“Non vendicarti e non conservare rancore verso i figli del tuo popolo, e desidera per il tuo prossimo quello che desideri per te; Io sono il Signore” (Waiqrà 19,18). In questo versetto troviamo tre comandamenti distinti, due negativi ed uno affermativo: i divieti di vendicarsi e serbare rancore, e la mitzwàh di amare il proprio prossimo come se stesso. In questo breve passaggio troviamo tre dei comandamenti più difficili da mettere in pratica. Come per qualsiasi altra mitzwàh della Toràh è indispensabile comprenderne i dettagli e individuarne l’ambito di applicazione. Ci concentreremo sulle prime due mitzwot, i divieti di vendicarsi e serbare rancore.
Quando qualcuno subisce un’offesa fisica o verbale, la reazione naturale è quella di ribattere. Ogni tipo di reazione è condannata dalla Toràh? Il Sefer ha-chinukh (mitzwàh 338) pensa di no. Infatti è impossibile che una persona rimanga impassibile come una pietra di fronte a un’offesa. Il silenzio inoltre in qualche modo giustificherebbe l’affronto subito. La Toràh non ci chiede questo, ma piuttosto di allontanarci da questa predisposizione e soprattutto vuole che non siamo noi a offendere per primi. Questo è ancora più vero quando si parla dei nostri genitori, per i quali, anche in presenza di un vero affronto, siamo tenuti a tacere. Per gli altri casi, il sentimento spontaneo e la successiva reazione immediata non sono condannati dalla Toràh. Siamo invece tenuti a reprimere quei sentimenti di vendetta che emergono dopo che la ferita iniziale si è sanata. Questo sembra essere implicito nelle parole del midrash riportate da Rashì: se X si rifiuta di prestare la sua falce a Y, e all’indomani X chiede l’ascia a Y, Y non deve rispondere che non presterà l’ascia in quanto ieri X non ha prestato la falce, perché in questo modo trasgredirebbe il divieto di vendicarsi. Se la richiesta di X fosse stata immediata, e non fosse arrivata il giorno successivo, rifiutandosi, Y non avrebbe trasgredito al divieto.
Il Talmud in massekhet Yomà (23a) afferma che rispetto a chi è insultato e non risponde si applica quanto è detto nel verso “e sarà come il sole nella sua forza”. Questo passaggio, citato anche dal Sefer ha-chinukh, aggiunge un elemento importante. E’ vero che la risposta immediata non è vietata, ma chi riesce a trattenersi, per via del suo atto pietoso, ottiene un’enorme ricompensa dal cielo. Difatti, prosegue il Talmud, in questo modo otterrà il perdono dal Cielo per tutte le sue colpe. Ma varie volte la Toràh ci parla di vendetta; persino H. viene definito nei Tehillim (cap. 92) un Dio vendicativo. Anche la guerra contro i midianiti (Bemidbar 31) è una guerra di vendetta. Sotto certi aspetti la vendetta è una forma di giustizia, e alcune volte è consentita o persino comandata. Ma molto spesso chi si vendica ci mette del proprio. La vendetta serve a rimuovere i sentimenti negativi di chi è stato offeso, e spesso non serve a ristabilire la giustizia.
Come si dice, la vendetta è dolce. Si dice che poi che la vendetta è un piatto che va servito freddo. Questa è la vendetta che la Toràh condanna, perché non è costruttiva. La Mishnàh (Bavà Qamà 92a) riporta la regola seguente: anche se una persona ha risarcito colui che ha danneggiato, non sarà perdonato, sino a quando non avrà chiesto perdono alla vittima. Da dove sappiamo se il danneggiato non perdona dopo aver ricevuto la richiesta è da considerarsi crudele? Da Avraham, che pregò per la guarigione di Avimelekh. Da qui impariamo che non c’è un obbligo di perdonare sino a quando ciò è richiesto, e che chi non perdona è considerato crudele, ma non necessariamente un trasgressore. Il Ritvà (Rosh ha-shanàh 17) spiega che esistono vari gradi: il non serbare rancore, cioè non covare sentimenti negativi nei confronti di chi ha procurato il danno, e in seconda battuta il rinunciare a intraprendere qualsiasi azione contro il danneggiatore. Chi è stato offeso ha una pretesa legittima, che può trovare seguito in un tribunale, terrestre o celeste esso sia. Il non serbare rancore ristabilisce i rapporti interpersonali precedenti all’offesa, ma non esclude comunque la possibilità di rivolgersi a un tribunale. La mechilàh, il perdono totale, deve essere concesso solo a fronte di una richiesta esplicita, e la mancata concessione ci permette di etichettare chi rifiuta come crudele, ma non è detto che il rifiuto sia vietato.
C’è da notare però che R Bechayè attribuisca conseguenze disastrose, che avrebbero influenzato pesantemente la storia ebraica successiva, al rifiuto di Yosef di perdonare i fratelli. Il Terumat ha-deshen (1, 307) sembra indicare che ci sia un obbligo di perdonare anche quando ciò non è richiesto. Questo non esime il danneggiatore dal chiedere perdono, ma anche prima che questo avvenga chi è danneggiato deve rimuovere tutti i sentimenti malevoli dal proprio cuore. La ghemarà in Yomà sembra applicare il divieto solamente a questioni economiche, escludendo pertanto l’offesa fisica o verbale, ma sia il Rambam che il Sefer ha-chinukh non accolgono questa distinzione. Ma come evitare di vendicarsi? Il Ramchal in Mesilat Yesharim (cap. 11) si confronta con questo problema, concludendo che una persona deve superare le proprie tendenze, rimuovendo quanto capitatole dal proprio cuore, come se non fosse mai avvenuto. Ma ciò è facile per gli angeli, che non hanno queste predisposizioni. Per gli uomini certamente sarà più dura… Ma c’è poco da fare, è un decreto del Re. D’altra parte, se un re in carne ed ossa ci obbligasse a patire, non ribatteremmo, perché avremmo paura di una punizione ben più severa. Tanto più varrà per il Re dei re. Il Ramchal tuttavia in quel brano non propone una soluzione. In altri passi scrive che per cambiare le nostre tendenze naturali, che non possiamo controllare direttamente, dobbiamo modificare gli aspetti sui quali abbiamo potere, e in questo modo arriveremo a cambiare la nostra interiorità. Attraverso lo studio, assorbendo le verità della Toràh, possiamo cambiare i nostri atteggiamenti. I chakhamim hanno fatto varie considerazioni, spesso difficili da accettare, su questo divieto.
Il Talmud Yerushalmì (Nedarim 9,4) paragona chi si vendica a chi si taglia una mano, perché questa si era resa colpevole di aver danneggiato l’altra mano. E’ difficile rendersene conto quando si è invischiati in certe situazioni, ma Israele è riunito sotto un’unica anima nazionale, e per questo forse questo divieto è accostato al comandamento di amare il proprio prossimo; vendicarsi in un certo senso significa danneggiare noi stessi. Il Sefer ha-chinukh (mitzwàh 241) ritiene invece che nulla al mondo sia casuale. Se abbiamo ricevuto un’offesa, a monte c’è un decreto divino, e chi ci ha danneggiato sarebbe pertanto solo un messaggero celeste, risultando in qualche modo scaricato della responsabilità diretta nei nostri confronti. Come si dice: ambasciator non porta pena! Il Sefer Charedim (73,4) sottolinea quanto detto in Yomà: se il trattenerci può condurci al perdono divino, perché mai dovremmo soffrire per via dei nostri peccati? Il nemico poi, dice il Mishlè (25,21) avrà da imparare dai nostri comportamenti virtuosi, e questa forse, mostrando al malvagio dove ha sbagliato, sarà la vendetta più grande. Certo è, che se tanto grande è la ricompensa per il rispetto di queste mitzwot, non sarà semplice metterle in pratica secondo quanto prescritto.