Il parto è uno dei momenti salienti della vita di qualsiasi donna. E’ il momento in cui si manifesta maggiormente la sua femminilità, in quanto datrice di vita, ma è anche un’esperienza che può rivelare la sua vulnerabilità di fronte al mistero dell’esistenza. E’ vasta la letteratura scientifica che documenta l’importanza per la donna di partorire in compagnia, in particolare del proprio marito. L’assistenza morale che è in grado di fornire la persona con la quale si condividono gli affetti non ha pari. Quali eventuali controindicazioni halakhiche possono sussistere rispetto a questo tipo di soluzione?
Parlando dell’opera del Mishkan, il Tabernacolo nel deserto, la Parashat Ki Tissà ribadisce la Mitzwah di osservare Shabbat. “Ma osserverete i miei Shabbatot” (Shemot 31,13). Nella tradizione interpretativa dei nostri Maestri ogni volta che nel testo della Torah ricorre la parolina akh (“ma”) essa conferisce un valore limitativo alla portata dell’espressione. Il versetto citato alluderebbe al fatto che l’obbligo di osservare Shabbat ha delle eccezioni. Una di queste è il caso di pericolo di vita (piqquach nefesh) in cui siamo autorizzati a sospendere lo Shabbat per salvare la persona a rischio (Yomà 85b; Nachmanide e R. Bachyè ad v.). Si può osservare qui quanta qedushah ha un’anima ebraica. La costruzione del Tabernacolo, pur essendo stata un fatto fondamentale perché permise alla Shekhinah di trovare dimora in Israele, non giustificava l’infrazione di Shabbat e il venerdì pomeriggio si fermava. Invece il pericolo di vita, fosse anche di un neonato ancora privo di qualsiasi merito, mette l’osservanza di Shabbat in secondo piano, “poiché Io sono H. che vi rende qedoshim”. La qedushah più alta risiede nelle anime di Israel (Chatam Sofer).
Una delle situazioni considerate a rischio della propria vita per le quali molte proibizioni sono sospese è quella della partoriente. Questo assunto è valido a prescindere dall’opinione dei medici e dal fatto che il parto è un evento assolutamente naturale. Lo Shulchan ‘Arukh (Orach Chayim, 330,1) scrive testualmente: “La donna in procinto di partorire è come un ammalato in pericolo (choleh she-yesh bo sakkanah) e per lei si profana lo Shabbat per garantirle tutto ciò di cui ha bisogno”. Da quale momento del travaglio si considera operativa questa norma? Vi sono tre diverse definizioni in proposito: ” 1) Da quando siede sul letto del parto, 2) da quando comincia a perdere sangue o 3) da quando le amiche la sostengono per le braccia in quanto non ha più le forze per camminare da sola” (330,3, in base a Shabbat 129a). Tutte vengono prese in considerazione.
D’altro lato la partoriente ha lo stesso status della niddah: come se fosse soggetta in quel momento al ciclo mestruale, persino se non avesse visto sangue affatto. Ciò comporta che il marito ha nei suoi confronti diverse restrizioni che rimangono in vigore finché lei non abbia compiuto tutte le procedure di purificazione e non si sia immersa nel Miqweh. In attesa che la tevilah (“bagno rituale”) la renda di nuovo permessa al marito, questi ha la proibizione di guardare quelle parti del suo corpo che di solito sono coperte (Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah, 194,1; 195,7): in pratica non può osservare il momento del parto. Inoltre non può toccarla. Secondo Maimonide è un divieto della Torah (Hilkhot Issurè Biah 21,1), almeno nella misura in cui il contatto è un’espressione di affetto (derekh taawah): I Decisori discutono se il marito abbia il permesso di toccare la moglie niddah allo scopo di curarla quando è ammalata (Shulchan ‘Arukh Yoreh De’ah 195, 16 e Remà ad loc.), ma nel nostro caso non si può certo sostenere che il marito manifestando la sua vicinanza fisica alla moglie durante il parto assolva a un’esigenza medica.
Peraltro troviamo diversi casi in cui la Halakhah autorizza l’adozione di un comportamento più facilitante per evitare che il paziente e in particolare la partoriente vada in ansia o apprensione (teruf da’at, lett. “confusione mentale”), che costituiscono fattori significativi sia sotto il profilo scientifico che quello halakhico. La fonte principale è un passo del Talmud (Shabbat 128b) in cui si afferma che non solo la si assiste per tutte le sue necessità fisiche anche a costo di profanare lo Shabbat, ma si accende per lei il lume. “Sebbene l’accensione del lume non sia fondamentalmente un atto medico, ha un impatto psicologico profondo. E i Chakhamim ritengono che sottovalutare la pace mentale della partoriente possa costituire per lei pericolo di vita” (Mishnah Berurah a Shulchan ‘Arukh 330, n. 4).
A Rav Moshe Feinstein fu domandato se il marito ha il permesso di accompagnare in taxi la moglie in travaglio all’ospedale di Shabbat. La sua risposta è affermativa, basandosi proprio sull’esigenza di evitare il teruf da’at. “Dal momento che la partoriente è particolarmente sensibile alle paure, nessuno può valutare il rischio in simili situazioni” (Resp. Iggherot Moshe, Orach Chayim, 1,132). In un altro Responsum il Rav affronta il problema della presenza del marito in sala parto. Sarebbe meglio incaricare un’altra donna, ma se la partoriente insiste per avere il marito al suo fianco che allevi i suoi timori, egli è senz’altro autorizzato. Scrive il Rav: “Se il marito può stare con lei e vigilare che le cose vengano effettuate nell’ordine che si conviene anche allo scopo di darle forza e di incoraggiarla, non vedo divieto in tal senso ove se ne ravvisi la necessità, a condizione che distolga il suo sguardo nel momento vero e proprio in cui il bambino viene alla luce” (Resp. Iggherot Moshe, Yoreh De’ah 2,75. Cfr. A. Steinberg, “Natural Childbirth: may the husband attend?” in Journal of Halacha and Contemporary Society, 1,2, 1981, p. 107-122; rist. In A.S. Cohen, Halacha and Contemporary Society, Ktav, New York, 1984, p. 54-69).