«Religioni e Società» · xxx · 83 · Settembre-Dicembre 2015
In Judaism does not exist only the written Torah, term for the first part of the Bible, the Pentateuch, but also the oral Torah that is the rabbinical tradition that from its origins to today gives different interpretations to the ancient texts. Jewish tradition cannot be fundamentalist in the sense of a unique and exclusive reading, because the text is a basis for reasoning and discussing and not to close the discussion. The concept of tolerance also should be better specified.
Nella Bibbia ci sono due brani, nel Levitico 19 e Deuteronomio 22, che riportano il divieto di indossare abiti confezionati con tessuti differenti: chi non osserva questo divieto è un trasgressore come lo sarebbe anche il Papa che veste abiti confezionati con tessuti differenti. Questa tesi è un chiaro paradosso che permette di mettere in luce il sistema di ragionamento rabbinico.
Effettivamente si tratta di una norma che gli ebrei sono tenuti ad osservare. C’è una precisa tradizione interpretativa che spiega che in ogni capo di abito che si indossa non debbano esserci insieme fibre di diversa natura, specificamente lana e lino, come dicono i versi. Quando vi sono delle norme di questo tipo nella Bibbia le possibilità interpretative sono essenzialmente due, quella restrittiva e quella allargata. Cosa che avviene sia nella tradizione religiosa dell’ebraismo che in molti altri sistemi giuridici laici. L’interpretazione allargata comporta che le due specie citate nella Bibbia siano lì solo a titolo esemplificativo, e ciò che è proibito è qualsiasi mescolanza di due specie differenti, come potrebbero essere cotone e lana, cotone e lino, o anche le specie sintetiche recenti, con nylon, che non esistevano ai tempi della Bibbia. Invece se si applica l’interpretazione restrittiva, il divieto vale solo per lana e lino. Ed è effettivamente quello che fa la tradizione rabbinica, in questo caso. Chi ascolta questa spiegazione la potrà considerare più o meno interessante dal punto di vista dell’esercizio giuridico e intellettuale, ma per un ebreo osservante sono regole da rispettare quotidianamente. Per farlo abbiamo dei laboratori specializzati che esaminano i tessuti, perché abbiamo scoperto che non ci si può fidare delle etichette del produttore. È un esempio evidente di come una norma di origine remota sia rispettata in un certo modo in un certo mondo; e il fatto che il papa la rispetti o meno è una chiara dimostrazione di come da una comune radice – come è il testo biblico – si possa partire a percorrere strade completamente differenti.
Si noti che questa regola nel capitolo 19 del Levitico proprio al verso successivo a quello in cui compare la regola «ama il prossimo tuo come te stesso» (che solo gli ignoranti dicono sia una regola originale evangelica). La chiesa segue la regola del verso 18 e non quella del verso 19. Così per tante altre regole del Levitico e del Pentateuco. E fino a qui abbiamo messo in evidenza qualche punto essenziale: che partendo da uno stesso testo normativo si può arrivare a conclusioni molto differenti: restringerne il più possibile l’applicazione, o allargarla al massimo, o semplicemente ignorarla. La tradizione non può essere fondamentalista, nel senso di una lettura unica ed esclusiva, perché il testo è una base su cui ragionare e discutere e non chiudere la discussione.
Non si possono comprendere questi principi se non si tiene presente che per l’ebraismo non esiste solo la Torà scritta, termine che indica la prima parte della Bibbia, il Pentateuco, ma anche la Torà orale, che è la tradizione rabbinica che dalle origini ad oggi interpreta in continuo divenire i testi antichi. È chiamata «orale» perché era tale l’opposizione a rendere questo corpo, una volta scritto, duro e immutabile che i Maestri se lo trasmettevano di bocca in bocca, da bocca ad orecchio. Se fosse stata messa per iscritto sarebbe stato inevitabile un congelamento. Ma a causa delle vicende storiche che colpirono l’ebraismo nei primi due secoli dell’era cristiana (distruzione del Tempio, perdita dell’indipendenza, dispersione) per evitare la perdita del patrimonio, la Torà orale fu trascritta in vari codici. Ma subito si aprirono delle scuole dalle posizioni contrapposte; c’erano, appunto quelle che dicevano, con una tendenza che potremmo oggi chiamare «fondamentalista», che la tradizione unica fosse solo quella del codice principale, la Mishnà (anche se in questo co dice compaiono sistematicamente divergenze di opinioni); altre scuole erano più aperte contrapponendo varie tradizioni e stimolando la discussione da punti di vista anche opposti. C’era (e ancora esiste) un gusto particolare nella discussione, potendo dimostrare per qualsiasi cosa, come una bottiglia d’acqua, con 49 ragionamenti che fosse impura e con altri 49 che fosse pura, tutto grazie a virtuosismi interpretativi. Da tutto questo appare chiaramente che la nostra tradizione non può essere fondamentalista.
Tuttavia, non c’è affatto bisogno di essere fondamentalisti per essere violenti, fare del male, uccidere, distruggere il mondo. E d’altra parte non è l’essere fondamentalista, di per sé, a costituire una natura violenta e distruttrice. Si può essere fondamentalisti in modo privato, personale, coltivando un approccio rispettoso ai testi della tradizione, senza che questo implichi necessariamente un rapporto aggressivo e intollerante verso l’altro. Si prenda per esempio la prima pagina del libro della Bibbia che racconta che il mondo è stato creato in sette giorni. Se si confronta questo dato con le attuali conoscenze geologiche, che parlano di un’età della terra che si misura in milioni di anni, il conflitto è evidente. Dal conflitto si esce dando al racconto biblico una lettura simbolica. Eppure vi sono coloro che, da bravi fondamentalisti, sostengono che se la Bibbia dice che sono stati sette giorni e non milioni di anni, chi ha ragione è la Bibbia. Personalmente seguo la prima opinione, rifiutando l’interpretazione letterale, ma non voglio essere intollerante nei confronti di chi si ferma a sostenere l’interpretazione letterale. Contro un’opinione che si ritiene sbagliata si possono e si devono usare le armi del dialogo e della persuasione, ammettendo comunque libertà di pensiero. Se invece si criminalizza il dissenso con l’accusa di fondamentalismo, che sarebbe la madre di tutte le violenze, probabilmente l’intollerante è l’accusatore e non l’accusato. Finché la convinzione personale si limita a un modo diverso di leggere le scritture e non comporta atteggiamenti aggressivi verso l’altro, se la risposta è l’insulto o la condanna, il torto è di chi insulta. Certo la distinzione tra l’atteggiamento verso le scritture e quello verso gli altri può essere sottile, facile da attraversare, ma non può essere ignorata.
Il concetto di tolleranza va meglio specificato. Anche la tolleranza può essere un termine rischioso, quando è un termine egemonico in cui si esprime il rapporto di forza tra un potere forte, ma che è capace anche di essere benevolo e paternalista, e una minoranza che opera in maniera deviante rispetto alla maggioranza. Tolleranza non è in questi termini un termine ugualitario, ma è una benigna concessione della maggioranza ad una minoranza deviante, un po’ strana e peccatrice, ma in sostanza colpevole solo di qualche peccatuccio perdonabile. Si pensi all’uso linguistico ancora presente in italiano di definire certi luoghi «case di tolleranza» dove si praticano determinati comportamenti sessuali che sarebbe meglio che non ci fossero, ma che si ‘tollerano’ chiudendo un occhio benevolo forse per evitare mali maggiori. Se il rapporto tra differenti pensieri religiosi, filosofici, politici è nei termini della tolleranza, è già un bel progresso rispetto a quando e dove la tolleranza non c’è, ma è sempre un rapporto in cui c’è un dominante e un deviante cui viene consentita la sua stranezza. Ben altro il rapporto in cui c’è uguaglianza e convivenza di diversi sullo stesso piano.
Il problema è quello della religione che si fa strumento autoritario che non consente dissenso. In questi giorni ha destato clamore e curiosità il dialogo che si è aperto su un grande quotidiano, La Repubblica, tra l’ex direttore di quel giornale e il Papa, sui temi fondamentali del momento. Non da parte del Papa, ma dell’anziano ex direttore, che aveva studiato temi religiosi in gioventù – ma forse non si era aggiornato – e sono stati rispolverati antichi temi di contrapposizione religiosa: l’idea di un Dio buono contro un Dio cattivo, il Dio del cosiddetto Antico Testamento, che sarebbe un Dio di giustizia e vendicativo, a confronto con il Dio di amore del Nuovo Testamento. E’ stata un’idea trionfante per secoli, arma potente nel bagaglio cristiano antiebraico. Ma oggi non c’è un teologo cristiano serio che non ammetta che questa teoria sia profondamente sbagliata, una bestialità dal punto di vista dottrinale, perché il Dio biblico è insieme giustizia e amore e non è mai cambiato, e sostenere il contrario può diventare anche uno strumento criminale per l’uso che ne è stato fatto e che potrebbe ancora esserne fatto. Perché mette un mondo religioso contro l’altro, uno si definisce buono e condanna l’altro come brut to e cattivo; tutto il contrario dell’atto di amore che si vorrebbe fondante della propria fede. Qualcuno però potrebbe osservare: ma come si fa a sostenere che il Dio dell’Antico Testamento sia un Dio di amore, quando è lo stesso Dio che ad esempio nel Deuteronomio comanda di distruggere completamente alcuni popoli, quindi istigatore al genocidio? E’ una domanda affascinante, e tentando di risponderle siamo nel pieno del tema che discutiamo. In realtà non c’è bisogno del Deuteronomio, il quinto libro della Bibbia, per parlare di eventi tragici, perché già nelle sue prime pagine, nella Genesi, c’è la storia della distruzione totale (con una sola famiglia superstite) dell’umanità e delle specie animali con il diluvio universale, direttamente provocato da una decisione divina. E poi c’è la distruzione di Sodoma e Gomorra, punite per la loro malvagità. Nella Bibbia c’è una violenza diffusa e allarmante, non solo da parte dei malfattori, ma anche da parte di Chi li punisce. Che senso ha tutto questo oggi? Una cosa è chiara: se diamo a questi dati una lettura ‘fondamentalista’ allora diventiamo veramente pericolosi. Se ci ispiriamo a questi racconti senza mediazione possiamo essere distruttivi. La risposta è che fin dalla remota antichità non è esistita una Bibbia scritta senza una Bibbia orale, un testo che prescindesse dalla tradizione, che invece insegna a leggere ed interpretare i dati. Un testo è sacro per la tradizione ebraica nella misura in cui può essere interpretato, è un punto di partenza, non di arrivo. Senza questa mediazione il testo è un’arma, con la mediazione è un mezzo potente di crescita che porta ad affermare che l’intolleranza è impossibile.