Vittorio Zincone
Riccardo Di Segni, 58 anni, da sei è rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la più antica della diaspora occidentale, senza interruzioni di continuità. Lo incontro nel suo studio blindato della Sinagoga. È romanissimo. Quando gli chiedo quanto costa una fetta della leggendaria torta di ricotta della pasticceria del Portico d’Ottavia, risponde: «Un botto». E se accenno a una facile equazione tra leggi israeliane e tradizione ebraica, obietta: «Ma manco pe gnente». Quello che è appena trascorso lo si potrebbe definire il febbraio grigio dell’ebraismo italiano: le polemiche sullo Stato di Israele ospite della prossima Fiera del libro a Torino, il suo incontro mancato con l’imam di Roma, il ritorno della Preghiera per gli ebrei, quella in cui i cattolici chiedono di riconoscere Gesù come salvatore, la lista on line dei prof ebrei…
Di Segni, che cosa succede?
«La lista dei professori è una baggianata. Frequento i blog, e di cose trash ne incontro molte. Per il resto… Ci sono tanti problemi irrisolti. Che riemergono».
Tutti insieme.
«È una coincidenza».
Con Papa Ratzinger è tornata la Preghiera per gli ebrei. I fedeli “tradizionalisti” la reciteranno il prossimo venerdì Santo. Lei ha minacciato la sospensione dei rapporti con la Chiesa cattolica.
«Ci siamo solo presi una pausa di riflessione. Quella preghiera non è il presupposto giusto per un dialogo come lo intendo io».
Lei come intende il dialogo?
«Come uso della parola per rispettarsi».
Benedetto XVI ha un altro approccio?
«Sin da quando era cardinale, Ratzinger diceva che il dialogo è missione».
Tradotto?
«Per Ratzinger il dialogo serve a convincere l’altro che è lui a sbagliare, per farlo passare nelle proprie file. Già i presupposti storici lo rendono complicato, se poi il dialogo assume queste finalità…».
Presupposti storici. Lei ha dichiarato: «Storicamente i cristiani hanno sterminato molti più ebrei dei musulmani».
«Quello è un dato storico. Non a caso Giovanni Paolo II ha parlato di pentimento. Il pericolo fisico per gli ebrei ora viene da un’altra parte».
Parla delle minacce a Israele?
«La metà degli ebrei del mondo vive lì. E poi non sono pochi quelli che non fanno distinzioni tra ebrei e israeliani».
Di chi parla?
«Alla vigilia della visita alla nostra sinagoga da parte dell’imam della grande moschea di Roma, l’Università Al Azhar del Cairo ha proclamato: “Con gli ebrei non si tratta finché non si risolvono i problemi della Palestina”».
L’incontro è saltato. Si farà un giorno?
«Speriamo. Ma non c’è ancora una data certa».
Lei ci andrebbe in visita alla moschea?
«Io ci sono stato due anni fa. Era più nutrita la nostra delegazione della loro. Per diversi gruppi islamici la nostra presenza era inaccettabile. Molti ci considerano ambasciatori dello Stato di Israele».
Stato di Israele la cui presenza alla prossima Fiera del libro di Torino è stata contestata. Gianni Vattimo…
«Non parliamo di quel grande intellettuale».
La contestazione?
«Sembra non tener conto del fatto che noi siamo il popolo del libro».
Come, scusi?
«Ha mai sentito parlare della Bibbia? Lei può immaginare questo mondo senza la Bibbia? In realtà queste contestazioni sono viziate da una delle ossessioni dell’ostilità anti-ebraica: la delegittimazione. Per cui lo Stato di Israele non ha diritto di esistere».
L’ostilità anti-ebraica è una cosa, quella contro il governo israeliano è un’altra. O no?
«La seconda è una nuova forma della prima».
Messa così, risulta difficile contestare il governo israeliano senza rischiare di apparire antisemiti.
«La maggior parte degli scrittori israeliani più noti nel mondo sono critici col loro governo».
Appunto. Non sarà un po’ prevenuto nei confronti di chi, per esempio, chiede più diritti per i palestinesi?
«Prevenuto? Ogni volta devo constatare un doppio standard: le azioni degli “oppressori israeliani” sono sempre sbagliate e quelle degli “oppressi palestinesi” sempre giuste».
Il processo di pace. Speranze?
«Non ne so più dell’uomo della strada. Non mi faccia fare analisi politiche».
Allora facciamo analisi sociali. Sui simboli. Il crocefisso in classe…
«Nei luoghi pubblici ci dovrebbero stare solo i simboli dello Stato: la bandiera, i simboli comuni. E in uno Stato laico un simbolo religioso non è un simbolo comune. Detto questo, non sono disposto a fare la guerra per togliere il crocefisso. C’è? Ci rimanga».
Velo o non velo?
«Non mi pare che qualcuno contesti l’abito alle suore, o la mia kippà, quindi…».
Il velo islamico come la kippà ebraica?
«Il velo islamico per le donne è segno di modestia, la kippà di sottomissione, ma… sì, sono entrambi segni identitari».
Nel 2003, l’ex missino Gianfranco Fini in visita in Israele indossò la kippà.
«Il segno di un processo di maturazione storica».
D’Alema a passeggio per le vie di Beirut con un deputato di Hezbollah, che segno era?
«Dico solo che nella Comunità ebraica romana quella passeggiata ha avuto un impatto».
È vero che nella Comunità romana molti votano An?
«…uhm… Non ne ho la minima idea».
E chi ci crede?
«Da quello che so i voti della Comunità sono spalmati su tutti i partiti».
Che cosa vota?
«Non mi pare opportuno dirlo».
Lei una volta ha detto: «Tra ebrei italiani e sinistra c’è un legame intrinseco».
«Quel legame, ispirato alla giustizia sociale, è entrato in crisi per colpa dell’atteggiamento pregiudiziale di una certa sinistra».
Lo ha conosciuto, Fini?
«Sì, all’inizio del mio mandato, nel 2002. Mi si chiese di portare avanti un processo di chiarimento. Fu un incontro molto criticato: all’epoca i rapporti di Fini con la Comunità non erano ottimi».
Lo ha rivisto?
«Sì, anche a cena, a casa di amici comuni. Ha mangiato kasher anche lui, ovviamente».
D’Alema, lo ha incontrato?
«Certo. Noi dialoghiamo con tutte le forze ed esponiamo le nostre problematiche».
I primi tre punti di un governo Di Segni?
«Non esageriamo. Comunque: la lotta contro l’ostilità anti-ebraica, l’impegno per la pace in Medio Oriente e il sostegno alla promozione della cultura ebraica».
In campagna elettorale si deve parlare di questioni cosiddette “eticamente sensibili”?
«L’importante è che laici e religiosi abbiano la stessa dignità di parola».
Lei è stato accusato di essere ruiniano, perché contrario ai Dico…
«In Italia su temi come famiglia e bioetica c’è una polarizzazione tra laici e cattolici, come se non esistessero altre scelte. Io ho solo espresso contrarietà su un aspetto specifico dei Dico».
Quale?
«I diritti delle coppie omosessuali».
In Israele le coppie gay possono adottare…
«Quello che avviene in Israele non è detto che sia conforme alla tradizione ebraica. Israele è una democrazia che legifera come gli pare: altro che Stato teocratico».
Una parte della comunità ebraica di Torino le ha rinfacciato di imitare i modelli cattolici.
«Io difendo la tradizione ebraica. Punto. Ci sono cose che non hanno inventato i cattolici. È chiaro o no? Il cardinal Ruini non c’entra».
Ruini secondo lei fa politica?
«Direi che ha intuizioni politiche geniali».
Che cosa pensa della moratoria sull’aborto?
«Le dico solo che io non posso permettere ciò che è proibito e non posso proibire ciò che è permesso».
Si mette a fare gli indovinelli?
«Nell’ebraismo per salvare la vita della madre è permesso sopprimere il feto a qualsiasi età».
Una religione femminista?
«Non esattamente. È pura difesa della madre».
Attraverso cui si trasmette l’ebraismo stesso. La famiglia. La sua che origini ha?
«Mio nonno materno, che non ho mai conosciuto, era rabbino a Ruse in Bulgaria. Mio padre era medico. E venne radiato dall’Albo con le leggi razziali del 1938. Io sono nato nel dopoguerra, ma sono cresciuto con l’incubo di quel che successe in quegli anni. Ricordo i racconti dei cugini deportati… Quei racconti fanno parte della nostra formazione».
Lei ci è mai stato ad Auschwitz?
«Non ci sarei mai voluto andare. Alla fine ho ceduto. Ci sono arrivato con uno dei viaggi organizzati da Veltroni con i ragazzi delle scuole. Veltroni ha un approccio pedagogico straordinario. Si metteva a tavola con gli studenti e passava la sera a discutere».
Torniamo alla sua infanzia.
«Scuola ebraica e poi il liceo Virgilio».
Chi c’era?
«Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. A proposito di dialogo… Lui è uno che lo promuove davvero».
Lei aveva 19 anni nel ’68.
«Ero iscritto a Medicina a Roma. Ho vissuto la contestazione e occupato la Facoltà».
Contestò pure la sua Comunità?
«Sì. Ero studente del collegio rabbinico. E spesso ero da solo in classe. La mia coscienza religiosa era agli antipodi del modo un po’ blando di vivere l’ebraismo della Comunità».
Negli Anni 70 lei ha scritto per il manifesto.
«Un paio di volte. Finiti gli studi, cominciai a fare il radiologo, cosa che faccio tuttora. In quel periodo, di fronte alla scelta se partire per Israele o restare a Roma, scelsi di restare».
Era già sposato?
«Sì, mi sono sposato a 25 anni. Ho tre figli».
Per lei sarebbe stato pensabile un matrimonio con una non ebrea?
«No. In nessun modo».
È vero che la sua è una generazione di rabbini italiani molto più rigida e più ortodossa rispetto alla precedente?
«La Comunità italiana si è sprovincializzata».
In che senso?
«Prima l’ebraismo italiano era isolato. Perché troppo lontano dalla tradizione. Con un approccio laico dominante. Tra l’altro le sinagoghe sono tornate a crescere».
Quante persone conta la sua comunità?
«Tredicimila».
Solo?
«Siamo pochi… ma rumorosi».
È vero che lei il sabato non risponde al cellulare?
«Certo. Chiunque sia osservante non risponde».
Ma lei è un medico.
«L’unica eccezione sono le questioni di vita o di morte. Ho una segreteria telefonica apposta».
È vero che ai suoi fedeli suggerisce pure la preparazione dei cibi kasher?
«Il rabbino suggerisce le norme rituali. È il suo compito principale, prima del dialogo con D’Alema o con Fini».
Il libro della vita?
«Fontamara di Ignazio Silone».
Il film?
«Il giorno più lungo sullo sbarco americano in Normandia».
Cultura generale. Sessant’anni della Costituzione? L’articolo 7 che cosa dice?
«Che cosa dice?».
È quello sui rapporti tra Stato e Chiesa. Quanto costa un litro di latte?
«La spesa la faccio raramente».
I confini dell’Iraq?
«Iran, Giordania, Turchia e un pezzettino di quello Stato che hanno invaso…».
Il Kuwait. Lei era favorevole alla guerra in Iraq?
«In linea di massima sì, ma col senno di poi…».
http://vittoriozincone.it/2009/06/26/riccardo-di-segni-magazine-marzo-2008/