì inoltre di affidarne la redazione al Consiglio di Stato, “section de législation et de l’intérieur réunies”.
[36] Liberale, era stato uno dei promotori dell’emancipazione e aveva presieduto l’Assemblea Costituente nell’importante giornata del 28 settembre 1791.
[37] CALIMANI R. op cit., p. 453.
[38] Nella sua relazione, illustrata da FEUERWERKER D. op. cit, p. 74, egli cercò di dimostrare che l’usura dipendeva dalla mancanza di un sistema di credito organizzato e che l’unica situazione risiedeva nella creazione di banchi di prestito e di monti di pietà. Attenendosi al Codice, egli propose l’applicazione di leggi esistenti e quindi non d’eccezione, per tutti i conflitti tra debitori e creditori.
[39] GRAETZ H. op cit, p. 326.
[40] FEUERWERKER D. op cit, p. 75.
[41] Testo base della filosofia e della religione ebraica.
[42] CALIMANI R. op. cit p. 436.
[43] Incarito dal Consiglio dell’affaire juive.
[44] SCHWARZFUCHS S. op. cit. p. 167.
[45] “Napoléon, empereur des Français, roi d’Italie, Sur le compte qui nous a été rendue que dans plusieurs départements septentrionaux de notre empire, certains juifs, n’exerçant d’autre profession que celle de l’usure, ont par l’accumulation des intérets les plus immodérés, mis beaucoup de cultivateurs de ce pays dans un état de grande détresse; nous avons pensé que nous devions venir au secours de ceux de nos sujets qu’une avidité injuste aurait réduits à ces facheuses extremités. Ces circostances nous ont fait en meme temps connaitre combien il était urgent de rianimer, parmi ceux qui professent la religion juive dans les pays soumis à notre obéissance, les sentiments de morale civile, malheuresements ont été amortis chez un trop grand nombre d’entre eux par l’état d’abaissement dans lequel ils ont longtemps langui, état qu’il n’entre point dans nos intentions de maintenir ni de renouveler…A ces causes…Nous avons décréte et décretons ce qui suit: Art. 1: Il est sursis pendant un an, à compter de la date du présent décret, à toutes exécutions de jugements ou contrats…”. HALPHEN A.E.op cit. pp.18-19.