Lezione Facoltà di Giurisprudenza – Università degli Studi – V. Festa del Perdono, 7 – Milano
Duplice premessa metodologica – Lo studio di qualsiasi diritto richiede alcune considerazioni preliminari che ci aiutino a inquadrarlo per meglio comprenderne le implicazioni giuridiche e culturali: considerazioni generali accanto ad altre particolari, legate cioè all’aspetto specifico che si intende approfondire. Tanto più ciò vale per il diritto ebraico. Molti non ebrei tuttora credono che il popolo ebraico si sia fermato alla Bibbia, ma non è così. All’incirca contemporanea della letteratura patristica è l’elaborazione del pensiero e del diritto rabbinico nel duplice filone della Aggadah (lett. “narrazione”) e della Halakhah (“procedura, disciplina”) che rileggono rispettivamente le parti narrative e quelle legislative della Bibbia.
Il prodotto letterario del primo filone è il Midrash, mentre il secondo si esprime nella stesura della Mishnah (sec. III) e del Talmud (sec. V), seguiti a loro volta da una ricchissima produzione esegetica e giurisprudenziale che continua ancora oggi. Sebbene in questa tradizione il consenso dei fedeli sia richiesto proprio sulla disciplina, la letteratura omiletica fa da supporto a questa fornendole i necessari presupposti concettuali.
Gli Ebrei, d’altronde, considerano Bibbia e Talmud il risultato di un’unica rivelazione. Essi parlano rispettivamente di una Torah Scritta e una Torah Orale. Entrambe derivano dal Monte Sinai, con l’idea che la prima esprime le regole generali e la seconda le norme applicative. Quest’ultima è stata messa per iscritto solo in epoca romana, allorché cominciò la Diaspora, per preservarne gli insegnamenti. Sotto il profilo storico-scientifico il rischio è di attribuire a fonti più antiche interpretazioni e istituti più tardi. Il nostro scopo è di mettere in luce la continuità esistente fra i vari periodi, senza però travisare la cronologia.
Duplice premessa terminologica – Venendo ora al tema che vogliamo trattare è indispensabile anzitutto un chiarimento della terminologia ebraica cui faremo riferimento. A partire dalla Mishnah il matrimonio ebraico è chiamato qiddushin, lett. “atto sacro”, ma sarebbe errato considerarlo alla stregua del sacramento cristiano. La principale differenza consiste nel fatto che il matrimonio ebraico è rescindibile. Il diritto biblico prevede che a certe condizioni il marito scriva e consegni alla moglie un atto di divorzio (Deuteronomio 24,1). Nella Mishnah questo documento assume il nome di ghet. La giurisprudenza rabbinica nei secoli ha elaborato disposizioni per tutelare la moglie in questa eventualità. Una di queste, che risale secondo la tradizione al II secolo a.E.V., prevede che in caso di dissoluzione del matrimonio il marito le versi una cifra che le sia sufficiente a garantirsi il mantenimento per un congruo periodo. L’impegno in tal senso è siglato già durante la celebrazione dei qiddushin in un documento che è chiamato ketubbah (lett. “documento scritto”), insieme a tutte la altre obbligazioni che il marito ha durante il matrimonio: per metonimia la parola ketubbah passa a designare la cifra cui la moglie ha diritto. Un’ulteriore clausola di cui parleremo, resa ufficiale nel Medio Evo, è il divieto fatto al marito di dare il ghet alla moglie senza il suo consenso.
Aggiungiamo un’ulteriore puntualizzazione sul tema che tratteremo legata questa volta alla terminologia italiana. Si intende propriamente per poligamia l’unione di un individuo con più partner dell’altro sesso. Essa si divide in poliandria qualora si tratti di una donna con più mariti e poliginia nel caso di un uomo sposato con più mogli. Rifletteremo su entrambi gli aspetti nell’ottica del pensiero e del diritto ebraico.
Il divieto della poliandria –“Una donna non può essere moglie di due uomini contemporaneamente” (Qiddushin 7a). Occorre tutelare l’integrità della famiglia come base funzionale della società, in vista della responsabilità di crescere una nuova generazione. A questo scopo occorre essere sicuri dell’identità dei genitori. Mater semper certa est, mentre la paternità deve essere accertata. Per garantire la corretta identificazione del padre, una donna può essere sposata a un solo marito per volta. Se si accerta che la donna sposata (eshet ish) ha avuto spontaneamente una relazione con un altro uomo essa e l’amante sono colpevoli di adulterio (niùf): nel diritto biblico 1) avrebbero meritato entrambi la pena capitale, mentre 2) l’eventuale figlio illegittimo ha la qualifica di mamzèr e non può sposare un’ebrea di paternità legittima. In ogni caso 3) lei rimane proibita ad entrambi gli uomini per sempre, anche dopo la morte di uno dei due e 4) quando divorzia non riceve la ketubbah (i diritti finanziari che le spetterebbero). In caso di violenza le sanzioni non si applicano e la convivenza con il marito può continuare.
Nel caso di una donna qiddushin significa relazione esclusiva con il proprio marito. Pertanto non ci possono essere qiddushin fra lei e un secondo marito fintanto che sussistono i qiddushin con il primo. Il secondo matrimonio non è valido ab initio, al punto che nel diritto biblico non sarebbe richiesta alcuna procedura formale di scioglimento. Ma paradossalmente nel diritto rabbinico questa donna si trova invece ad affrontare due divorzi. Dal momento che anche il primo matrimonio con il legittimo marito non può continuare, essendo stato contratto validamente richiede di essere sciolto mediante il ghet. I Maestri del Talmud hanno inoltre disposto il ghet per istituzione rabbinica (mi-de-rabbanan) anche dall’adultero, nonostante la seconda unione non sia valida, per tacitare coloro che, ignari dei fatti, vedendo la coppia convivere possano pensare che l’unione fosse regolare. La sanzione si applica anche se la donna ha contratto il secondo matrimonio per errore: se p. es. aveva ricevuto informazione errata da testimoni sulla presunta morte del suo primo marito ((Sotah 27b; Yevamot 87-88; Maimonide, Hilkhot Gherushin 10,4-5; Shulchan ‘Arukh Even ha-‘Ezer 17,56).
La poliginia nell’età biblica –Secondo l’antico diritto biblico il matrimonio di un uomo con più donne contemporaneamente era ammesso, in quanto questo tipo di unione non pregiudica la certezza della paternità. Troviamo molti casi in cui un uomo ha più di una moglie, seguendo il costume del Vicino Oriente antico. Occorre accennare anche all’istituto della concubina (pilleghesh, voce non semitica da cui il gr. pallakìs; shifchah). Si tratta di una donna di rango inferiore che pur avendo una relazione stabile con un uomo non gode dei diritti finanziari derivanti dal matrimonio (Rashì a Gen. 25,6). Talvolta è una schiava (amah) della moglie legittima che quest’ultima per via della propria sterilità assegna al marito affinché possa procreare (Gen. 29, 15-30; 30, 1-9). La Bibbia limita il numero di concubine. Nei secoli successivi la prassi viene assimilata alla prostituzione (Deuteronomio 23,18) e soppressa. Lo spirito suggerito dai testi, peraltro, è indubbiamente diverso. Il racconto della creazione dell’uomo è monogamico: “Perciò l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e saranno una sola carne” (Gen. 2,24). La discendenza di Seth è monogamica (Noè: Gen. 7,7), mentre la poliginia appare fra i discendenti di Caino: Lemekh prende due donne (4,19). L’esegesi rabbinica elaborerà il caso affermando che una era destinata alla procreazione ed era tenuta in discredito, mentre all’altra veniva fatta bere una pozione anticoncezionale ed era agghindata per soddisfare gli appetiti del marito. Fu questo fra i comportamenti negativi che provocarono il Diluvio (Rashì ad loc.).
I casi di bigamia (Abramo; in un certo senso anche Giacobbe) sono legati alla sterilità della prima moglie, in linea con il codice di Hammurabi, ma sono presentati in cattiva luce per scoraggiare il modello: le due mogli dello stesso marito (Sara e Hagar –Gen. 16,6-; Rachele e Lea –30,1-; più tardi Anna e Peninà -1Sam. 1,6-) sono spesso in competizione fra loro e il conflitto si ripercuote non di rado sui figli (Isacco e Ismaele, Giuseppe e i suoi fratelli: Gen. 37,2). Gedeone ebbe settanta figli, avendo sposato molte donne (Giud. 8,30), ma la discendenza finì tragicamente (9,5); il re Salomone ebbe mille fra principesse e concubine (1Re 11,3), ma gli viene rimproverata come conseguenza una certa condiscendenza verso i culti stranieri. La tribù di Issachar contava trentaseimila uomini in armi poiché, “avendo preso molte mogli, avevano quindi molti figli” (1Cron. 7,3). Già il diritto biblico prevede correttivi. “Quando un uomo abbia due mogli, una amata, l’altra invisa, che gli hanno partorito dei figli e il primogenito fosse nato dalla moglie invisa… non potrà considerare primogenito il figlio nato dalla moglie amata… Dovrà invece riconoscere come primogenito il figlio della moglie invisa, attribuendogli il doppio di tutto quanto possederà, perché… a lui spetta il diritto di primogenitura” (Deuteronomio, 21, 15-17). Anche gli antichi Profeti, nel paragonare il rapporto esclusivo di D. con Israele a un legame nuziale, partono dal presupposto monogamico. Nei ritratto della “donna virtuosa” alla fine del libro dei Proverbi si parla della sola e unica moglie presente nella casa. E’ lecito pensare che la Bibbia, pur opponendosi alla poliginia, non potesse realisticamente vietare tout court un istituto così radicato nella società dell’epoca ma cercasse in ogni modo di contenerla e scoraggiarla (come nel caso della pena capitale, della schiavitù e dei sacrifici).
La poliginia nell’età postbiblica e nel diritto talmudico – La situazione conobbe una svolta durante l’epoca del Secondo Tempio, in cui la monogamia divenne la regola per motivi sia economici che affettivi. Nei papiri aramaici di Elefantina, molto interessanti per la documentazione matrimoniale, si trova l’impegno del marito a non prendere altre mogli senza il consenso della prima (A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century, Osnabruck, 1923, 44 sgg., n. 15, r. 31 sgg.). I documenti di Qumran già proibiscono la poliginia (Documento di Damasco 4,20-5,5). Essa peraltro rimase ancora praticata dagli Ebrei Ellenisti (Erode -Sukkah 27a-) ed è presa in considerazione nella Mishnah (1, 1-4; Ketubbot 10, 1-6 e a.). Ancora nel diritto talmudico questo matrimonio è di per sé valido: richiede in ogni caso il ghet per essere sciolto e i figli sono considerati legittimi, ma il Talmud lo sconsiglia. Nelle sue pagine si raccolgono varie opinioni in proposito. L’imperatore romano Teodosio aveva vietato la poliginia fra gli Ebrei (30 dicembre 393): “Nemo Iudeorum… in diversa sub uno tempore coniugia conveniat”, ma non è chiaro quale sia stato l’impatto di questa legge sull’autonomia giuridica delle Comunità Ebraiche (A.Linder, Roman Imperial Legislation on the Jews, Jerusalem, 1983, p. 139). Del provvedimento va scorto un riflesso nel dibattito fra la tradizione palestinese (soggetta al dominio romano), rappresentata da R. Ammì e quella babilonese, sostenuta da Ravà. Il primo affermava che “chiunque prenda una seconda moglie in aggiunta alla prima deve concedere il divorzio alla prima e pagarle la ketubbah“, mentre il secondo ritiene invece che “un uomo è libero di sposare tutte le mogli che desidera in aggiunta alla prima, a condizione che sia in grado di mantenerle” (Yevamot 65a).
Un’altra autorità prende una posizione di mezzo, dichiarando che “non può averne più di quattro” (ibid. 44a, come nel Corano 4,3! Il numero si motiva con l’esigenza di garantire la convivenza del marito con ciascuna delle consorti per una settimana al mese). Era pacifico che al Sommo Sacerdote non era permesso di avere più di una moglie (Yomà 13a), mentre al re si consente fino a diciotto (Sanhedrin 2,4). Non v’è ricordo che alcuno dei duemila Maestri nominati nel Talmud abbia avuto più d’una moglie. Una storia, anzi, dimostra che un caso simile sarebbe stato riprovato. “Il figlio di R. Judah il Principe aveva dedicato dodici anni allo studio, lontano da sua moglie. Al suo ritorno essa era divenuta sterile. Udendo ciò, il padre disse: ‘Che fare? Se divorzia, il mondo dirà che la pia donna ha atteso tutti questi anni invano. Se prende una seconda moglie, il mondo dirà che una è moglie, l’altra concubina!’ Pregò per lei ed essa guarì” (Ketubbot 62b; ma cfr. Yevamot 15a).
La pace famigliare (shelom bayit) è da sempre considerata un valore fondamentale, anche per la tranquillità dei figli. La seconda moglie di un matrimonio bigamo era chiamata tzarah (“rivale”, ma anche “sciagura” – 1Sam. 1,6), in quanto in perenne competizione con la prima. Rav soleva dire in tono sarcastico: “Non sposare due mogli, ma se proprio lo fai, sposane una terza!”. Oltre che sul piano psicologico, il secondo matrimonio poteva rivelarsi rovinoso su quello economico. Il secondo matrimonio fu consentito solo a condizione che il marito fosse in grado di assolvere ai suoi obblighi nei confronti di entrambe le mogli. Similmente è proibito a un uomo sposare una seconda moglie se si è impegnato a non farlo nei confronti della prima, p. es. mediante una clausola nella ketubbah (Even ha-‘Ezer 76,8) o se l’uso locale lo proibisce: in questo caso si dà infatti per scontato che la prima moglie abbia acconsentito a sposarlo in accordo con l’uso del luogo (Even ha-‘Ezer 1,9 e comm.). Solo l’esplicito consenso di lei può sollevare lui da tale limitazione.
Il “bando” di Rabbenu Ghereshom –La poliginia è attestata nelle Comunità Ebraiche d’Occidente almeno fino al X secolo (Pisqè ha-Rosh a Yevamot 65a; Maimonide, Hilkhot Ishut 14,3; Shulchan ‘Arukh Even ha-‘Ezer 1,9). La setta scismatica dei Caraiti la abrogò nella stessa epoca: essi interpretarono il divieto biblico a un uomo di sposare oltre alla moglie la sorella di questa, almeno finché la prima è in vita (Lev. 18,18), come esteso a qualsiasi altra donna, perché in ebraico la parola “sorella” può essere adoperata in senso lato (cfr. Es. 26,3 sgg.). Intorno all’anno 1000 in Renania si attribuisce a Rabbenu Ghereshom Meor ha-Golah (“Luminare della Diaspora”, nato a Metz e vissuto fra il 960 e il 1040 circa) e alla sua Corte l’elaborazione di una serie di taqqanot (plurale di taqqanah, “emendamento”, nel senso che si scostavano dalla lettera della legge biblica e talmudica) a tutela della società ebraica in un’epoca di persecuzioni. Quella che ci riguarda è volta essenzialmente a formalizzare quanto elaborato nei secoli precedenti. Il termine “bando” adoperato a questo proposito fa riferimento all’unico strumento coercitivo di cui disponeva il Rabbinato nei confronti della sua Comunità: il potere di scomunicare i recalcitranti (cfr. Esd. 10,8 – L. Finkelstein, Jewish Self-Government in the Middle Ages, New York, 1924, p. 20 sgg., 111 sgg.).
La taqqanah, nota appunto come cherem de-Rabbenu Ghereshom (“bando di Rabbenu Ghereshom”) contiene due proibizioni: 1) è vietato sposare una seconda moglie in aggiunta alla prima a meno che non vi sia la dispensa eccezionale firmata da almeno cento Rabbini provenienti da tre paesi diversi e, onde evitare ogni aggiramento della prima proibizione, 2) è vietato divorziare dalla moglie contro la volontà di lei (Otzar ha-Posseqim, Even ha-‘Ezer 1,61). Pur rimanendo formalmente valido il secondo matrimonio in caso di infrazione, la prima moglie ha ora il diritto di chiedere al Tribunale Rabbinico (ove questo abbia simili poteri) di costringere il marito a dare il ghet alla seconda o in alternativa, di domandare il ghet per se stessa con la “buona uscita” della ketubbah (Even ha-‘Ezer 154). Il marito è obbligato a mantenere anche la prima moglie fino al divorzio, perché fintanto che non la libera dal suo vincolo, essa non ha la possibilità di risposarsi e trovare un sostegno economico presso un nuovo marito. Una volta sciolto il primo matrimonio, il marito può continuare la sua convivenza con la seconda moglie sebbene l’avesse sposata contro la proibizione.
Secondo una tradizione “Rabbenu Ghereshom ha imposto il suo cherem solo fino alla fine del quinto millennio” cioè fino al 1240 (Even ha-‘Ezer 1,10), mentre altri pensano che non avesse limiti di tempo. Di fatto, dovunque sia stato accolto fu accettato anche successivamente come norma vincolante per ogni tempo (Resp. Rosh 43,8). In alcune Comunità vi è l’uso di menzionare nella ketubbah degli sposi la clausola dell’impegno di lui a non sposare una seconda moglie “in base alla taqqanah di R. Ghereshom”. Ma anche qualora non sia stato scritto esplicitamente ciò viene considerato come una semplice “omissione del copista” e il bando è vincolante comunque.
Le comunità d’Oriente –Il “bando” è stato accolto nelle Comunità ashkenazite, Italia compresa, ma non in quelle sefardite e orientali. E’ possibile che ciò sia una conseguenza della parallela proibizione della poligamia che caratterizza il mondo cristiano a differenza di quello musulmano. Maimonide non nomina il “bando”. In effetti la bigamia è ancora attestata nel Medio Evo nelle Comunità ebraiche soggette al dominio e all’influenza islamica. In particolare lo studio dei documenti provenienti dalla Ghenizah del Cairo conferma quanto già ci era noto da alcuni Responsa rabbinici. Peraltro le motivazioni non contraddicono la giurisprudenza già nota: comprendono la sterilità o l’incapacità della moglie di seguire i figli. Quest’ultima acconsentiva che il marito sposasse un’altra donna a condizione di avere un domicilio separato e del tutto arredato (cfr. Gen. 31,33), parità di diritti riguardo al mantenimento, al vestiario e ai rapporti coniugali (Es. 21,10: sono i tre obblighi del marito verso la moglie secondo il diritto biblico) e il diritto al divorzio nel caso lei l’avesse chiesto (S.D. Goitein, Una società mediterranea, Milano, 2002, p. 504). Nelle Comunità orientali si usa tuttora aggiungere nella ketubbah di volta in volta l’impegno personale del marito a non contrarre un secondo matrimonio senza il consenso della prima moglie e del Tribunale Rabbinico (non cento Rabbini!). Tale clausola garantisce alla moglie gli stessi diritti di cui si è già parlato a proposito del “bando”.
In caso di trasferimento da un paese in cui il “bando” è vincolante a un paese dove non lo è o viceversa si applicano alla coppia le due regole seguenti: 1) il “bando” è legato all’individuo e questi rimane vincolato dovunque si trovi; 2) il “bando” è legato al territorio, che vincola chiunque alla sua osservanza. Si persegue cioè l’intento di allargare il più possibile la sua operatività. Ma se l’uomo ha già sposato una seconda moglie nel suo paese d’origine dove ciò gli era permesso, non viene costretto a divorziare da essa una volta giunto in un luogo dove vige il “bando”: il divieto espresso nel “bando” proibisce solo l’atto nuziale, non il mantenimento di uno status già instaurato (Arokh ha-Shulchan, Even ha-‘Ezer 1,23).
I casi eccezionali in cui il “bando” può essere oggetto di dispensa contemplano l’eventualità che la prima moglie sia diventata insana di mente, al punto che il marito non può più mantenere regolari relazioni con lei. Un’eventualità che altrimenti avrebbe giustificato il divorzio, nel nostro caso lo rende impossibile in quanto per poter divorziare entrambi devono essere in grado di intendere e di volere. In questo caso il marito, pur prendendo una seconda moglie, è vincolato a sostenere le spese mediche per la prima. Qualora questa guarisca, non può poi chiedere lo scioglimento del secondo matrimonio, essendo stato contratto legalmente. Si chiederà invece al marito di divorziare da lei per non rimanere con due mogli e se lei rifiuta il marito sarà esente dagli obblighi economici nei suoi confronti, eccetto il pagamento della ketubbah. Un altro caso che dà titolo alla dispensa è quello in cui dopo essere stato sposato con la prima moglie per dieci anni il marito non ha avuto da lei figli ed essa rifiuta il divorzio (Even ha-‘Ezer 1,10). Nelle Comunità orientali la dispensa può essere data in analoghe circostanze dal Tribunale Rabbinico ordinario, ma solo con il consenso della prima moglie. La procedura della dispensa prevede, come atto preliminare, che il marito depositi presso il Tribunale Rabbinico incaricato dell’esecuzione un ghet destinato alla prima moglie con l’autorizzazione irrevocabile a consegnarglielo appena possibile nel caso che il Tribunale ravvisi il rischio che essa venga di fatto abbandonata dal marito, onde consentirle di risposarsi. Al marito si richiede anche di depositare una somma di denaro corrispondente ai diritti di lei.
Oggi –Nello Stato d’Israele il Rabbinato ha stabilito la monogamia come regola vincolante sul piano religioso per tutti gli Ebrei fin dal 1950. La legge dello Stato considera la poligamia un reato punibile con il carcere. Nel caso in cui la Halakhah autorizza la dispensa, questa è valida se firmata da un tribunale rabbinico e controfirmata dai due Rabbini Capi.
Bibliografia – In aggiunta ai testi già citati, vedasi:
- Cohen A., Il Talmud, Bari, 1935;
- De Vaux R., Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Casale Monferrato, 1964;
- Encyclopaedia Judaica, voci relative e in particolare: Marriage, Bigamy and Polygamy, Monogamy, Concubine;
- Epstein I., Il Giudaismo, Milano, 1982;
- Kraemer D. (ed.), The Jewish Family, Metaphor and Memory, Oxford, 1989;
- Lamm M., The Jewish Way in Love and Marriage, San Francisco, 1980;
- Lattes D., Aspetti e Problemi dell’Ebraismo, Torino, 1970;
- Piattelli D., Concezioni giuridiche e Metodi costruttivi dei Giuristi orientali, Milano, 1981;
- Rabello, A.M., Introduzione al Diritto Ebraico: Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, Torino, 2002;
- Tosato A., Il Matrimonio Israelitico, Roma, 1982;
- Vitale M. (ed.), Il Matrimonio Ebraico: le ketubbot dell’Archivio Terracini, Torino, 1997.