Conferenza Kesher – Milano
Nella società contemporanea, in cui le immagini sono onnipresenti, il secondo comandamento (Non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutto quanto esiste in cielo al di sopra o in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra – Es. 20,4) e il suo corollario in Es. 20,23 (Non associate a Me nessuna divinità né d’argento né d’oro), con la loro apparente proibizione di riprodurre persone e fenomeni naturali può sembrare eccessivo[1]. La ricezione del comandamento nei commenti rabbinici dà luogo a posizioni molto distanti fra di loro, da quella di Nachmanide, che condanna solo le immagini che vengono adorate, a quella di Sforno, che vieta la produzione di qualsivoglia immagine, anche se non destinata al culto idolatra.
L’ambito visivo ci colpisce fortemente. Molte potentissime immagini, tratte dall’ambito “religioso”, come la distruzione di templi e statue da parte dei talebani e dell’ISIS, o “laico”, come il crollo delle Twin Towers, sono bene impresse nella nostra mente, e negli ultimi anni ci hanno posto nuovamente e dolorosamente a confronto con il tema dell’iconoclastia.
Nel mondo di oggi la società civile spesso fa un uso scorretto dell’immagine; i corpi ed i volti perfetti che ci circondano ci suggeriscono di trovarci di fronte ad una nuova forma di idolatria secolarizzata della forma umana, e questo rende attuale oggi, forse più che in altre epoche, dominate da altri medium, la riflessione sull’atteggiamento che l’ebraismo ha nei confronti delle arti visive. Aprendo un articolo sulla questione[2] Harold Rosenberg scriveva che c’è una risposta non ebraica e una ebraica alla domanda se esiste un’arte ebraica. La risposta non ebraica può essere “sì, esiste un’arte ebraica” o “no, non esiste”. La risposta ebraica è “cosa intendi per arte ebraica”?
La questione fa parte di un tema ben più generale, che è quello del rapporto fra Torah e chokhmah, la relazione che c’è fra sacro e secolare. E’ noto che uno degli elementi che maggiormente caratterizzano l’ebraismo è la santificazione, per mezzo della norma, dell’ordinario. La domanda è se l’arte figurativa può trovare un posto all’interno di tale sistema[3].
Il secondo comandamento nell’occidente moderno
Il secondo comandamento ha rivestito un ruolo molto importante nella storia della cultura occidentale. La domanda è sino a quanto questo comandamento abbia influenzato strutturalmente la coscienza ebraica, tanto da renderla, come alcuni hanno sostenuto, incapace di elaborare una produzione artistica autonoma[4]. Joseph Gutmann, uno storico dell’arte, famoso per i suoi studi sull’iconografia ed i manoscritti ebraici, ha scritto un articolo nel quale negava sostanzialmente la possibilità di parlare di un’arte ebraica come qualcosa di unico e distintivo.
Immanuel Kant nella Critica del giudizio usa il secondo comandamento per spiegare la categoria di sublime: “Forse nel v’è nel libro delle leggi degli ebrei un passo più sublime di questo comandamento[5]”. Lo stesso Kant, assieme ad Hegel, è uno dei principali responsabili della diffusione dell’idea che all’interno del mondo ebraico vi sia una promozione di un sostanziale aniconismo[6]. Di qui la perentoria, diffusa affermazione di Wagner, che in Das Judenthum in der Musik (1850) considera gli ebrei incapaci di produrre reale musica, così come di produrre una qualsivoglia specie di reale arte.
L’assenza di un Michelangelo o di un Raffaello ebrei per molti sarebbe sufficiente ad avvalorare questa tesi. Per lungo tempo gli artisti non hanno avuto un ruolo preminente all’interno delle comunità ebraiche, anzi ne rimanevano ai margini: numerosi artisti erano ebrei, ma la loro ebraicità era vista in tensione con l’espressione artistica, o tuttalpiù li portava ad allontanarsi da alcune specie di rappresentazioni figurative.
La presunta sospettosità del mondo ebraico per l’espressione artistica tout court non è giustificata dalla lunga storia della produzione artistica ebraica, principalmente in ambito cultuale, caratterizzata chiaramente dalle limitazioni, più o meno ampie, imposte dalla halakhah. In tal senso è importante tenere in debita considerazione l’approccio rabbinico mettendolo in relazione con i rapporti con la popolazione non ebraica. Rapporti più tesi conducono ad una condanna più ferma, mentre relazioni maggiormente pacifiche portano ad una riappropriazione dell’elemento visivo[7].
E’ giusto segnalare però che l’idea che esista una tradizione artistica ebraica continua dal periodo biblico ad oggi, che trascenda le espressioni locali, non sia condivisa da tutti[8].
L’idolatria in alcune fonti classiche
Una delle principali opere filosofiche ebraiche, la Guida dei perplessi di Maimonide, come è noto, è finalizzata principalmente e anzitutto a contrastare la falsa credenza della corporeità divina. Lo scopo principale della legge nella sua globalità è porre fine all’idolatria, cancellandone le tracce ed i monumenti e distruggendo tutto ciò che può portare ad essa[9]. Maimonide tuttavia non condanna in termini assoluti la produzione artistica. Negli Otto Capitoli (cap. 5) scrive che l’uomo deve dedicare tutti i propri sforzi alla conoscenza della divinità. Vi sono tuttavia delle condizioni, come la depressione, che contrastano questa ricerca. Per uscirne vengono forniti vari consigli, fra cui la visita di luoghi che ospitino opere d’arte.
Spesso il divieto di idolatria e fare immagini vengono identificati, arrivando in taluni casi a scambiare la causa per l’effetto, probabilmente per via delle elencazioni bibliche e talmudiche, che conducono all’idea che sia vietato fare sculture o immagini di qualsiasi cosa, sia essa un corpo celeste, una figura umana, un animale, una creatura angelica o demoniaca[10]. Questa estensione del divieto getta luce sulla sua logica: non è l’immagine in sé e per sé ad essere vietata, ma l’uso che se ne fa. L’idolatria presenta degli aspetti soggettivi e relativi. Due persone possono compiere la medesima azione di fabbricare una statua e solo una può essere punita perché è un idolatra[11].
Nella Mekhiltà un filosofo interroga Rabban Gamliel sul motivo per il quale il Signore, se gli idoli sono inutili e falsi, non li distrugga del tutto; Rabban Gamliel mostra come le cose non siano così semplici. Non c’è un solo oggetto di adorazione, tutto può essere idolatrato. Non è vietato solo rappresentare la divinità, ma anche gli idoli. Quest’ultima categoria non è definibile in maniera univoca, stabilendo aprioristicamente cosa includa e cosa no. Non ci si rivolge all’essenza dell’idolatria, ma all’uso che se ne fa[12]. La Mishnah in ‘Avodah zarah (III,4) stabilisce che “è proibito tutto ciò che viene usato come divinità, ma ciò che non viene usato come divinità è permesso”. Uno stesso oggetto può essere pertanto permesso o proibito in base all’uso che se ne fa.
Segni di apertura
L’interesse degli studiosi ultimamente si è accresciuto, e sempre più con insistenza, da più parti, si afferma che l’espressione artistica è parte integrante del pensiero e dell’identità ebraica[13]. La vita e i gusti di vari rabbini sono una testimonianza importante su questo approccio: il rabbino Profiat Duran per esempio univa il suo amore per la Torah a quello per le arti figurative, sebbene in un contesto sacrale. Si diceva convinto del fatto che gli studiosi dovessero affrontare la materia leggendo splendidi manoscritti miniati in sontuose sale di studio, perché in questo modo l’amore per lo studio aumenterà, la memoria migliorerà e l’anima si espanderà. Anche il fatto che il genere della ritrattistica rabbinica sia esploso nell’età moderna, inizialmente in Italia e ad Amsterdam, è sintomo di un atteggiamento meno chiuso di quanto potremmo immaginare.
Le scoperte recenti archeologiche, in particolare quella degli affreschi della sinagoga di Dora Europos nel 1932 hanno mostrato come il peso dell’aniconismo, quantomeno in ambito cultuale, fosse inferiore a quanto si pensasse.
Rav Soloveitchik in Halakhic Man scriveva che l’uomo è partner di D. nella creazione. Ricevendo la Torah sul Sinai l’uomo diviene un creatore di mondi; l’interpretazione creativa è la fondazione della tradizione ricevuta. L’essenza stessa della Torah è la creatività intellettuale[14]. Da questo punto di vista è interessante pensare a come l’arte ed il processo creativo possano essere istruttivi nello studio della Torah, dal momento che la creatività è considerata un aspetto da coltivare e sviluppare.
Certo è che la bellezza è un aspetto non secondario nella pratica delle mitzwoth, essendo sancito a più riprese il concetto di hiddur mitzwah (abbellimento del precetto), in base a Es. 15,2[15]. L’hiddur mitzwah si riferisce a oggetti di uso rituale, come un bel lulav, un bel tallit, ecc.
D’altro canto non è possibile non notare che nell’ebraico classico non esista un termine per designare l’arte. Riferendosi al termine omanut, utilizzato nell’ebraico moderno, Eliezer Ben Yehudah lo considerava coniato di recente[16].
Nella Bibbia i brani più significativi sull’arte sono di certo quelli che riguardano la costruzione del Mishkan e del Bet ha-miqdash. Il nome dell’artista che ha prodotto gli arredi del Mishkan, Betzalel (all’ombra di D.), è indubbiamente significativo, perché attesta in quel caso l’ispirazione divina della produzione artistica, così come è riportato nella ghemarà[17], dove R. Yehudah affermava che Betzalel sapeva combinare le lettere con cui il cielo e la terra furono creati.
La vista nella teologia ebraica
Il medium prediletto nella rivelazione è quello dell’ascolto. L’ascolto della divinità viene preferito alla vista e gli conferisce un vantaggio, quantomeno perché in ebraico, così come quando diciamo in italiano “dare ascolto”, ascoltare corrisponde ad obbedire[18].
Il pensiero ebraico moderno è stato largamente influenzato dalla visione di Hermann Cohen, che riteneva che il secondo comandamento avesse indirizzato l’anima ebraica, per via della dipendenza dal linguaggio, verso la razionalità ed il lirismo verbale[19]. Questo assunto è sviluppato dal grande storico Heinrich Graetz, il quale in The Structure of Jewish History assume che la rivelazione greca sia visiva, mentre quella ebraica verbale; le divinità greche possono essere viste, ma non il D. d’Israele, che può essere ascoltato, ma non visto[20]. Da tale visione deriva la fortunata idea di Heschel secondo cui la santità nel tempo ha nell’ebraismo una maggiore centralità rispetto alla santità nello spazio[21]. Anche Martin Buber, che considerava la rinascita artistica in terra di Israele un passaggio fondamentale nella formazione della nazione, era dell’idea che vi fosse nel giudaismo antico una tendenza verso la dimensione orale, piuttosto che quella visiva, e verso il tempo, piuttosto che lo spazio[22]. Un simbolo potente del rifiuto della dimensione visiva è che, quando si recita il primo verso dello Shemà, e si riconosce la divinità sopra di sé, si coprono gli occhi[23]. Probabilmente questo indirizzo è stato condizionato, nel mondo moderno, da vari fattori concomitanti, come la replica al pregiudizio antisemita che accusava gli ebrei di essere materialisti, l’iconoclastia cristiana e il mito che la predisposizione per il ragionamento astratto e l’arte non figurativa derivassero dall’aniconismo ebraico[24].
Questo tipo di approccio negli ultimi decenni è stato significativamente rivisto, da vari studiosi. Elliot Wolfson per esempio respinge quelle visioni che considerano l’ebraismo totalmente aniconico come una grossolana, eccessiva semplificazione. Nella tarda antichità e nel medioevo troviamo infatti, in particolare presso i mistici, una rivalutazione della vista, ed anzi una sua priorità a livello epistemologico rispetto agli altri sensi[25]. Anche K. P. Bland in The Artless Jew[26] considera quello dell’aniconismo ebraico un mito moderno, che non rende giustizia allo sviluppo dell’arte ebraica, principalmente nel medioevo.
Le immagini nella halakhah
L’idea che l’ebraismo rifiuti le raffigurazioni artistiche a causa del secondo comandamento ha una tradizione relativamente lunga, che risale almeno al XVIII sec.
Le principali opere halakhiche si rapportano ai divieti concentrandosi sulla limitazione nella scultura di forme umane intere, di corpi celesti e figure angeliche.
Al divieto delle immagini lo Shulchan ‘Aurkh dedica il capitolo 141 di Yoreh de’ah, inserito nella sezione sull’idolatria. La quarta halakhah è fondamentale per comprendere le limitazioni nelle rappresentazioni. Anzitutto è vietato rappresentare in rilievo, anche a scopo puramente decorativo, creature celesti, come il Carro di Ezechiele e le figure angeliche, e così la figura umana. Dalla ghemarà[27] emerge che lo status particolare dell’uomo deriva dal suo essere creato ad immagine divina. Se la rappresentazione non è a rilievo, è permessa. Secondo alcuni il divieto per la figura umana si riferisce solo alla rappresentazione completa, ma è permesso rappresentare una testa da sola o un corpo senza testa[28]. Il Ramà scrive che questo è l’uso comune. La rappresentazione dei corpi celesti, il sole, la luna, e le stelle è proibita in ogni caso. La rappresentazione a scopo didattico dei corpi celesti è consentita. Lo Shakh ritiene che la rappresentazione parziale dei corpi celesti, non comprendendone tutti i particolari, sia permessa. Il Ramà riporta l’opinione di alcuni, che, basandosi sulla ghemarà[29] permettono queste rappresentazioni per il pubblico, dal momento che il pubblico, ad esempio in una sinagoga, non può essere sospettato di compiere atti idolatrici. E’ permesso rappresentare animali e vegetali, persino in rilievo[30]. Vi sono poi limitazioni nella rappresentazione delle forme del Santuario e degli arredi in essi contenuti. E’ permesso però produrre una menorah con cinque, sei o otto bracci, ma è vietato riprodurre una menorah con sette bracci anche con altri metalli che non siano l’oro[31].
Il principio fondamentale che emerge è che le rappresentazioni del divino, del mitico, dell’umano e dei corpi celesti devono essere incomplete. I volti umani per essere halakhicamente accettabili devono essere manchevoli. Quello della distorsione non è un elemento peculiare solo dell’arte ebraica, anche i manoscritti medievali cristiani includevano deliberatamente degli errori o delle imperfezioni, per ricordare che la perfezione artistica rappresenterebbe un’appropriazione idolatrica della perfezione divina[32].
[1] Vedi M. Raphael, Judaism and the Visual Image, a Jewish Theology of Art, London-New York 2009, p. 1.
[2] H. Rosenberg, Is there a Jewish Art?, Commentary, July 1966, p 57.
[3] D. Ross Goodman, Some Notes on Religion and the Arts, Milin Havivin 7, p. 159.
[4] Vedi S. Nashman Fraiman, A Jewish Art, Milin Havivin 7, p. 72.
[5] I. Kant, La critica del giudizio, Roma-Bari 1984, p. 182.
[6] R. Mbee, Contemporary Jewish Art: The Challenge, Milin Havivin 7, p. 41.
[7] R. Mbee, cit., p. 42.
[8] M. Raphael, cit. p. 8.
[9] Vedi R. Di Castro, Il divieto di idolatria tra universale e particolare, mondodomani.org/dialeghestai/rdc01.html
[10] R. Di Castro, cit.
[11] Vedi L. Kochan, Beyond the Graven Image, Hampshire 1997, p. 94.
[12] Vedi R. Di Castro, cit.
[13] M. Raphael, cit., p.2.
[14] J. B. Soloveitchik, Halakhic Man, Philadelphia 1983, p. 82.
[15] TB 133b.
[16] S. Fine, Lernen To See: “Modernity,” Torh and the Study of Jewish “Art”, Milin Havivin 7, p. 24.
[17] TB Berakhot 55a.
[18] M. Raphael, cit., p. 3.
[19] M. Raphael, cit., p. 3.
[20] M. Raphael, cit., p. 3.
[21] G. J. Blistein, Art and the Jew, The Torah u-Madda Journal 10/2001, p. 164.
[22] Vedi S. Nashman Fraiman, cit., p. 75.
[23] M. Raphael, cit. pp. 3-4.
[24] M. Raphael, cit. p. 5.
[25] M. Raphael, cit. pp. 4-5.
[26] K. P. Bland, The Artless Jew: Medieval and Modern Affirmations and Denials of the Visual, Princeton 2000.
[27] TB Rosh ha-shanah 24b.
[28] Shulchan ‘Arukh Yoreh de’ah 141,7.
[29] TB Avodah Zarah 43b.
[30] Shulchan ‘Arukh Yoreh de’ah 141,6.
[31] Shulchan ‘Arukh, Yoreh de’ah 141,8.
[32] M. Raphael, cit. p. 29.