Quando si ricomincia un nuovo anno di attività viene da riflettere: il comportamento umano ha un andamento di tipo ciclico, tendente cioè a ripetere periodicamente le medesime esperienze come se si trattasse di un pendolo, o ha invece un andamento di tipo lineare, in cui l’azione ha un inizio, uno svolgimento e una fine, o meglio, un fine, per cui “niente sarà più come prima”? È un affascinante interrogativo, al quale proveremo a dare una risposta alla luce delle fonti ebraiche. Tutto cominciò con la trasgressione del primo uomo e della prima donna, di cui abbiamo letto a Shabbat Bereshit.
Come conseguenza H., rivolgendosi a lei, disse: harbah arbeh ‘itzevonekh we-heronèkh, be-’etzev teledì banim (Bereshit 3,16). I termini della maledizione nel versetto sono tre: rispettivamente ‘itzavòn, herayòn e ‘etzev. Il primo e il terzo vengono comunemente messi in rapporto con una radice che connota fatica, tristezza. Interpretandoli separatamente, Rashì li identifica rispettivamente nel dolore di dover allevare i figli (‘itzavòn), nel dolore della gravidanza (herayòn in senso letterale) e nel dolore del parto (‘etzev). Stando a questa linea interpretativa, che risale in realtà al Talmud (‘Eruvin 100a), tutto il peso legato non solo alla gestazione, ma anche alla crescita dei figli, una volta nati ricade essenzialmente sulla madre. Ma già nel Medioevo circolava un’interpretazione differente del versetto. La ritroviamo nel Seder ‘Avodah, quel lungo poema che descrive il complesso rituale dei sacrifici espiatori che avevano luogo nel Bet ha-Miqdash per Yom Kippur e che abbiamo letto durante il Mussaf di questa giornata. Il Piyut adottato nel rito italiano fu composto da R. Yochanan ha-Kohèn, vissuto prima di Rashì.
Il Seder ‘Avodah si apre con una breve descrizione della creazione del mondo e dei primi eventi che la seguirono. Giunto all’episodio della prima trasgressione e della conseguente punizione, il poeta scrive: weneererah em le-’etzev we-av le-’itzavòn, “la madre fu maledetta con il ‘etzev e il padre con il ‘itzavòn”. Insomma, alla madre toccò il dolore del parto (e su questo nessuno eccepisce!), mentre quello di dover tirar su i figli spettò in primo luogo al padre (cfr. Sanhedrin 19b). Per comprendere ancor meglio il passo mi sia consentito a questo punto fornire una lettura diversa anche della radice delle parole ‘etzev e ‘itzavòn. In ebraico biblico la troviamo anche con il senso di modellare, dar forma a un oggetto, al punto che è difficile distinguere fra i due significati. Il primo esprime l’idea di una fatica insita nell’azione compiuta a prescindere dal suo risultato, mentre il secondo ha in sé l’idea del lavoro finalizzato a un prodotto.
Personalmente sarei propenso a credere che ‘etzev, riferito al parto, abbia il primo significato mentre ‘itzavòn, che nel versetto successivo è messo in relazione con il prodotto della terra, abbia il secondo. “H. tuo D. volge per te la maledizione in benedizione, perché H. tuo D. ti vuole bene” (Devarim 23,6). La maternità ha in sé l’idea della ciclicità, mentre la paternità quella della produttività. È ozioso a questo punto domandarci a quale dei due genitori spetti maggiormente l’educazione della prole. Entrambi hanno un compito ben preciso e insostituibile. Da un lato i valori positivi richiedono abitudine, perseveranza, disponibilità a ripetere: si tratta, ci insegnano i Maestri, di virtù connesse particolarmente con la femminilità. Ma dall’altro vivere positivamente significa inevitabilmente produrre, innovare costantemente, “portare a casa” in continuazione. E queste virtù sono legate tradizionalmente, e forse anche antropologicamente, alla figura maschile. Il comportamento umano è in definitiva una sintesi di entrambi i principi.
Da un lato l’anno ebraico si ripete costantemente: ritornano le stesse ricorrenze, nel vero senso del termine, gli stessi appuntamenti. D’altronde ogni nuovo anno è diverso da quello precedente: nuovi impegni, nuovi obbiettivi all’orizzonte. I Maestri dicono che la nostra vita è in realtà fatta a spirale, dove la ripetizione ciclica è solo un mezzo per meglio proseguire e progredire. Anche l’anno sociale di una Comunità, che non a caso coincide con l’anno ebraico, si sviluppa secondo la stessa dinamica. Ci pare di ripetere le stesse esperienze, ma questo non deve essere motivo di delusione o di stanchezza. Dietro, o meglio dentro il vecchio c’è sempre un gusto nuovo, qualcosa che merita di essere vissuto e assaporato nella sua interezza.
Buon lavoro a tutti!