Da una derashà di Rav Sacks
La recente crisi economica ha riportato al centro del dibattito pubblico il tema della povertà. Nella nostra società, inesorabilmente, i ricchi divengono più ricchi e i poveri più poveri. La legislazione sociale del cap. 25 del libro di Waiqrà è volta contrastare questo fenomeno. Vengono stabilite una serie di norme volte a correggere gli squilibri radicali che derivano dalle economie di libero mercato. L’anno sabbatico, la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi, la messa a disposizione di tutti dei frutti della terra nell’anno sabbatico, oltre al ritorno della terra ai legittimi proprietari durante il giubileo, hanno un importante ritorno sull’economia.
Si deve notare anzitutto che Mosheh non intendeva abolire o eliminare la proprietà privata, ma voleva piuttosto che tutti possedessero qualcosa. Voleva che nessuno fosse schiavo ed acquisisse una mentalità servile. Tutte le misure che intendono contrastare la povertà vogliono promuovere la libertà, che rimane sempre il pensiero che rimane sullo sfondo di tantissime mitzwoth della Torah. Tutti coloro che si sono confrontati con problemi, quali la libertà, l’equità, la giustizia, hanno trovato ispirazione in questo capitolo. L’approccio della Torah ai temi economici è insolito. Chiaramente leggi date oltre tremila anni fa, in una società agricola e ben conscia della sovranità divina sul creato, non sarebbero applicabili alla lettera in un’economia globale, dominata da grandi corporazioni internazionali. La loro applicabilità dovrebbe gioco-forza risentire della tradizione e dell’interpretazione, che è ciò il tipo di operazione che compie la Torah shebe’al peh. Ci sono tuttavia alcuni indicatori importanti, anzitutto la dignità del lavoro.
A differenza di culture aristocratiche come la Grecia antica, quella ebraica non ha mai disprezzato il lavoro o l’economia produttiva. Secondo quando leggiamo nel Pirqè Avot (II, 2), lo studio della Torah, se non accompagnato da un’occupazione, condurrà al peccato. Senza una ragione convincente per dimostrare il contrario, ciascuno ha diritto di usufruire dei frutti del proprio lavoro. La tradizione ebraica diffida della concentrazione del potere, in quanto contrasta la libertà. E’ la cultura propria di un popolo che nasce in schiavitù ed è bramoso di libertà. L’assalto condotto dalla schiavitù alla dignità umana è ciò che mi priva della proprietà della ricchezza che creo. La salvaguardia della proprietà privata come base dell’indipendenza economica è un principio molto importante. La società ideale è secondo i profeti (Michah 4,4) quella in cui ognuno è sotto la propria vite e il proprio fico. La libera economia è alimentata dalla competizione. Alcune conquiste sono animate da spinte non spirituali. Secondo il Qohelet queste conquiste discendevano dall’invidia che ciascuno nutre nei confronti del prossimo, o come pensano i chakhamim, se non ci fosse l’istinto malvagio, nessuno costruirebbe una casa, si sposerebbe, avrebbe dei figli, o farebbe affari. La competizione è centrale anche nella sfera intellettuale, la gelosia fra studiosi accresce la sapienza. Nei nostri tempi dobbiamo prendere atto del fatto che l’economia di mercato è molto efficace nell’alleviare la povertà per mezzo della crescita economica.
La povertà non è una condizione da desiderare, o divinamente preordinata, è invece una condizione deprimente per l’uomo. L’economia di mercato tuttavia, è più capace di produrre ricchezza che di distribuirla equamente. La concentrazione della ricchezza conferisce potere a pochi, a discapito di tutti gli altri. Non è normale che un amministratore delegato di un azienda, per quanto possa essere capace, guadagni centinaia di volte quanto guadagnano i suoi dipendenti. Questo squilibrio non produce crescita economica o stabilità finanziaria, anzi, si rivela un elemento di disturbo e di irrequietezza. Sono necessarie delle norme per contrastare e limitare certi fenomeni. E questo è ciò che la Torah fa nella parashah di Behar Sinai. Un sistema economico deve essere sostenuto da una sovrastruttura morale. Non è necessario mirare all’assoluta uguaglianza economica, ma salvaguardare la dignità umana.
Nessuno dovrebbe rimanere stritolato dal debito. Nessuno dovrebbe essere privato della proprietà, che anticamente significava possedere la terra. Nessuno dovrebbe essere schiavo di un altro. Ognuno ha il diritto, un giorno su sette, un anno su sette, di avere una pausa dalla pressione del lavoro. Questo non vuol dire smantellare l’economia, ma indirizzarsi verso una ridistribuzione periodica. Ciascuno è coinvolto nel destino dell’altro. Chi è stato benedetto, ricevendo di più, dovrebbe preoccuparsi di chi ha meno. Non è una questione di carità, ma di giustizia, tzedaqah. Le economie avanzate hanno bisogno di un po’ di questo spirito, per contrastare la miseria e l’agitazione sociale. L’umanità non è stata creata per servire i mercati, ma viceversa i mercati devono migliorare le condizioni dell’umanità.