Domenico Scarpa
A Torino, nell’aula magna dell’Istituto di chimica, i banchi dell’anfiteatro e la grande cattedra sono gli stessi di quando Primo Levi prese a frequentarla nell’autunno 1937: lo stesso legno, levigato dall’uso e scurito dal tempo. Anche nella «venerabile biblioteca …, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io», scaffali e armadi a vetri sono quelli di allora. Quell’anno, nel catalogo a schede, la matricola Levi avrebbe potuto scegliere tra ben sette edizioni di un medesimo libro di testo, noto per antonomasia come «il Gattermann»: Ludwig Gattermann, Die Praxis der organischen Chemikers. Proprio su quel manuale di chimica organica pratica Levi avrebbe cominciato a imparare il tedesco, lingua di lavoro della sua disciplina nonché – di lì a qualche anno appena – lingua del lavoro coatto in Auschwitz, Arbeit macht frei.
Svariati decenni più tardi alcune pagine del Gattermann, dedicate alla prevenzione degli infortuni, sarebbero state raccolte, nella traduzione di Levi, in una sua “antologia personale” di letture formative, La ricerca delle radici (Einaudi, 1981), dove le troviamo collocate sotto il titolo Le parole del Padre, col P maiuscolo: vi si esprime, dice Levi, «l’autorità di chi insegna le cose perché le sa, e le sa per averle vissute; un sobrio ma fermo richiamo alla responsabilità, il primo, a ventidue anni, dopo sedici anni di studio e infiniti libri letti. Le parole del Padre, dunque, che ti risvegliano dall’infanzia e ti dichiarano adulto sub conditione». Benché ne esistessero molte copie in biblioteca, Levi volle acquistare un Gattermann tutto per sé: ebbe la ventiseiesima edizione, curata da Heinrich Wieland e stampata a Berlino nel 1939 da Walter de Gruyter & Co.: nell’anno cioè e nella città dalla quale Hitler avrebbe scatenato la guerra mondiale e lo sterminio del popolo ebraico. Eppure, come vedremo, anche l’editore di quel libro aveva la sua importanza.
La prima edizione del Gattermann era uscita nel 1894 a Lipsia, presso Veit. L’autore aveva 34 anni, essendo nato a Goslar nel 1860: era figlio di un panettiere e aveva impiantato in casa il suo primo laboratorio. All’Università di Heidelberg aveva studiato – senza provare passione né per l’uomo né per lo studioso – con R.W.E. Bunsen, l’inventore di quella “lampada Bunsen” la cui fiammella si colora di verde-smeraldo nella prima pagina dei Ragazzi della via Pal. Ai tempi del giovane Gattermann non esisteva nessun trattato generale di tecnica di laboratorio: il suo fu il primo, scritto a Heidelberg dov’era ritornato come assistente di un altro maestro e dov’era ormai riconosciuto come un insegnante nato, come uno scrittore scientifico dallo stile brusco e chiaro. Gattermann usava definire Die Praxis il suo «Kochbuch», il suo libro di cucina: la traduzione inglese apparve già nel 1896, poi arrivò anche quella russa. Professore ordinario a Friburgo dal 1900 in avanti, Gattermann moriva sessantenne già nel 1920, ma il suo manuale, via via riveduto e aumentato da altri, si sarebbe ristampato fino al 1982.
Se è vero che i libri hanno un destino, lo hanno pure i loro lettori. Sulle pagine e sulle tavole del Gattermann, Primo Levi aveva appreso il tedesco come il linguaggio dell’esattezza professionale che tiene uno scienziato al riparo dal pericolo: il tedesco era la lingua della verità razionale, della dignità responsabile. Solo più tardi si sarebbe trasformato in un gergo da caserma abbaiato da aguzzini. Ma fu proprio ad Auschwitz, o meglio a Monowitz, nella fabbrica di gomma sintetica Buna, che Levi avrebbe ritrovato il suo manuale universitario: accadde quando sostenne l’«Esame di chimica» al quale è dedicato un celebre capitolo in Se questo è un uomo. Il prigioniero 174 517 (questo è ormai il suo nome) si trova al cospetto del Doktor Ingenieur Pannwitz che «siede formidabilmente dietro una complicata scrivania»; i loro occhi s’incontrano, eppure «quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania».
Malgrado il dislivello tra il superuomo germanico e il sottouomo ebreo l’esame procede bene; Pannwitz chiede a Levi l’argomento della sua tesi: «Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di costanti dielettriche interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l’inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto anno, a casa mia». Il Gattermann gli aveva dunque salvato la vita in due modi, facendogli apprendere in anticipo la lingua di Auschwitz e assicurandogli poi, in Auschwitz, un lavoro non letale come tecnico di laboratorio. Quando Levi, superstite del Lager, fu rientrato a Torino, e quando nel 1947 ebbe pubblicato la prima versione di Se questo è un uomo (uscì in 2.500 copie presso De Silva, un piccolo editore della sua città), toccò a un poeta italiano di origine ebraica, Umberto Saba, parlargli di destino. Saba era stato infatti tra i primi e non numerosi lettori dell’opera; la breve lettera che inviò a Levi è datata Trieste, 3 novembre 1948: «Caro signor Primo Levi, non so se le farà piacere sentirsi dire da me che il suo libro Se questo è un uomo è più che un bel libro, è un libro fatale. Qualcuno doveva ben scriverlo: il destino ha voluto che questo qualcuno fosse lei». L’aggettivo fatale è importante nel linguaggio di Saba: indica l’opera scritta per inevitabile necessità e quasi per predestinazione, il libro nel quale una persona scrivente si riversa per intero. Era fatale, agli occhi di Saba, il suo Canzoniere in versi, ma lo era altrettanto un breve libro in prosa da lui pubblicato nel gennaio 1946, Scorciatoie e raccontini, «scritto in sei mesi e in sessant’anni»; l’autore lo definiva «il libro del Novecento, come Candide fu il libro nel quale si assomma il Settecento». Malgrado la proverbiale immodestia di Saba questa definizione non è eccessiva: Scorciatoie è una raccolta di frammenti sapienziali che puntano al nucleo della specie umana, della sua psiche, della sua storia prossima e remota, del suo funzionamento come animale sociale. Le Scorciatoie, inoltre, sono «reduci, in qualche modo, da Maidaneck» ossia da Majdanek, primo campo di sterminio di cui fossero giunte in Italia, sul finire della guerra, fotografie e informazioni: «Maidaneck è inespiabile». Fu questo il libro che Saba volle mandare in dono a Levi, un libro la cui ultima scorciatoia, la numero 165, era composta di sei parole, l’ultima delle quali è un cognome ridotto con malizia alla sola iniziale: «GENEALOGIA DI SCORCIATOIE Nietzsche-Freud-S…».
La risposta di Levi, fervida e guardinga, partì da Torino il 10 gennaio 1949: no, non aveva impiegato tutto un mese per leggere il breve libro; «L’ho letto invece con grande rapidità, mi è parso subito finito, e vi ho ritrovato molto del mio mondo. Non del Lager, voglio dire; meglio, non solo del Lager. Mi pare che si tratti press’a poco di questo: vi ho ritrovato tutti o quasi i temi nuovi che attendono svolgimento, e i problemi nuovi che attendono soluzione; e li attendono da noi, noi che ci siamo passati attraverso, corpo e anima, chi in un modo e chi in un altro, e che ne siamo usciti mutati, estremamente differenziati, spesso nemici del mondo e di noi stessi, altre volte disgregati, o in aperta ribellione o evasione». Levi si rendeva conto di parlare a un suo simile: a uno strano lontano alleato. Anche Se questo è un uomo aveva un titolo sapienziale, e anche le sue pagine si proponevano di «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». Così, dopo i complimenti per lo scrittore Umberto Saba, Levi lasciava appena balenare un suo disagio: ammirava il «coraggio» e l’«avidità vigile» del poeta triestino, e in questo senso preferiva «intendere la genealogia che Lei si è scelta nell’ultima scorciatoia … di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza». I nomi di Friedrich Nietzsche e di Sigmund Freud non escono dalla penna di Levi: il reduce dal Lager ha le sue distinte ragioni per diffidare dell’uno come dell’altro, cosicché preferisce considerarli, garante Saba, come uno spregiudicato indagatore della morale il primo, come un ostinato indagatore della psiche il secondo. E tanto poteva bastare a Saba, che qui in Italia era stato tra i pochissimi capaci di leggere Nietzsche azzerando le ipoteche caricate sulla sua figura: il Superuomo prima, il nazismo poi.
Non troviamo segni del Reich nazista sul frontespizio del Gattermann acquistato dallo studente Levi e stampato a Berlino nel 1939. L’opera era passata sotto le insegne della casa editrice de Gruyter subito dopo la fine della Prima guerra mondiale: immediatamente dopo il crollo del «mondo di ieri». E una coincidenza davvero fatale vorrà che lo stesso editore – de Gruyter, appunto – che già aveva fornito a Primo Levi le basi di una lingua tedesca capace di salvare la vita si facesse più tardi, negli anni Sessanta, promotore di una nuova edizione filologica delle opere di Friedrich Nietzsche, che avrebbe liberato da ogni falsificazione politica l’autore di Al di là del bene e del male. Fu de Gruyter, infatti, l’editore tedesco che si consorziò con i francesi di Gallimard e con gli italiani di Adelphi per sostenere l’edizione delle sue opere complete avviata qualche anno prima da due filosofi italiani, Giorgio Colli e Mazzino Montinari, i quali lavoravano sui manoscritti di Nietzsche conservati a Weimar.
Era un destino, anche questo, che andava raccontato: sul finire del 1948 Umberto Saba offriva a Primo Levi – che in Se questo è un uomo aveva intitolato polemicamente «Al di qua del bene e del male» un capitolo dell’opera – quel Nietzsche maestro di spregiudicata igiene morale che vent’anni più tardi fu accolto in casa de Gruyter, editore due volte fatale e due volte benemerito: un editore per i “salvati”, fossero presunti superuomini o presunti sottouomini.
Il Sole 24 Ore
I testi
Le notizie su e le citazioni da Scorciatoie e raccontini provengono dal «Meridiano» Mondadori Tutte le prose, uscito nel 2001 a cura di Arrigo Stara e con saggio introduttivo di Mario Lavagetto. La lettera di Saba a Levi si legge in «Alfabeta», V, 55, dicembre 1983; quella di Levi a Saba in «La Repubblica-Mercurio», 27 maggio 1989. Il brano di Levi sulla biblioteca dell’Istituto di Chimica è nel racconto Azoto, in Il sistema periodico (1975); l’aula magna dell’Istituto è oggi intitolata a Levi.