Rav Aharon Lichtenstein, scomparso nel 2015, ha rappresentato una delle voci rabbiniche più autorevoli degli ultimi decenni. Le sue riflessioni possono aiutarci ancora oggi a comprendere la stretta attualità, e a darci delle indicazioni per la situazione odierna in Israele, molto difficile da districare. Questa settimana leggeremo la parashà di Shofetim, che contiene buona parte delle norme della Torà sulla guerra. Anche la parashà della prossima settimana, Ki tetzè, tornerà sul tema della guerra. C’è tuttavia una stranezza: alla fine della parashà di Shofetim viene descritto un misterioso rituale, quello della eglà ‘arufà, la vitella accoppata, che veniva uccisa in uno strana cerimonia, che coinvolgeva quelle che oggi definiremmo le massime cariche del governo cittadino in un caso di rinvenimento di cadavere presso una determinata località, senza che fosse stato possibile determinare chi avesse ucciso il malcapitato.
La stranezza del rituale risiede anzitutto nel fatto che, pur trattandosi di una specie di sacrificio, questo avvenga completamente al di fuori del Bet ha-miqdash, unico luogo deputato allo svolgimento dei sacrifici. La misteriosità della cerimonia conduce dei commentatori ad ipotizzare che si tratti di un choq, quei precetti della Torà che non hanno una spiegazione evidente. Altri ritengono che l’enorme clamore provocato dall’intervento dell’establishment avrebbe portato qualcuno a testimoniare.
Rav Lichtenstein, pur condividendo la bontà di queste risposte, ritiene che sia possibile adottare un approccio diverso: il libro di Devarim, come è noto, riprende molti temi affrontati nei libri precedenti della Torà, tanto che a volte potremmo chiederci quale sia l’utilità di determinate ripetizioni. Per rispondere a questa domanda i commentatori hanno notato come il criterio della semichut ha-parashiot, l’accostamento di brani diversi come chiave di lettura, criterio che è oggetto di dibattito per gli altri libri della Torà, sia accettato invece senza riserve per il libro di Devarim. Nello specifico l’inserimento del brano sulla cerimonia della vitella accoppata fra due brani relativi alla guerra svolgerebbe per Rav Lichtenstein una funzione ben precisa. La guerra spesso cambia le nostre prospettive, perché ragioniamo in termini molto diversi rispetto al solito: ragioniamo in termini di nazione, di esercito, di battaglione. I rischi sono quelli di perdere di vista l’individuo, o sviluppare un approccio troppo militante o aggressivo.
Per propria natura la guerra comporta spargimenti di sangue e rischia di compromettere la nostra corretta comprensione del valore della vita umana, che questo brano con la sua collocazione intende restituirci. Troviamo un cadavere, non sappiamo nulla di lui. Non sappiamo chi l’abbia ucciso, non sappiamo come ciò sia avvenuto, secondo un’idea non sappiamo neppure se è ebreo. Potrebbe trattarsi di un vagabondo, che proviene dagli strati più bassi della società, e ciononostante nella cerimonia vengono coinvolti gli anziani e i membri più preminenti della città più vicina. Tutto questo per insegnarci il valore che viene attribuito a ciascuna vita umana. La lacerazione che sta sconvolgendo Israele nasce comunque dal presupposto della considerazione del valore di ciascuna vita, altrimenti le scelte strategiche sarebbero state molto diverse.
A dispetto dei numeri, che potrebbero condurre a facili e affrettate conclusioni, una differenza fondamentale è determinata proprio dall’approccio alla singola vita, sia essa quella degli ostaggi, o dei soldati che partecipano alla guerra. Il 7 ottobre ha mostrato in tutta la sua orribile crudezza cosa sia il disprezzo della vita umana, così come il sacrificio di civili indifesi per vincere la guerra mediatica ha evidenziato come questo culto della morte sia immune persino alle bandiere e agli schieramenti. La guerra ci mette di fronte a tanti terribili dilemmi, ma il valore della singola vita dovrebbe sempre e comunque trovare spazio nei nostri ragionamenti.
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