David Piazza
Come tutti abbiamo imparato alle elementari la festa di Pèsach ha anche altri due nomi: Chag hamatzòt (festa delle matzòt) e Chag haaviv (festa della primavera). Ci soffermeremo sul primo: perché mai Pèsach viene chiamato festa delle matzòt e non festa della matzà? Come mai il simbolo di questa festa è al plurale? Una prima spiegazione possiamo trovarla nella Torà, quando per questa festa viene comandato di mangiare appunto matzòt (Es. 13, 6). Già, e perché la Torà parla della matzà al plurale?
Vediamo allora se la Haggadà e il sèder di Pèsach ci suggeriscono una soluzione.
Nella Haggadà e nei suoi commenti la matzà simboleggia, contemporaneamente, sia una cosa, sia il suo esatto contrario. La matzà è sia la schiavitù, perché è il pane povero che veniva dato agli schiavi; sia la libertà, perché è il pane che non ebbe tempo di lievitare, quello preparato al momento della fuga.
Questa distinzione, questa matzà, che in realtà sono due, la ritroviamo anche nella struttura del sèder perché c’è una matzà che mangiamo affamati: è quella del doppio hammotzì (benedizione del pane – matzà) prima del pasto festivo; e c’è una seconda matzà che mangiamo invece quando siamo sazi, alla fine del sèder: è l’afikòmen. La struttura è dunque: matzà della schiavitù – pasto – matzà della libertà (l’afikomen rappresenta il sacrificio pasquale che fu la prima richiesta fatta al faraone, la libertà religiosa).
La matzà non è però l’unica mitzvà di questa sera che viene spezzata in due. Infatti anche l’Hallèl (una serie di salmi di lode) viene recitato in parte prima del pasto, in parte dopo il pasto. Capiamo dunque che al centro di questa frattura che dobbiamo ricomporre c’è il pasto festivo. Sebbene per molti rappresenti solo una piacevole, e spesso molto aspettata pausa nel lungo cerimoniale del sèder, il pasto festivo è in realtà parte integrante della mitzvà centrale del sèder. Quello di Pèsach è infatti l’unico pasto dell’intero e complesso anno ebraico che è parte integrante di una mitzvà. In tutte le altre feste ebraiche è mitzvà consumare un pasto festivo, ma solo a Pèsach, questo è intimamente connesso a tutte le altre mitzvòt della festa
Infatti per l’ebreo non può esistere la libertà spirituale senza la libertà materiale, quella legata ai bisogni più immediati, più terreni, a meno di non compiere una fuga dalla realtà e da sé stesso. È probabile che questa concezione sia molto difficile da comprendere perché viviamo letteralmente immersi in una cultura e in una religione che ha violentato la materialità separandola dalla spiritualità.
Questo ci aiuta anche a comprendere l’enormità dello sforzo ebraico. Mangiare una semplice e banale coscia di pollo nel pasto festivo può assumere tutta la dignità di un profondo atto religioso. E contemporaneamente questo ridefinisce la profonda dignità di una qualsiasi altra coscia di pollo, mangiata in un qualsiasi altro momento dell’anno. Nelle parole dei Maestri la tavola è un piccolo santuario (mizbèach katàn) e ogni cibo deve essere preceduto e seguito da preghiere, dalle berakhòt. Assumendo il cibo l’uomo non solo compie la mitzvà di nutrirsi, di per sé lodevole perché sostiene una creatura di Dio, ma fa in modo che anche la Creazione divina esterna all’uomo, entri intimamente a far parte della sua natura materiale.
Capiamo allora anche la strana risposta data al figlio “malvagio” che nella sua domanda reputa probabilmente “banale” tentare di celebrare concetti così elevati come la libertà, con atti così semplici come mangiare erbette, marmellate di frutta e biscotti dietetici: “Che cos’è significa questo lavoro (questa scocciatura), per voi”? Del “malvagio” ci viene detto infatti “lo colpirai sui denti”, che non vuol dire certo colpirlo fisicamente. “Colpire sui denti”, secondo l’opinione del Safà Achàt, vuol dire fargli capire che l’atto religioso ebraico passa anche per i denti che masticano il cibo. Quel cibo materiale che è una delle porte per la spiritualità ebraica.