Recentemente mi sono dedicato a rileggere alcuni saggi di Rav Solveitchik meno noti, almeno in Italia, rispetto alle opere “maggiori”, ma non per questo di importanza inferiore. È nota l’attenzione del Rav per l’umana personalità e la sua attitudine a analizzare la realtà per “tipi”. I “tipi” su cui Rav Soloveichik elabora il proprio pensiero sono in genere contrapposti sul piano dialettico. Egli chiarisce che “la dialettica ebraica, diversa da quella hegeliana, è inconciliabile e pertanto interminabile. L’ebraismo accetta una dialettica fatta solo di tesi ed antitesi, ma priva di sintesi. Il terzo stadio, quello della riconciliazione, manca” (Majesty and Humility, p. 25).
Il Rav rifiuta l’idea cristiana del peccato originale: l’uomo non è stato creato peccatore. Piuttosto, D. ha voluto collocarlo in una perenne ambivalenza, cosicché nella sua esperienza concreta l’uomo si trova costantemente a oscillare fra due poli. L’“uomo della Halakhah”, per esempio, riflette due sé opposti: l’esperienza dell’uomo religioso da un lato e quella dello scienziato alla continua ricerca della verità attraverso lo studio con mezzi razionali dall’altro. Sul piano strettamente esistenziale, Rav Soloveitchik parla di un doppio Adamo. Il primo Adamo aspira a diventare il maestro della natura, ricrea il mondo secondo norme scientifiche, etiche ed estetiche, allo scopo di affermare la propria dignità e maestà: “Riempite la terra e conquistatela” (Bereshit 1, 28). Il secondo Adamo, per contro, è umile, fatto con la polvere della terra, insignificante e solitario. Egli non cerca la l’affermazione di sé, ma l’unione autentica con D. e con il prossimo. La comunicazione non è un movimento di conquista in questo caso, ma di rinuncia e di ascolto. Egli aspira non al controllo sugli altri, ma su se stesso “come legittimato e ancorato in qualcosa di stabile”. È disponibile al confronto e persino alla sconfitta di fronte a un altro essere. Entrambi i caratteri, il maestatico e l’umile, sono compresenti in ciascuno di noi.
Anche rispetto alla politica nel senso etimologico del termine Rav Soloveitchik si astiene dal risolvere il dilemma se l’uomo sia una creatura individuale o sociale. Questi è preparato a rispondere a due chiamate. Il noto versetto “L’uomo è come l’albero del campo” (Devarim 20, 19) può essere inteso come una affermazione (Ibn ’Ezrà) o come un’interrogazione retorica (Rashì). In quest’ultimo caso vuole sottolineare la differenza: l’uomo è mobile, verso il prossimo e verso il mondo. Nel primo caso, l’espressione rimarcherebbe l’inverso: l’uomo è un individuo radicato in se stesso. La dimensione comunitaria della natura umana – afferma Rav Soloveitchik – si evidenzia nell’ebraismo attraverso la Tefillah. La Parashah di questa settimana tratta l’episodio del Vitello d’Oro. Per questo motivo a Moshe fu negato l’ingresso in Eretz Israel. Il Midrash commenta che se il popolo avesse pregato per Mosheh così come egli aveva interceduto affinché essi fossero perdonati, anche il desiderio della sua vita sarebbe stato esaudito (Sifrè a Devarim 3, 24).
Sul piano militare, infine, Rav Soloveitchik evidenzia in ebraico due termini per designare la forza: koach e ghevurah. Koach denota la forza bruta, che non distingue l’uomo dall’animale. Con ghevurah si intende piuttosto la capacità di resistere: “in contrapposizione a koach, ghevurah è un dono esclusivo di D. all’uomo che dimostra la collocazione unica di quest’ultimo nel creato” (Catharsis, p. 43). “Eroe” in ebraico si dice ghibbor. segno etimologico che koach non è la forma più alta di forza. L’eroe non è necessariamente colui che consegue la vittoria armata: ci sono eroi sconfitti! L’eroe è colui che sa resistere a condizioni di assurdità. “Non è forse la Kenesset Israel un’entità coinvolta in una ‘assurda’ lotta per la sopravvivenza che dura da migliaia d’anni?” (Catharsis”, p. 45). “Forse che l’ebreo non dispiega eroica arroganza nell’affrontare il mondo attraverso i millenni? Forse che il minuscolo Stato d’Israele non dispiega eroica arroganza nello sfidare l’Onu? Noi ebrei della Diaspora non proviamo forse un senso di eroica solitudine e alienazione dalla società in generale ogni volta che il ‘problema israeliano’ fa capolino in una conversazione e siamo costretti a riconoscere la distanza incommensurabile del nostro punto di vista rispetto a quello della comunità politica internazionale? L’uomo solitario è un uomo coraggioso: protesta, senza temere nessuno; l’uomo sociale, viceversa, è incline al compromesso, cerca sempre di rappacificarsi, talvolta è persino codardo” (The Community, p. 10).
L’episodio biblico al centro dell’analisi del Rav è il combattimento di Ya’aqov con l’angelo. “Ya’aqov rimase solo e un uomo lottò con lui sino allo spuntar dell’alba. Vedendo che non ce la poteva fare, (l’uomo) lo toccò all’estremità del femore e l’estremità del femore di Ya’aqov si slogò mentre lottava con lui. L’uomo gli disse: ‘Lasciami andare che è spuntata l’alba’. E Ya’aqov: ‘Non ti lascerò finché non mi avrai benedetto’. E l’altro: ‘Come ti chiami?’ Rispose: ‘Ya’aqov’. ‘Non Ya’aqov sarai chiamato, ma Israel, poiché hai lottato con un essere Divino e con uomini e ce l’hai potuta’… E là lo benedisse” (Bereshit 32, 25-30). Commenta Rav Soloveitchik: “Ya’aqov agì in modo ‘assurdo’, contrario a ogni considerazione pratica. In altre parole, si comportò in modo eroico. Ya’aqov, solitario e privo di sostegno, osò sfidare un potente avversario in combattimento… Ya’aqov non manifestò koach, bensì ghevurah, eroismo, che è sempre impiegato allorché la ragione dispera e la logica si arrende…“. Per tutta la notte il Patriarca non cedette alle suppliche del nemico. “Tutto ciò che Ya’aqov avrebbe dovuto fare per condurre l’impresa a successo era distruggere il suo antagonista e così eliminare la minaccia di un ulteriore attacco”, ma “quando giunse il momento in cui Ya’aqov avrebbe potuto godere della vittoria, lasciò andare il suo aggressore e lo liberò” (Catharsis, p. 45 segg.).
Le mie considerazioni non sono dettate da ragioni di opportunità politica. Pur esprimendo dispiacere per tutte le vittime innocenti che ogni guerra travolge, dubito fortemente della possibilità concreta di una tavola di trattative che rechi a una soluzione duratura paritaria del conflitto in corso. Ciò per mancanza di un linguaggio e di una visione comune fra le parti. Chi afferma di crederci o lo fa per idealismo, o per ideologia. Al governo e all’esercito israeliano non resta al momento che riportare il massimo risultato possibile sul campo: “La fine dei malvagi è motivo di giubilo” (Mishlè 11, 10; Mishnah Sanhedrin 4, 5). Ma non fino alle estreme conseguenze. A un certo punto ci si dovrà fermare. In nome della nostra umana condizione. “La Halakhah ci insegna che a qualsiasi livello dell’esperienza esistenziale… si deve intraprendere un movimento dialettico, alternando la vittoria al ritiro… Proprio quando la conquista è a portata di mano e la via verso la realizzazione degli obiettivi è stata sgomberata da tutti gli ostacoli il vincitore, ormai prossimo a raggiungere tutto ciò cui il suo cuore ha anelato con ansia, deve cambiare il suo corso e cominciare a recedere” (ibid.). Allora gliene verrà una benedizione. “E Ya’aqov andò per la sua strada e messi divini pregarono per lui. Quando li riconobbe Ya’aqov disse: ‘Questo è l’accampamento di D.’ E chiamò quel luogo con il nome di ‘doppio accampamento’” (Bereshit 32, 2-3). “Allorché Ya’aqov entrò nel territorio dei suoi nemici, questa visione giunse a informarlo che erano più numerosi quelli dalla parte sua che dalla parte loro” (Nachmanide e R. Bachyè ad v.: cfr. 2Melakhim 6, 16).
Rav Alberto Moshe Somekh
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