“Ki lo al halechem levaddò yichyeh haadam/l’uomo non vive di solo pane” (Deuteronomio 8:3). Al livello più semplice di interpretazione, il pane di cui Mosè parla è la manna con cui Dio ha alimentato i figli d’Israele mentre viaggiavano nel deserto. In questo senso, il verso alluderebbe soprattutto al fatto che il Signore non ha limiti nella sua capacità di sostenerci.
Come esseri umani, non dipendiamo solo dal pane comune, perché il Signore ha dimostrato di essere in grado di sostenerci e tenerci in vita anche quando non avevamo cibo materiale a disposizione. C’è, tuttavia, anche un’interpretazione più profonda di questo versetto. Gli esseri umani sono composti da due parti, corpo e anima dove si mescolano una dimensione fisica e una dimensione spirituale. I nostri corpi fisici, ovviamente, sono nutriti da cibi solidi e liquidi, che forniscono i nutrienti di cui hanno bisogno per continuare a funzionare correttamente. Ma come nutriamo e sosteniamo le nostre anime? Dove troviamo il sostentamento spirituale di cui abbiamo bisogno per mantenere la dimensione spirituale del nostro essere?
Lo Zohar, testo fondamentale dell’interpretazione mistica della Torah, insegna che quando Dio creò il mondo, ha trasmesso il Suo spirito, la Sua Santità, in ogni cosa. Niente nell’universo può esistere senza l’essenza del Creatore. Al contrario di un artigiano che crea qualcosa che può poi continuare a esistere molto tempo dopo che il suo creatore ha smesso di lavorarlo o, persino, molto tempo dopo la sua morte, Dio continua a sostenere e ricreare ogni singolo aspetto dell’esistenza. Se per un solo istante il Creatore cessasse questa Sua opera, l’universo cesserebbe di esistere. È per questo che nelle benedizioni prima dello Shemà del mattino, i maestri hanno definito il Signore come Colui che “rinnova la Sua bontà, sempre ogni giorno, il Ma‘aseh Bereshit/l’opera del Principio”. L’azione divina è un ininterrotto “working progress”, che costantemente “crea” il mondo e continuamente infonde del Suo spirito in esso.
Il cibo che mangiamo, quindi, contiene non solo le sostanze nutritive necessarie per i nostri corpi, ma anche una componente spirituale, un elemento di Santità. Dopo tutto, come detto, niente al mondo può esistere senza quella dimensione spirituale, senza lo spirito di Dio che lo sostiene, pertanto, mentre i nutrienti nel cibo sostengono il nostro corpo, i suoi componenti divini sostengono la nostra anima.
Ma questo non è un processo automatico. Dobbiamo saper estrarre dal nostro cibo il suo nutriente spirituale, quelle speciale qualità di Santità affinché sorregga le nostre anime.
Nella Mishnà (Sotà 9:12), sono elencate diverse conseguenze provocate dalla distruzione del Santuario, tra queste, Rabban Shim‘on ben Gamliel a nome di Rabbì Yehoshua‘ ricorda che “da quando è stato distrutto il Bet Hamiqdash…non più è scesa la rugiada di benedizione (tal livrakhà) e (di conseguenza) ai frutti viene tolto il sapore”.
Il mistico padovano Mosè David valle (1696-1777), spiega che “il sapore è l’anima del frutto che viene poi migliorato dalla benedizione; senza (la benedizione) il sapore è rovinato. Il fatto che il frutto sia compreso nella benedizione è una grande cosa, perché (la persona) attraverso il cibo si santifica. La santità del frutto si diffonde in tutte le sue membra, cosicché la sua alimentazione santa sottomette l’istinto. Se non fosse così, avviene il contrario: l’istinto (verso il male) aumenta in lui per mezzo del mangiare e del bere”.
Siccome l’essenza spirituale del cibo non è più garantita automaticamente con la “rugiada di benedizione”, possiamo comunque ottenerla se recitiamo le Berakhot/benedizioni.
Quando recitiamo una Berakhah, non solo chiediamo il permesso a Dio di godere del frutto dalla Sua terra sul piano materiale del suo nutriente ma, per suo mezzo, accediamo al nutrimento per le nostre anime. Raccogliamo così i benefici spirituali del cibo solo trasformando l’atto fisico del mangiare in un atto spirituale.
L’importanza delle Berakhot/benedizioni è segnalata in questa Parashah ben due volte: 1. il versetto 10 del capitolo 8 introduce l’unica benedizione comandata direttamente della Torah, la Birkhat Hamazon/la benedizione da recitare dopo un pasto (“Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai l’Eterno tuo Dio; Deuteronomio 8:10); 2. Il versetto 12 del capitolo 10, secondo l’interpretazione talmudica, contiene un’allusione al dovere di recitare 100 benedizioni ogni giorno (“Ed ora Israele, Mah/cosa chiede da te l’Eterno, il tuo Dio; Deuteronomio 10:12; “non leggere Mah/cosa ma Me’ah/100”; Menachot 43b).
L’insegnamento da trarre è che recitare le Berakhot/benedizioni sul cibo è più di una richiesta di permesso, è più di un ringraziamento, pur essendo atti dovuti quantomeno per educazione, è il mezzo con accediamo alla possibilità di nutrire la nostra anima e assaporare così un sapore perduto, Shabbat Shalom!