Quando circa tre millenni fa il re Salomone costruì il Tempio di Gerusalemme lo inaugurò con una lunga preghiera. E’ un testo che fa ancora oggi impressione per la sua forza spirituale, e per la chiarezza con cui pone una domanda fondamentale. Rivolgendosi a D. il re si chiese: “il cielo e i cieli dei cieli non Ti possono contenere, e come mai potrebbe farlo questo luogo che ho costruito?” (1 Re 8:27). E’ la stessa domanda di ogni fedele monoteista davanti a qualsiasi tempio che vorrebbe avere la pretesa di limitare o concentrare in un unico luogo Colui che invece è il luogo del mondo. La risposta di Salomone fu che il suo Tempio era o un riferimento, un simbolo, un luogo di attenzione speciale, di incontro e di comunicazione tra uomo e cielo, tra trascendente e immanente.
Se la domanda se la poneva Salomone per il suo Tempio, unico e e sacro, tanto più la domanda è lecita dopo la distruzione di quel Tempio e del successivo che lo sostituì. Il Talmud (Meghillà 29a) chiamava le Sinagoga della diaspora babilonese con il nome di miqdash meàt, Santuario in miniatura (l’espressione è in Ez. 11:16); e se questo nome da una parte conferisce sacralità al luogo, dall’altro ne sottolinea la limitatezza in rapporto a quell’edificio originario di cui piangiamo la distruzione e per la cui ricostruzione ancora preghiamo.
Ogni Sinagoga propone quindi interrogativi e richieste. Richieste all’uomo perché impari a riconoscere nelle dimensioni dove vive, nel tempo e nello spazio, la presenza del sacro; che si imponga il dovere di trasformare e rendere speciale una parte dello spazio che lo circonda, che non può essere tutto uguale; e perché si renda anche conto che il sacro cui fa riferimento è ben oltre la sua capacità di limitazione e definizione.
Con timore e amore celebriamo oggi il centenario della costruzione di questa Sinagoga, Santuario monumentale ma al tempo stesso in miniatura, che per la sua collocazione e la sua storia aggiunge interrogativi agli interrogativi e richieste alle richieste. Sono gli interrogativi che continua a porsi una comunità profondamente radicata nella città dove vive senza interruzioni da 21 secoli, da quando l’antico Tempio era stato appena restaurato dai Maccabei, e che poi assistette sgomenta all’arrivo dei prigionieri e degli oggetti sacri portati in trionfo dai Romani che avevano distrutto quel Tempio. Una comunità che è stata accolta e che poi ha accolto, assorbendo e integrando per secoli diverse ondate di esuli, l’ultima dalla Libia, 37 anni fa; che è riuscita a sopravvivere dignitosamente a ogni tipo di vessazione e umiliazione.
Questo edificio nasce da una fede indomita che, nel momento in cui venivano a cadere restrizioni secolari, volle esprimersi con una costruzione simbolica che fosse a tutti evidente nel panorama della città. Ma c’era anche l’espressione della fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica di diversi con pari dignità in una nuova società. Eppure proprio nel secolo di esistenza di questa Sinagoga la storia si è particolarmente accanita contro questa comunità e questo luogo, dal fascismo al nazismo al terrorismo palestinese, ogni volta mettendo in discussione le speranze su cui si basava l’investimento pacifico dei costruttori.
Ma la comunità non solo non si è fermata e arresa, ma ha saputo trovare nuove energie; ha partecipato con tutte le sue risorse sociali e culturali al progresso dell’ Italia repubblicana; ha stretto forti legami di fratellanza con lo Stato d’Israele; ha avuto negli ultimi anni un’incredibile rinascita culturale e religiosa; ha visto in questo luogo il centro vitale dove esprimere una voce unitaria nei momenti drammatici e in quelli di gioia; e questo luogo è diventato anche il riferimento simbolico per l’incontro e il dialogo con altre fedi, iniziando da quella cattolica, e speriamo presto con quella islamica. Come un secolo fa, è la speranza che guida le iniziative di questa comunità e di questo luogo che la rappresenta. Malgrado ciò che è successo alla sua ombra, questo luogo è sempre più un riferimento di richiesta vera di pace, la pace interna che invochiamo, come comanda la tradizione, per questo Stato, la pace per questa comunità, e la pace per tutti. Come chiedeva Salomone: “ogni preghiera e ogni supplica di ogni uomo…, stenderà le braccia verso questa casa …e Tu dal cielo ascolterai” (1 Re 8:38).
Il Midràsh (Jalqut Melakhim 1:6) racconta che le finestre del luogo più sacro del Santuario di Gerusalemme erano costruite in un modo strano. Di solito le finestre si fanno perché la luce entri dentro la casa. Nel Santuario le finestre erano fatte al contrario, larghe fuori e strette dentro, in modo che la luce uscisse dall’interno verso l’esterno. Il mondo ha bisogno di quella luce. Una luce che ancora brilla nei tanti Santuari in miniatura, e che emana anche da questo luogo. Segno di fede in D. e di fiducia nell’uomo, di resistenza, ma anche di apertura al mondo. Un piccolo grande contributo che la parte del popolo d’Israele che vive a Roma offre a questa città, all’Italia e al mondo.