Da una derashà di Rav Sacks
Nella parashah di Ki tissà si consuma un dramma profondo. Appena quaranta giorni dopo avere assistito alla rivelazione divina, il popolo ebraico si fabbrica un vitello d’oro. D. minaccia di distruggerli. Mosheh per risolvere la situazione affronta a turno H. e il popolo ebraico. D.o si lascia convincere, ma nel discorso Mosheh fa un appello quantomeno strano, che leggiamo alla fine del brano che leggiamo come parashah nei digiuni (Shemot 34,9): “Se io trovai favore presso di Te, degnati di procedere in mezzo a noi, poiché questo popolo è di dura cervice, ma Tu perdonerai i nostri peccati e i nostri trascorsi e ci considerai popolo del Tuo retaggio”.
Il verso presenta una evidente difficoltà. Mosheh presenta l’ostinatezza del popolo ebraico, che era il motivo principale per cui D. voleva abbandonarli, come il motivo per rimanere con loro. In particolare la difficoltà risiede nella particella kì, che introduce normalmente una proposizione causale. I commentatori forniscono varie spiegazioni. Alcuni, come Rashì, la intendono come “se”: se il popolo è di dura cervice, perdonalo. Altri, ad esempio Ibn ‘Ezrà e Chizquni, come “anche se”: anche se sono ostinati, perdonali. Leggendo il verso così il senso del termine kì è snaturato. I Ramban ha un approccio diverso, e sostiene che il termine vada inteso letteralmente. D. deve essere in mezzo a loro perché sono un popolo dalla dura cervice. Proprio perché sono ribelli hanno bisogno di un D. che perdona.
Il modo migliore per trattare un bambino ribelle è avere l’attenzione di un genitore amorevole. Ramban anticipa di qualche secolo l’audace preghiera del maestro chassidico Levì Ytzchaq di Berditchev, che proponeva un accordo: noi abbiamo molti peccati, Tu hai molto perdono. Scambiamo i nostri peccati per il Tuo perdono. E se dicessi che non è uno scambio equo, se non avessimo molti peccati, cosa te ne faresti del Tuo perdono? Un’interpretazione ancora più sorprendente arriva da Rav Ytzchaq Nissenbaum, che attribuiva a Mosheh questo tipo di argomentazione: perdona questo popolo, perché quello che oggi è il suo più grande vizio, sarà la sua virtù più eroica. Sono davvero un popolo ostinato, quando hanno tutto e dovrebbero ringraziarTi, si lamentano. Appena ascoltata la Tua voce si fanno un vitello d’oro. Ma allo stesso modo in cui si mostrano indolenti nella loro disobbedienza, saranno un giorno intransigenti nella loro lealtà. Le nazioni spingeranno per assimilarli, ma si rifiuteranno. Vorranno convertirli, ma resisteranno. Soffriranno umiliazioni, persecuzioni, torture e persino la morte per via della loro fede, ma rimarranno fedeli alla loro alleanza. Andranno alla morte dicendo Ani maamin, io credo. Questa loro ostinazione, che oggi è fonte di disperazione, sarà la loro forza più nobile.
Pensare che Rav Nissenbaum sia vissuto e morto nel Ghetto di Varsavia dà ancora più intensità alle sue parole. Molti secoli prima il midrash aveva detto che ci sono tre cose imperterrite, il cane fra gli animali, il gallo fra i volatili e Israele fra le nazioni. Spiega il Ralbag, un popolo può essere lento ad acquisire una fede, ma una volta che lo ha fatto, non la abbandonerà mai. Tantissime storie narrano di come gli ebrei si siano mostrati pronti ad affrontare il martirio. Lo stesso concetto di Qiddush ha-Shem, santificazione del Nome divino, è associato nella letteratura halakhica con il principio yehareg weal ya’avor – si faccia uccidere piuttosto che trasgredire. Nel II sec. quando a Lod i chakhamim stabilirono che il principio valeva solo per tre precetti (idolatria, omicidio, incesto) intendevano limitare il fenomeno, piuttosto che incoraggiarlo. Lo storico Shelomò ibn Verga narra un episodio riguardante la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Una delle navi era infestata dalla peste. Il capitano della nave lasciò i passeggeri a riva in un luogo disabitato. La maggior parte di loro morì di fame, mentre alcuni raccolsero le ultime forze in cerca di un qualche insediamento. Fra loro c’era un ebreo che lottava per la vita assieme a sua moglie e ai suoi figli. La moglie morì, e di lì a poco anche i figli.
L’uomo si alzò e disse al Signore che sino ad allora aveva fatto di tutto per fargli abbandonare la fede. Ma lui era perfettamente conscio del fatto che anche contro la volontà del Cielo sarebbe rimasto ebreo. Nessuna altra disgrazia che sarebbe potuta arrivargli avrebbe potuto farlo desistere. Questa storia ha ispirato Yossl Rakover si rivolge a D. Questa idea potrebbe spiegare il famoso passo della ghemarà in Shabbat, nel quale è scritto che H. rovesciò la montagna sopra di loro, dicendo che, se avessero accettato la Torah, bene, altrimenti quella sarebbe stata la loro tomba. Questa, commenta la ghemarà, è una grossa pecca per la presunta accettazione della Torah. Ma, spiega Ravà, il popolo ebraico l’avrebbe accettata nuovamente ai giorni di Assuero. Il popolo ebraico sul Sinai non poteva fare altro che accettare, era appena stato salvato dall’Egitto, aveva assistito all’apertura del Mar Rosso, alla caduta della manna e all’uscita dell’acqua dalla roccia. In quel momento non poteva comportarsi diversamente.
Ma il vero esame è quando la presenza divina è nascosta ai nostri occhi. Ravà porta una giustificazione testuale dal libro di Ester, il libro in cui il nome divino non compare. Lo stesso nome di Ester rimanda all’idea del nascondimento divino. Israele è minacciato di essere sterminato, e nonostante tutto mantiene la propria ebraicità. Faccia a faccia con D. si mostra disobbediente, ma a confronto con la Sua assenza, rimane fedele. Questo è il paradosso di un popolo dalla dura cervice. A volte gli ebrei trovano difficoltà ad inchinarsi a D., ma rifiutano di inchinarsi a qualsiasi cosa Gli sia inferiore. Per questa loro caratteristica gli ebrei in esilio, dispersi e in minoranza, non si sono mai assimilati alla cultura o alla fede dominante. A volte essere testardi è un nobilissimo pregio.