Tracce di una conversazione tenuta a Ravenna, 9 settembre 2012
Materia giudaica – Rivista dell’associazione italiana per lo studio del Giudaismo XVII-XVIII (2012-2013) – Giuntina
Questa conversazione introduttiva vuole proporre qualche notizia essenziale e qualche spunto di riflessione sul tema della morte e dei rapporti fra al di qua e al di là nell’Ebraismo.
1. Si può iniziare con un primo esempio di grande interesse, anche per la prospettiva di comunicazione culturale tra aree diverse, che viene dal tema del destino del corpo dopo la morte. Nella pratica rituale di una tradizione religiosa che non ammette la cremazione (su questo si discusse molto dalla metà dell’800 in avanti, soprattutto in Italia, dove la tecnologia della cremazione era molto sviluppata), il destino comune delle persone è quello della sepoltura nella terra. Quale che sia il modo di seppellire, perché è cambiato nel corso dei millenni, il destino del corpo è quello di decomporsi. Ma tutti i corpi si decompongono? E se un corpo non si decompone, perché? Su questo c’è un’interessante storia del Talmud (TB Baba Metzia 83b) – tanto interessante quanto misteriosa – che ha per protagonista rabbi Eleazar, figlio di rabbi Shim‘on ben Yochai; nella sua biografia vi sono gli anni della clandestinità, per proteggersi dalle persecuzioni romane, trascorsi in una grotta insieme al padre; è a questa situazione e a Shim‘on ben Yochai in particolare, che la tradizione attribuisce il fondamento delle dottrine mistiche ebraiche e la composizione dello Zohar.
Di rabbi Eleazar si racconta che a un certo punto diventò collaboratore delle autorità nella denuncia, nella cattura e nella punizione dei malfattori. Cosa che non piacque molto ad alcuni, che lo criticarono, perché non era quella la attività propria di un Maestro. Rabbi Eleazar entrò in crisi per le critiche e volle dare una strana prova fisica della sua assoluta rettitudine. Si fece prelevare con una operazione una parte del suo grasso – di lui si racconta, miticamente, che era estremamente obeso – e questo grasso venne esposto al sole nella stagione più calda dell’anno, nei mesi di tammuz e di av. La dimostrazione della rettitudine del Maestro fu che il grasso non andò in putrefazione. Di lui, poi, si racconterà che dopo la morte la moglie si tenne in casa, per anni, il corpo rimasto incorrotto. Degno di nota è il fatto che dopo aver fatto la prova sperimentale del grasso, il Maestro applicò a sé stesso il versetto che dice: ‘Anche la mia carne starà sicura’ (Salmo 16,9). ed è una citazione rilevante e intrigante, perché all’inizio degli Atti degli Apostoli (2:26), quando si parla di resurrezione, c’è una lunga citazione di questo verso. Questo fa vedere che c’è un terreno sotterraneo di comunicazione tra il mondo ebraico e il nascente mondo cristiano a proposito del destino dopo la morte e della in corruttibilità dei corpi di persone speciali.
La storia di rabbi Eleazar si collega un’altra storia talmudica (TB Shabbat, 152 a-b). Dei giardinieri scavarono un terreno di rav Nachman e rav Achai figlio di Yoshia, che era stato sepolto là, si adirò con loro. I giardinieri corsero a chiamare rav Nachman e dissero: «Un defunto si è arrabbiato con noi!». il Maestro, giunto di fronte alla tomba, disse: «Chi sei?» e quello gli rispose: «Io sono rav Achai, figlio di Yoshia» e rav Nachman gli disse: «Ma non ha detto rav Mari che anche i corpi dei giusti diventeranno polvere?» e il defunto rispose: «E chi è questo Mari?» La discussione prosegue con uno scambio di citazioni bibliche fino a che rav Achai spiega: «Dipende da come una persona si è comportata in vita, perché ‘L’invidia è la carie delle ossa’ (Pr. 14,30)»; le ossa di colui che in vita prova invidia, si sbriciolano dopo la morte, non così per le persone che non hanno provato invidia. E rav Nachman stesso, provando a toccare il corpo di rav Achai sentì che effettivamente non si era decomposto. Allora invitò il Maestro ad alzarsi e ad entrare in casa sua. Il defunto rispose: «Non conosci neppure il testo dei Profeti, dove è detto: ‘Voi riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe [e vi resusciterò dai vostri sepolcri]’ (Ez. 37,13)». Quindi bisogna aspettare, che a tirar fuori i resti delle persone, corrotte o non corrotte, dalle loro tombe, sia il Signore a farlo. Ma rav Nachman ribattè: «Non è detto, all’inizio della Torà: ‘Tu sei polvere e alla polvere tornerai’ (Gen. 3,19)?», come a dire: Come è possibile che il tuo corpo non si sia decomposto, e quello gli rispose: «Sappi che quel versetto riguarda ciò che accadrà ad ognuno un’ora prima della resurrezione dei morti».
Il messaggio è molto particolare. Secondo lo stile rabbinico non si fa un’esposizione dottrinale, ma le opinioni dei Maestri, spesso divergenti, emergono dai dialoghi e dalle storie.
Si sta qui affrontando il tema del destino del corpo e in particolare del corpo dei giusti; tema che, nella tradizione cristiana, si svilupperà nel motivo della incorruttibilità dei corpi dei santi; un’idea di cui è rimasta nel linguaggio comune l’espressione che una persona è morta «in odore di santità», perché altrimenti il corpo del normale peccatore si decompone mandando cattivo odore. Ma mentre nel Cristianesimo quest’idea si sviluppa molto, nell’Ebraismo ne sono presenti solo poche tracce, come nei brani che abbiamo visto. Il corpo del giusto rimane nella terra ma non si decompone nella polvere se non all’ultimo momento, checché ne pensi rav Nachman.
2. In generale la difficoltà di tutta questa materia è intenzionale, che comincia con la Bibbia e che nella Bibbia non si risolve; la Bibbia non dice esplicitamente cosa succederà, non c’è nessuna dottrina ufficiale, nessun apparato dottrinale chiaro. La Bibbia peraltro è un documento che nella sua composizione si estende per un notevole arco di secoli e che quindi raccoglie idee che sono nate e si sono sviluppate in luoghi e in tempi differenti. Sul perché di questa reticenza c’è una risposta precisa: è un disegno, una scelta religiosa e culturale. L’attenzione della vita religiosa ebraica e della fede deve essere tutta concentrata su questo mondo, quali che siano le cose che possano succedere dopo la vita in questo mondo. La nostra preoccupazione è agire e comportarci bene in questo mondo. Dopo si vedrà. Per questo motivo la Bibbia non ci dà notizie precise sull’al di là.
L’esempio più eclatante è la normativa che riguarda i sacerdoti. Il popolo ebraico nasce come popolo uscendo dall’Egitto. Si pensi a cosa ha lasciato l’Egitto. Nella maggior parte dei suoi monumenti e documenti si tratta di questioni correlate alla morte, a cominciare dalle piramidi. Nella religione egiziana il potere sacerdotale controllava la morte. Tuttora controllare la morte, o lasciar credere di poterla controllare, è una grande chiave di potere. Il messaggio biblico va in direzione opposta vietando ai sacerdoti di contaminarsi al contatto dei cadaveri (Lev. 21,1); gli unici cadaveri che i sacerdoti possono avvicinare sono quelli dei parenti stretti. I sacerdoti toccano i cadaveri solo per necessità; con gli altri cadaveri non devono avere niente a che fare. Il sacerdozio ebraico che si configura all’uscita dall’Egitto è in polemica con la religione egiziana; il sacerdozio si esercita nella vita e il contatto con la morte ne impedisce e compro mette l’esercizio. È una rivoluzione completa.
3. Alla ricerca di tracce bibliche si possono citare varie situazioni. Isaia (26,19) invoca la fine della morte e annuncia il risveglio di ‘Coloro che dormono nella polvere’. Un grandioso capitolo di Ezechiele (37) parla delle ossa che rinascono. Le ossa dicono: ‘La nostra speranza è perduta, è stato deciso per noi’ (v. 11), ma mentre il profeta parla, le ossa si ricompongono. Tutto sta a interpretare quella visione, che certamente può essere letta in modi differenti. Può essere la rappresentazione della risurrezione dei morti, oppure è un’immagine metaforica, che parla della rinascita e della risurrezione del popolo ebraico distrutto. Oppure entrambe le cose, nel senso che il tema della resurrezione del popolo ebraico distrutto usa come riferimento simbolico una fede condivisa nella possibilità che le ossa ritornino all’esistenza. la discussione continua ancora. Si pensi che l’inno nazionale del popolo ebraico si chiama Ha-Tiqwah, la speranza, per ché un verso dice: ‘La nostra speranza ancora non è finita’ riprendendo il verso di Ezechiele, con un passaggio – non inconsueto in ambito ebraico – dalla dimensione profetica e metafisica a quella politica.
In 1 Samuele (2,6) nella preghiera di Hannah, futura madre di Samuele, compare la frase: ‘Il Signore fa morire e fa vivere, fa scendere nello She’ol e ne fa risalire’. Il Signore è padrone dello She’ol, riesce a controllarlo e dominarlo, c’è possibilità di uscirne, c’è la possibilità per i morti di rivivere.
4. Secondo la Bibbia, l’essere umano è formato di terra, nella quale viene insufflato uno spirito divino (Gen. 2,7); quindi l’essere umano è composto da una componente materiale e da una spirituale, che deriva direttamente da Dio. A questo punto si crea un’unità ed è sul mantenimento e sul destino di questa unità, che viene meno con la morte, che si discute. È possibile un destino separato per anima e corpo, almeno transitoriamente? Sembrerebbe che l’idea della immortalità dell’anima sia relativamente recente, se non altro perché non esiste un termine ebraico antico per definirla. Ma esistono altre forme di lettura.
Già in Genesi 3,19 leggiamo: ‘Tornerai alla polvere’. Si è visto sopra come alcuni Maestri leggono queste parole. Ma cosa significa questo ritorno e quando avviene? Quando si parla della morte di personaggi importanti, come i patriarchi, Mosè, Aronne, è detto che la persona muore e ‘Si riunisce alla sua gente’ (Gen. 25,8 e 17; 35,29; 49,33; Deut. 32,50). Su questo argomento ha detto delle cose molto importanti Elia Benamozegh (in un testo ripubblicato recentemente: L’immortalità dell’anima, Edizioni La Parola, Roma 2008). La sua idea è che il tema del ‘riunirsi alla propria gente’ abbia una conferma al negativo in un istituto giuridico della Bibbia, il karet, lett. ‘recisione’. Per alcune gravi trasgressioni (omessa circoncisione, Gen. 17,14, consumo di cibi lievitati a Pasqua Es. 12,15, rispetto del Sabato Es. 31, 14 ecc.) la pena divina è il karet. la Bibbia dice che la nefesh (l’anima, la persona ecc.) colpevole sarà ‘recisa dalla sua gente’. I testi giuridici non danno una spiegazione univoca di questa punizione, perché qualcuno parla dell’interruzione della linea generazionale, nel senso che la persona non avrà discendenti; qualcun altro parla di morte prematura. Benamozegh nota invece che questa espressione è il corrispettivo negativo di quella che esprime il riunirsi ai propri padri, come a dire che è una punizione che riguarda una condizione post mortem, nella quale le persone che si sono comportate bene o per lo meno non hanno commesso certe gravi trasgressioni, si riuniscono ai propri antenati, mentre invece chi si è comportato male non potrà riunirsi ai suoi. Esiste dunque dopo la morte, in questa prospettiva, un destino speciale per la parte spirituale della persona.
5. In epoca post-biblica le dottrine si organizzano. C’è l’idea fondamentale della risurrezione dei morti, sostenuta dai rabbini, che diventa un pilastro della tradizione e troviamo nella preghiera quotidiana, nella seconda benedizione, dove diciamo che il Signore ‘Fa rivivere i morti’. All’inizio dell’era cristiana c’era una vivace discussione su questa idea, che proveniva dal fariseismo, mentre i sadducei non la accettavano (cfr. anche Atti, 23,6).
In epoca rabbinica compare un’altra idea, quella del ‘olam haba, il mondo a venire. Conosciamo l’idea ma non sappiamo bene cosa sia. Il problema è il posto di questa idea rispetto ad un’altra prospettiva della fine dei tempi, l’epoca messianica. Nelle varie interpretazioni dottrinali i concetti si possono sovrapporre o distinguere sia sul piano temporale che su quello reale e metafisico. Già nel Talmud (TB Sanhedrin 99a) Shemuel, un Maestro dell’inizio del III sec., affermava che l’unica differenza tra questo mondo e i giorni del Messia è l’asservimento di Israele ai regni; l’indipendenza politica è già messianesimo. Se l’epoca messianica è pura condizione politica, il mondo a venire potrebbe essere invece qualcosa fuori dalla realtà quotidiana.
Che cosa succede, poi, nella resurrezione dei morti? Come è possibile la risurrezione dei morti, quando il morto è già decomposto? Cos’è che risorge? Sembrerebbe che la unità originaria di spirito e materia si vada a ricomporre. Ma come è possibile? il Signore, che ha creato l’uomo dal nulla, può tranquillamente fare cose che noi umani non possiamo fare.
Queste discussioni hanno anche strani impatti nella realtà di oggi. Ci sono delle questioni tecnico mediche, per esempio. Circola la storia di un’anziana signora, in Israele, che doveva subire un’amputazione per motivi medici, ma che si rifiutava perché chiedeva come avrebbe fatto, alla risurrezione dei morti, a restare senza gamba. Sono dovuti andare a parlare dei rabbini importanti per convincerla. E ancora, quando si parla di trapianti o cose del genere, c’è sempre qualcuno che ha queste preoccupazioni, che segnalano la distanza tra interpretazioni letterali e implicazioni simboliche.
6. Si è parlato prima di nefeš, l’anima. Nefeš, nella Bibbia, può significare la persona, ma anche la parte spirituale della persona. Ma partendo dal libro dei Salmi, abbiamo cinque definizioni, o cinque nature diverse di anime: nefeš, ruah, nešama, haya, yehida.
Tutte queste realtà indicano il movimento vitale, ma se siano livelli differenti, non lo sappiamo, perché su questo la tradizione biblica non dà nessuna spiegazione. Solo successivamente si sono sviluppate delle teorie e interpretazioni. Per cui vi sono delle esposizioni dottrinali che spiegano cosa vola via subito dal corpo, appena interviene la morte, cosa rimane attaccato al corpo, cosa aleggia attorno al corpo, quanto gli sta vicino, quanto se ne allontana e così via.
Una delle frasi più ricorrenti nelle iscrizioni tombali, ben difficile da rendere in un italiano decente, è: ‘Che la sua nefesh sia messa nel fascio dei viventi (tzerura bixeror ha-hayyim)’. Questo corrisponde al pensiero dello Zohar, secondo il quale esistono tre mondi nella realtà dell’uomo: il primo è quello a cui tutti apparteniamo e che finisce con la morte; il secondo è il giardino dell’Eden inferiore e il terzo è il Fascio della vita (cfr. 1 Sam. 25, 22). I Maestri della mistica ebraica dicono che il destino di ogni persona è di passare attraverso questi tre livelli. Il destino normale, come quello dell’insetto che passa per la fase larvale prima di quella adulta.
Cos’è che ha prodotto il peccato? Il peccato non ha prodotto la morte, ma il dolore collegato alla morte. Se non ci fosse stato il peccato, non ci sarebbe il dolore, l’angoscia, che noi attribuiamo alla morte. Secondo questa concezione, la morte non è che il passaggio da una dimensione all’altra. I mistici si sono dilungati nello spiegare queste situazioni.
7. Un altro campo affascinante, del quale nella Bibbia non si parla assolutamente e non se ne parla per secoli, è il tema della trasmigrazione delle anime, il gilgul lett. ‘la rotazione’. Ci sono diverse di dottrine su questo tema. L’anima, dopo la morte di una persona, può ritornare alla sua radice originaria, oppure necessita altri passaggi in questo mondo. Questa dottrina compare ufficialmente solo a un certo punto della storia ebraica e pare che il tramite di questa dottrina, che era diffusa nell’antichità, dai pitagorici al mondo indiano, sia il canale dei Caraiti; da quando entra nel mondo ebraico qualcuno la prende molto seriamente, altri la rigettano. Ma è una dottrina che può essere molto utile: vi sono dei nodi difficili da risolvere nel pensiero religioso, come quello della sofferenza del giusto. La dottrina del gilgul offre una facile chiave di soluzione.
Le scuole che accettano questa dottrina spiegano alla sua luce alcuni dati biblici, per esempio affermando che alcuni personaggi biblici sono la reincarnazione di altri personaggi precedenti. Già Mosè è una reincarnazione. Però non è detto che tutte le anime si incarnino e che tutti siano a loro volta reincarnazione di qualcuno. C’è un’idea che il Messia non verrà fino a quando non finiranno tutte le anime che sono nel guf, lett. ‘il corpo’ cioè una sorta di deposito metafisico, nel quale sono tutte le anime che devono scendere sulla terra. Qualcuna scende, compie la sua missione, torna subito, altre invece no. La dottrina del gilgul ha una sorte molto strana e articolata nel pensiero ebraico e convive abbastanza tranquillamente con tutte le altre dottrine che abbiamo detto.
8. Uno sviluppo particolare della dottrina del gilgul va tenuto presente nello studio del fenomeno della possessione. È l’idea che una persona sia dominata, posseduta da uno spirito estraneo, che entra nel suo corpo e la costringe a fare delle cose incontrollabili. In chiave di possessione si può interpretare già la storia biblica della malattia psichica del re Shaul. L’idea della possessione appare solo due volte nel Talmud. Mentre nel Nuovo Testamento ai discepoli di Gesù viene data la forza di esorcizzare. E qui si vede già una differenza culturale importante. in un determinato e tardo momento della storia ebraica, dalla fine del XVI sec. in avanti, sotto l’influenza della cabalà lurianica, che ammette una grande circolazione di anime, che stanno dappertutto, e che un corpo possa ospitare molte anime, si verificano nel molto ebraico molti episodi di possessione. Dal punto di vista fenomenologico il posseduto cristiano e quello ebreo si comportano allo stesso modo. E molto spesso anche i riti di liberazione sono interscambiabili. Ma dal punto di vista dottrinale, la differenza è radicale, perché nella dottrina cristiana lo spirito che possiede è diabolico, mentre per il pensiero ebraico lo spirito può essere un’anima trasmigrata, cosa che nel Cristianesimo non è ammissibile.
9. Un altro grande capitolo riguarda le punizioni dopo la morte che meriterebbero da sole una esposizione dettagliata. La dottrina ebraica è su questo, come sempre, variegata e non definita. I malvagi vengono puniti e i giusti premiati, ma come questo avvenga con precisione non si sa. un punto abbastanza diffuso è che tranne speciali eccezioni la pena non sia eterna, e che duri un periodo limitato, entro i dodici mesi dalla morte. In epoca tarda (dal XVI sec. circa) si diffonde l’angoscia per una punizione, che è chiamata chibbut haqever, lett. ‘percussione della tomba’; appena morta la persona viene presa in carico da angeli un po’ cattivelli, che frustano e sbatacchiano il poveretto per fargli scontare le sue colpe. e tutto questo ovviamente genera angoscia, tanto che sono state formulate anche delle preghiere contro la ‘percussione della tomba’.
Viene raccomandato a tutti di non correre a far uscire il Sabato, perché con l’uscita del Sabato si ha la ripresa dell’attività punitiva all’inferno. Ma dov’è l’inferno? Se ci si pensa il Sabato, nei suoi tempi di ingresso e di uscita, dipende dal luogo dove si abita e perciò non possiamo pensare che ci sia un inferno di Roma, uno di Ravenna, uno di Gerusalemme, ecc. eppure ciascuno nel proprio posto può influenzare l’inferno e la riapertura delle sue attività. Ma questo fa pensare che molto spesso quando si parla di inferno si intende quello di questa terra e quindi si cerca di ritardare l’uscita del Sabato per non ripiombare troppo in fretta nelle proprie sofferenze dell’inferno della vita.
10. Un’idea importante che si fa strada nell’ebraismo è che anche i morti abbiano bisogno di espiazione. Un midrash antico, che si trova nel Sifre, discute il versetto di Deuteronomio 21, 8 in cui si parla del caso in cui venga trovato un cadavere del quale non si conosce l’assassino; qui compare una frase, che va recitata dalle persone che devono compiere la cerimonia espiatoria: ‘espia per il popolo di Israele, che hai redento…’. Perché si sottolinea ‘che hai redento’? Il midrash spiega che coloro per cui si espia sono i vivi, mentre i redenti sono i morti.
Questo dimostra la presenza antica dell’idea che i morti abbiano bisogno di espiazione. Ma potrebbero essere affari loro. In un momento successivo compare un altro midrash – non sappiamo esattamente a che data risalga, ma potrebbe essere di poco posteriore al precedente – che dice che noi possiamo aiutare i morti, che stanno soffrendo per le loro colpe. Ma quest’idea non entra senza difficoltà nell’Ebraismo, perché qualcuno non la accetta, affermando che noi non possiamo fare nulla per aggiustare i conti di quanti hanno sbagliato. Dall’altra parte c’è una corrente che, invece, accetta l’idea della possibilità di aiutare i morti.
Quando il Cristianesimo sviluppa la dottrina delle preghiere in ‘suffragio’ delle anime del Purgatorio, ci troviamo di fronte a una tipologia analoga. Però nell’Ebraismo questa idea si fa strada con difficoltà. Di questo risente la liturgia per i defunti; tutti i riti ebraici che riguardano i defunti si svolgono con estrema semplicità. Abbiamo una quantità di regole che determinano come i vivi si devono comportare nei confronti dei defunti; ma abbiamo solo poche regole che disciplinano quello che si deve fare per le anime dei defunti. Così compare il rito fondamentale della recitazione del Qaddish, una preghiera in aramaico, che si recita tante volte durante la liturgia della giornata e serve per suggellare la fine di un ciclo di preghiere. anche nel corso delle preghiere della mattina, quando un blocco di preghiere è finito, si dice il Qaddish. Ci sono Qaddish di diverse dimensioni: questa preghiera è un’esaltazione del Nome di Dio, è una supplica perché si realizzi il suo regno; il Padre Nostro cristiano ha espressioni analoghe. Ma il Qaddish non dice una parola sui morti. Eppure è un rito fondamentale che i sopravvissuti, soprattutto il figlio del defunto, debbano recitare il Qaddish 11 mesi dopo la morte. Ci si ferma a 11 mesi, per ché nessuno è così malvagio da dover scontare le colpe per 12 mesi. L’istituzione di questo uso particolare della preghiera è interessante. C’è una storia raccontata in un tardo testo rabbinico, nel quale si attribuisce a rabbi Aqiva di aver incontrato una persona disperata, schiacciata da un enorme carico di legna e allora, commosso, il rabbi gli chiede chi sia e questi gli rivela di essere l’anima di una persona morta. Questa persona in vita riscuoteva le tasse, risparmiando i ricchi e tartassando i poveri. Morto lui, la gente lo maledì, insieme alla moglie e tutta la famiglia. Questo individuo era stato condannato, post mortem, a bruciare e la legna che si portava sulle spalle era quella che doveva servire al suo rogo quotidiano. Rabbi Akiva gli chiede se può fare qualcosa per lui e lui gli racconta della moglie e del figlio. Il rabbi va a cercare il figlio, un monellaccio, lo recupera e gli insegna il Qaddish, perché il defunto cattivo aveva sentito che se qualcuno avesse recitato per lui il Qaddish e il pubblico avesse risposto esaltando il Nome di Dio, come si fa in questa preghiera, egli sarebbe stato riscattato. Rabbi Aqiva redime il ragazzo, con molta fatica e un digiuno di 40 giorni, gli insegna il Qaddish il ragazzo lo recita di fronte alla congregazione, la quale risponde e l’uomo viene liberato dalle sue sofferenze.
La morale è appunto che noi attraverso il Qaddish possiamo aiutare la persona defunta. Ma siamo in un campo in cui la preghiera per il morto non ha niente a che vedere col morto. È questa la chiave fondamentale. Noi facciamo l’esaltazione del Nome di Dio e in tal modo ricomponiamo una certa unità, che è stata alterata da un comportamento scorretto.
Le preghiere che si fanno per i defunti, perché la persona defunta riposi in pace, provengono da tradizione molto diverse anche tra i vari riti ebraici. Per es. il rito ashkenazita è estremamente reticente nel fare preghiere per i defunti, sia nelle rare occasioni dell’anno in cui le fa, sia nelle formule che impiega; i sefarditi, invece, elaborano preghiere molto complicate. Ma questo non senza polemiche e questo fa capire come la liturgia per i defunti sia un argomento molto controverso. Si può dimostrare che quello che succede, almeno dall’ultimo secolo, nelle comunità italiane, anch’esse reticenti a fare certe cose, sia il risultato di un influsso sefardita.
11. In coerenza con la reticenza tradizionale sul tema della morte, va rilevato che nella tradizione ebraica abbiamo pochi libri sulla morte; il primo a scriverne uno fondamentale è stato il mantovano Aron Berekhia di Modena, chiamato Ma’avar Yabboq “Il passaggio dello Yabboq”. Dopo questo sono pochissimi i libri dedicati alla morte e prevalentemente sulle regole di lutto. Uno di essi è Gesher ha-Hayyim “il ponte della vita” di rav Yechiel Tukachinski. È in questo libro che compare questo racconto (che probabilmente non è di origine ebraica): due gemelli discutono nel grembo materno, uno è scettico, l’altro è pieno di speranza. Uno ha voglia di uscire, l’altro no. Discutono tra loro se convenga uscire o no. Chi vuole uscire pensa che gli si apra un nuovo mondo, chi non vuole uscire pensa che dovrà rinunciare alle comodità della vita che conduce, per finire chissà dove. A un certo punto la madre ha le doglie e i due sono espulsi dal grembo materno e uno dice: «Oddio, sono morto!» e l’altro: «No, ho appena cominciato!». Questa è una grande metafora. Dietro sta l’idea fondamentale dello Zohar, per il quale questo mondo e questa vita non siano che una fase di passaggio tra una dimensione e l’altra.
Riccardo Di Segni – Rabbino capo di Roma