Feigele l’ebrea si battè con coraggio per sostenere la verità, come è evidente dal verbale seguente. Giudice: “Ti intendi di stregoneria?” Feigele: “Non so di cosa si tratti. Sono solo una povera vedova che vende vodka”. Giudice: “A quale scopo gli Ebrei hanno bisogno del sangue dei Cristiani?” Feigele: “Gli Ebrei non hanno nessun bisogno del sangue dei Cristiani, adulti o bambini che siano”. Giudice: “Dove hai nascosto il sangue del bimbo?” Feigele: “Agli Ebrei l’uso del sangue è proibito, anche del sangue di animali”. Giudice (di nuovo): “A quale scopo gli Ebrei hanno bisogno del sangue dei Cristiani?” Feigele: “Gli Ebrei non adoperano il sangue dei Cristiani”. Giudice: “Sei per caso una maga?” Feigele: “No. Non ho niente a che fare con tutto ciò”[1].
L’accusa di omicidio rituale
L’agghiacciante interrogatorio ebbe effettivamente luogo a Lublino, in Polonia, nel 1636, dove si verificò l’ennesima accusa di omicidio rituale ai danni della locale Comunità Ebraica. Possiamo facilmente immaginare che ogni replica della povera donna venisse puntualmente accompagnata da tratti di corda. Per secoli gli Ebrei furono accusati di scannare bambini cristiani onde poterne adoperare il sangue, soprattutto per impastare il pane azzimo destinato alla Pasqua. Come dimostra il Prof. Introvigne nel suo breve ma incisivo saggio sull’argomento che questa sera viene presentato, l’accusa è di origine pre-cristiana: il mito dell’infanticidio sacro era ben presente presso gli antichi popoli della Cananea, che usavano placare le ire del dio Moloch facendo passare entro cerchi di fuoco il loro bambini, un po’ come si fa oggi con le bestie feroci nei circhi, mentre i tamburi rullavano per coprirne le grida. E’ noto che il libro biblico del Levitico proibisce tale prassi agli Ebrei (Lev. 18,21).
Ma non c’è dubbio che essa trovò nei secoli un’identificazione con la passione di Gesù e l’accusa di deicidio, che riesumava in una chiave nuova il mito più antico dell’infanticidio sacro. Troviamo fin da antico nella letteratura rabbinica evidenti testimonianze di una reazione a questa situazione. Nel versetto dell’Esodo: “In quei lunghi anni morì il re d’Egitto e gridarono i figli d’Israele per la schiavitù, gemettero ed il loro gemito salì dalla schiavitù fino a Dio” (Es. 2,23) un antico Midrash interpreta l’espressione “morì” nel senso di “divenne lebbroso”, per analogia con Num. 12,12. Il Midrash continua narrando che, per guarire, il Faraone faceva il bagno due volte al giorno, nel sangue di bambini ebrei (Esodo Rabbà 1,41)[2]. Si tratta di un’evidente amplificazione, tipica di questo genere letterario, del racconto biblico concernente la soppressione dei bambini ebrei ordita dal Faraone, prima tramite le levatrici, poi gettandoli nel Nilo.
In Italia: S. Simonino da Trento e il Beato Lorenzino da Marostica
L’infamante accusa trovò terreno fertile anche in Italia, soprattutto nella seconda metà del XV secolo. Gemma Volli non solo dimostrò l’infondatezza delle accuse, che portò a distanza di mezzo millennio la Chiesa a rivedere le beatificazioni nel frattempo concesse ai presunti martiri, ma anche a mettere in luce il background di episodi tutt’altro che isolati: vale a dire la necessità di abbattere la concorrenza giudaica nell’attività feneratizia, dopo che nel 1462 era stata concessa licenza ai Frati Minori di gestire i Monti di Pietà. All’espulsione degli Ebrei da molte città dell’Italia Settentrionale contribuirono non poco, in quell’epoca, le prediche infuocate del famigerato (per gli Ebrei) Fra’ Bernardino da Feltre[3].
Il più famoso di questi casi fu naturalmente quello di S. Simonino da Trento (1475), sul quale la bibliografia è cospicua e non mi soffermerò[4]. Ricordo soltanto di aver visitato Trento per la prima volta nell’estate del 1984, da ragazzo, quando il culto era stato ufficialmente soppresso da quasi vent’anni. Intervistai allora un ristoratore della città, il quale mi confidò che la cappella dedicata al piccolo santo e riccamente affrescata nella Chiesa di S. Pietro era sì stata sconsacrata, ma ospitava ancora un concorso cittadino per presepi nel periodo natalizio di ogni anno. Quando tornai a Trento due anni fa, scoprii che le guide turistiche cittadine a stampa presentavano l’ingombrante vicenda per lo più in modo ambiguo[5].
Sulla scia del S. Simonino si verificarono negli stessi anni, per lo più nella medesima area geografica altri casi. Introvigne ricorda l’episodio accaduto a Portobuffolè (Treviso)[6] e il Beato Lorenzino da Marostica, beatificato da Pio IX il 5 Settembre 1867[7]. Si tratta di Lorenzo Sossio, ucciso barbaramente da ignoti in un bosco all’età di cinque anni, la mattina del 5 Aprile 1485, Venerdì Santo. “L’assassino era probabilmente uno squilibrato…, ma con una scelta irrazionale abbastanza comune, del delitto vennero accusati gli ebrei del luogo… Soprattutto per l’incontrovertibile prodigio della lungamente perdurante integrità del suo corpo, Lorenzino venne definito dal popolo di Marostica e dei dintorni, fin dai primissimi tempi, beato. Accettando come vera la calunniosa attribuzione del delitto ad ebrei –ciò che faceva di Lorenzino un martire della fede cattolica- anche la Gerarchia ecclesiastica permise il culto del bambino e ne stabilì la liturgia, che è stata in vigore fino a qualche anno fa. La revisione dei culti locali operata in seguito al Concilio Vaticano II ha accertato, nel caso di Lorenzino, l’insussistenza di taluni aspetti tradizionali della sua storia: la responsabilità degli Ebrei di quel tempo nel delitto a loro attribuito è risultata priva di ogni fondamento storico”[8].
Sono queste le parole che scrisse uno studioso free-lance, il Dott. Renato Peri di Bologna, che si è prodigato per ristabilire la verità storica in occasione del V Centenario della morte dello sfortunato bambino. Egli aggiunse che “l’attribuzione agli Ebrei di Bassano dell’uccisione di Lorenzino non ha, fortunatamente, gli esiti sanguinosi di altre accuse del genere: soltanto, contribuisce all’espulsione degli ebrei da tutto il territorio di Vicenza, nell’ambito di una più estesa ventata antisemitica”[9]. Il Consiglio Pastorale parrocchiale decise in quell’occasione di limitare le cerimonie alla celebrazione di una Messa “senza processione od ostensione della reliquia”[10]. Più sfumato appare tuttavia, anche in questo caso, l’atteggiamento delle Autorità Ecclesiastiche. Se in data 22 Novembre 1984 il Vescovo di Vicenza rendeva noto al Dott. Peri che “il culto del Beato Lorenzino è stato tolto dal Proprio dei Santi della Chiesa vicentina ed ha avuto l’approvazione della S. Sede in data 6 Dicembre 1963… per il fatto che non risulta storicamente provato che il Beato sia stato martirizzato dagli Ebrei”, pochi mesi più tardi, il 27 Marzo 1985, nell’imminenza del V Centenario, il Vescovo consigliava prudenza “nel rispetto di una eventuale festa popolare”. La Congregazione Vaticana per le Cause dei Santi, infine, in data 29 Giugno 1987, se da un lato rassicurava il Peri “che non si è fatto alcun passo in ordine alla canonizzazione del suddetto bambino; inoltre, risulta che la sua festa non è neppure contemplata nel calendario liturgico della diocesi di Vicenza fin dal 1963, per cui il caso può considerarsi già praticamente chiuso”, d’altro lato si asteneva dall’esprimere un giudizio storico sulle circostanze, come compito altrui[11].
Battesimi coatti
A partire dall’età moderna, con la diffusione delle idee illuministiche e positivistiche, le credenze che alimentavano le accuse fecero sempre meno presa in Europa Occidentale. Ma non in Oriente, dove ancora nel 1840 si segnala l’”affare di Damasco”: l’uccisione di un frate cappuccino, attribuita agli Ebrei, in prossimità della Pasqua. L’accusa di omicidio rituale, scrive lo storico degli Ebrei romani Sam Waagenaar, era usata “a doppio fine: imporre agli Ebrei il marchio degli assassini e nello stesso tempo indurre alcuni di loro, col terrore, ad abbandonare una religione che esigeva per l’esercizio del suo culto azioni tanto assurde”[12].
“Se l’’affare di Damasco’ –continua lo stesso autore- suscitò scalpore sulle due sponde dell’Atlantico e particolarmente a Roma, diciotto anni più tardi fu un vero uragano quello che mise in subbuglio il ghetto tiberino e si abbatté con violenza sul Vaticano, il quale resisté, saldo come una roccia”[13]. Il drammatico caso Mortara dimostra come ancora a metà dell’Ottocento, allorché il potere temporale dei Papi era sull’orlo del disfacimento, determinati pregiudizi fossero ben lungi dal tramontare. Siamo a Bologna, nel 1858. La polizia pontificia bussa alla porta di un mercante ebreo, Momolo Mortara, e pretende la consegna di uno dei figli, il piccolo Edgardo di sei anni. La famiglia tenta di opporsi, ma è tutto inutile: l’inquisitore è venuto a sapere che Edgardo è stato battezzato in segreto, e poiché la legge della Chiesa non tollera che un bambino cristiano possa crescere in una famiglia ebraica, ordina che il piccolo sia trasferito a Roma nella Casa dei Catecumeni, per perfezionare la sua educazione cattolica.
Fu un caso sensazionale, ma non isolato. L’altro grande storico degli Ebrei di Roma, A. Berliner, così riassume la legislazione relativa agli Ebrei sotto il pontificato di Pio IX. “Quando un capo-famiglia è trascinato nella Casa dei Catecumeni in seguito alla denuncia di una sua presunta disposizione ad abbracciare il cristianesimo, anche la moglie e i figli sono presi dagli sbirri del Vicariato generale e portati dove già è trattenuto il padre. Perpetuando una tradizione che risaliva almeno al XVII secolo, gli adulti recalcitranti sono costretti a trascorrere quaranta giorni nella Casa dei Catecumeni, rigorosamente isolati da correligionari e parenti, che per nessun motivo possono visitarli”[14]. Oggi è difficile immaginare la condizione degli Ebrei che, solo centocinquant’anni fa in Italia, erano costretti non solo a portare un contrassegno e ad ascoltare di sabato la “predica coatta” di un religioso[15], ma anche a subire le periodiche perquisizioni delle sinagoghe da parte della polizia. Nella ricostruzione di David Kertzer, il caso Mortara non è solo un pretesto (peraltro efficacissimo) per affrontare questioni spinose come l’antisemitismo cattolico: è la storia di una drammatica vicenda umana che sconvolge per sempre l’esistenza di una famiglia e muta radicalmente il destino di un ragazzino ebreo; ed è infine un caso politico che ebbe un peso tutt’altro che secondario nel processo dell’unificazione italiana[16].
L’Olocausto e la Chiesa
“Quante volte abbiamo considerato l’Olocausto come qualcosa di inconcepibile nella sua mostruosità –si domanda lo stesso Kertzer nella presentazione dell’opera-? Ebbene, dopo aver letto la storia di Edgardo Mortara e della sua famiglia, forse ci metteremo a ricercarne le radici in territori fin troppo vicini a noi”. Come è noto, a partire dallo scorso 28 Dicembre, il Corriere della Sera ha pubblicato un documento inedito, datato settembre 1946, in cui il S. Uffizio, con l’avallo di papa Pio XII, ordinava di non restituire alle famiglie e alle comunità israelitiche i bambini ebrei ospitati da istituzioni cattoliche francesi per sottrarli alle persecuzioni naziste. La rivelazione ha riacceso la polemica contro la beatificazione di Pacelli da parte di esponenti del mondo ebraico.
Hanno gli Ebrei il diritto di chiedere la sospensione di una causa che riguarda un’altra religione? La rivista Shalom dedica a questo interrogativo ben sei pagine del suo ultimo numero, intitolato: “La religione imposta con la forza: battesimi coatti”. La storica Anna Foa spiega che il problema non è tanto la beatificazione del Papa, ma come il Vaticano si pose di fronte alla Shoah, “l’incapacità di comprendere fin da subito ciò che era accaduto” [17]. In particolare, gli Ebrei domandano che si faccia chiarezza storica su una delle figure più controverse del Novecento, garantendo agli studiosi la possibilità di accedere a tutti i documenti vaticani relativi alla seconda guerra mondiale[18].
Il terrorismo islamico
Gemma Volli notava come quasi tutti i casi di omicidio rituale alla fine del Quattrocento avessero avuto per teatro la zona alpina del Nord Est, al confine fra cultura latina e cultura germanica. Volendo rifuggire da valutazioni che oggi ci parrebbero fin troppo semplicistiche (come se davvero il vescovo Hinderbach di Trento potesse essere indicato responsabile dei “Processi Tridentini” essenzialmente per il cognome tedesco che portava), non sarà viceversa un caso che le accuse di omicidio rituale maturassero in ambienti che oggi definiremmo multiculturali, o forse più esattamente in terreni di conflitto fra culture. Non ci pare fuori luogo rimarcare il fatto, in funzione di quanto sta precisamente accadendo nel mondo islamico. Durante il Ramadan del 2003, una TV di Damasco ha mandato in onda un serial televisivo in cui si reiterano le tradizionali accuse a carico di una presunta multinazionale ebraica che contemplano, fra l’altro, l’omicidio rituale, in termini molto simili al reportage sull’assassinio di Fra’ Tommaso da Calangiano nel 1840.
Si tratta, a ben vedere, di una riproposta del mito più antico in chiave non cristiana. Ma per gli Ebrei è un nervo scoperto, chiunque lo tocchi, e quando si crea un clima è difficile delineare le responsabilità specifiche caso per caso, in quanto tendono piuttosto a confondersi. E duemila anni di persecuzioni lasciano il segno. Come quando a fare le spese della violenza antisemita, ancora una volta a Roma, fu di nuovo un ragazzino, il piccolo Stefano Tachè, caduto sotto il fuoco dei terroristi nell’attentato alla Sinagoga il 9 Ottobre 1982. “I giovani e i bambini –commenta Fiamma Nirenstein- sono le vittime privilegiate del terrorismo, le loro fototessere coprono quasi tutti i giorni le prime pagine. Il terrorismo adora triturare i bambini, perché non c’è nulla di più spaventoso per una società che scavare la tomba ai figli”[19]. Ma soprattutto, osserva la stessa autrice in un recentissimo articolo su “La Stampa”, alla base del terrorismo c’è ancora l’idea “che Israele sia avido del sangue del nemico (blood libel), che uccida per il proprio gusto bambini e innocenti in genere”[20].
Conclusione
Esiste dunque a mio avviso un sottile legame fra le accuse di omicidio rituale, per cui si imputa agli Ebrei la morte violenta di un bambino non ebreo, e le conversioni forzate di bambini ebrei da parte della religione dominante. Voglio qui segnalare il recentissimo saggio “La Dignità della Differenza. Come evitare lo scontro delle civiltà” (Garzanti, 2004), opera del Gran Rabbino d’Inghilterra Jonathan Sacks, che è “una rigorosa analisi e una profonda riflessione sull’etica della globalizzazione. L’obiettivo di J. Sacks è quello di tracciare la strada verso una diversa coesistenza. Per farlo non è sufficiente trovare dei valori comuni a tutti gli esseri umani: è necessario anche imparare ad accettare le differenze. Il pluralismo e la tolleranza non bastano più: compito indispensabile, soprattutto per le culture monoteiste, è capire come l’unità del Creatore si rifletta nella diversità del creato. Questo atteggiamento può aiutarci anche ad affrontare le altre sfide poste dalla globalizzazione: le disuguaglianze economiche, la crisi ambientale, l’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione. Solo così potremo immaginare un mondo in cui non sia più necessario morire per la propria fede”.
Vorrei concludere commentando un famoso versetto del Profeta Isaia: “E spezzeranno le loro spade per farne vomeri e le loro lance per farne falci; un popolo non leverà più la spada contro l’altro, non impareranno più la guerra (Is. 2,4). Oggi si vive in una società pluralista, in cui non esiste più il monopolio religioso e culturale che ha caratterizzato il Vecchio Continente per secoli. Ciò consente ai seguaci delle religioni minoritarie di guardare se stessi con legittimo orgoglio, in un contesto che non ha precedenti nella storia europea. Ma nello stesso tempo, la nuova condizione esprime un monito nei confronti delle religioni emergenti. Bisogna evitare che si creino nuovi monopoli, nuove situazioni in cui “una religione levi la sua spada contro l’altra”, ma tutte si servano dell’unico mezzo di diffusione loro consentito: la persuasione[21].
Al centro del messaggio religioso dell’Ebraismo si colloca il Sacrificio d’Isacco. Con un notevole ardimento, i Maestri del Midrash Rabbà hanno immaginato che Isacco si recasse al luogo del sacrificio con la legna sulle spalle “come un uomo che porta il suo patibolo su di sé”[22]. L’immagine evidenzia il contrappunto con il Cristianesimo. Infatti se quest’ultima religione predica che un “figlio” della divinità è morto in sacrificio per il peccato di tutti, nell’Ebraismo è il figlio di un uomo ad essere sopravvissuto al sacrificio per il merito di tutti. E’ chiaro che proprio la fede incrollabile nella nostra sopravvivenza fisica e spirituale, in una visione realistica dell’esistenza, nonché nel valore costruttivo dei meriti sono stati i motivi principali della continuità ebraica attraverso i secoli a dispetto delle avversità.
[1] Cfr. Encyclopaedia Judaica, vol. IV, col. 1124, s.v. Blood Libel.
[2] Cfr. R. Bonfil, Sefer Angelo, Haggadà di Pesaci, Milano, 1962, p. 56-57. Si noti che, mentre la tradizione ebraica rappresenta come lebbroso il Faraone, una tradizione egiziana rappresenta come tali gli Ebrei: questa afferma che il Faraone aveva deciso di liberare il paese dagli impuri (cfr. G. Flavio, Contro Apione, I,26).
[3] Cfr. “Il Ponte” 19 (1963), p. 1396 ss.; “Rassegna Mensile d’Israel” 31 (1965), p. 570 ss.; 34 (1968), p. 513 ss. e 564 ss.
[4] G. Divina, Storia del Beato Simone da Trento, 2 voll., 1902; G. Minestrina, Gli Ebrei a Trento, 1903; V. Mancini, La superstizione omicida e i sacrifici umani con particolare riguardo alle accuse contro gli Ebrei, 1930, p. 106,218; S. Waagenaar, Il Ghetto sul Tevere, 1972, p. 102-110; A. Esposito-D.Guaglioni, Processi contro gli Ebrei di Trento (1475-1478), 1990; E. Trevisan Semi, Gli “harughè Trient” e lo “Cherem” di Trento nella tradizione ebraica, in I. Rogger-M. Bellabarba, Il principe-vescovo Johannes Hinderbach (1465-1486) fra tardo Medioevo e Umanesimo, 1992, p. 407-416.
[5] Cfr. E. Delama, Fine settimana a Trento, 1996. A p. 74, descrivendo la cappella del Beato Simonino nella Chiesa di S. Pietro, scrive testualmente: “La volta è arricchita da otto dipinti del Ricchi (1669) da poco restaurati (sic!), che illustrano “storie del Simonino””, ed aggiunge semplicemente che “Il culto per Simone da Trento è stato abolito nel 1965, in seguito ad una revisione storica degli eventi che portarono alla sua beatificazione”. Ma a p. 16, nel capitolo introduttivo “Cenni storici”, troviamo invece: “Al vescovado di Giovanni Hinderbach (1465-1486) sono correlati due eventi importanti: il primo riguarda i processi avviati contro gli Ebrei accusati di aver seviziato ed ucciso il piccolo Simone Unverdorben, il secondo riguarda l’impronta umanistica con cui venne rinnovata gran parte delle costruzioni e chiese della città. Hinderbach, uomo di cultura e amante delle Belle Arti, fu il primo di una lunga serie di principi ad aver completato i propri studi umanistici in Italia”. L’autrice non solo si guarda bene dall’esprimere un giudizio storico su quelli che passarono alla Storia come i “processi tridentini”, ma di fatto li fa passare come una manifestazione dell’umanesimo del vescovo Hinderbach a tutti gli effetti.
[6] Cfr. S. G. Radzik, Portobuffolè, 1984.
[7] Cfr. D. Igino Milan, Il Beato Lorenzino da Marostica, nella storia e nel culto, Tip. “Ars et Religio”, Vedelago (TV), 1954; S.G. Radzik, Lorenzino si è fermato a Marostica, in “Shalom” 18 (1984) n. 11, p. 13; Gli Ebrei ed il culto del beato Lorenzino venerato a Marostica ed a Valrovina, 1985.
[8] R. Peri, Lorenzino: una storia, un’interpretazione, nel V Centenario della morte, 5 Aprile 1985.
[9] R. Peri, Lorenzino, una storia per cristiani d’oggi, Marostica, 21 Aprile 1985.
[10] Lorenzo Sossio fra storia e mito, in “La Voce dei Berici”, 30 Dicembre 1984.
[11] Dal carteggio del Dott. Peri, per sua gentile concessione.
[12] S. Waagenaar, Il Ghetto sul Tevere, 1971, p. 176.
[13] Ibid., p. 178.
[14] A. Berliner, Storia degli Ebrei di Roma, 1992, p. 315 e n. 5.
[15] Ibid., p. 200-203. Erano presi di mira soprattutto i giovani: nel 1741 fu prescritto che ogni sabato si alternassero 100 ragazzi e 50 ragazze.
[16] D. I. Kertzer, Prigioniero del Papa Re, 1996.
[17] 38 (2005), n. 2, p. 14.
[18] A. Somekh, La Giornata della Memoria, in “Riforma”, 13 (2005), n. 3, p. 1.
[19] F. Nirenstein, Gli antisemiti progressisti, La forma nuova di un odio antico, 2004, p. 256.
[20] F. Nirenstein, Antisemitismo benzina per i terroristi, in “La Stampa”, 24 Febbraio 2005, p. 24.
[21] Cfr. E. Berkowits, Faith after the Holocaust, 1973, p. 39.
[22] Genesi Rabbà 56,3. Cfr. D. Lattes, Aspetti e problemi dell’Ebraismo, 1970, p. 57-69; E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, 2000, p. 3-28.