La vita umana dipende dal cuore o dal cervello? Di questo, fra altri argomenti, si è parlato a Venezia domenica scorsa nel convegno organizzato dal Dec-Ucei, Ame (Associazione Medica Ebraica) e Comunità ebraica, con l’illustre partecipazione di Amos Luzzatto al quale è stato presentato il volume della Rassegna Mensile d’Israel a lui dedicato per i suoi 80 anni. Il dilemma cuore/cervello non è solo filosofico o accademico. È letteralmente una questione di vita o di morte. Se si dice che finché il cuore batte un uomo o una donna sono vivi, è preclusa la possibilità di espiantare un qualsiasi organo per trapiantarlo in un paziente che ne abbia bisogno. Tanto meno si potrebbe prelevare il cuore, perché ciò equivarrebbe a uccidere il donatore. Se viceversa diciamo che la vita dipende dal cervello, una volta sopraggiunta la morte cerebrale – anche a cuore battente –, gli organi (incluso il cuore) possono essere prelevati e trapiantati in qualcun altro.
Già dalla fine degli anni ’60, dopo i primi trapianti di cuore effettuati da C. Barnard, la domanda ha suscitato animate discussioni fra i maggiori rabbini del mondo. Una scuola di pensiero considera la vita strettamente legata al battito cardiaco: finché il cuore batte, si è vivi, a prescindere dalla condizione del cervello. L’altra scuola sostiene che la morte cerebrale, accertata con tutta una serie di rigorosi e ripetuti esami, è un segno sufficiente per decretare legalmente la morte e quindi permettere l’eventuale espianto degli organi, cuore incluso. Questa seconda opinione è quella seguita, dalla fine degli anni ’80, dal Rabbinato centrale israeliano (e, per inciso, dalla maggioranza dell’Assemblea rabbinica italiana). La prima opinione è quella seguita da molti autorevoli rabbini dei paesi anglo-sassoni e del mondo charedì israeliano.
Di fronte si hanno due ragioni contrapposte e incompatibili l’una con l’altra: la ragione del donatore, che si rischierebbe di uccidere se non fosse veramente morto, e quella del potenziale ricevente, che non potrebbe essere salvato o curato se non venisse effettuato il trapianto. Uccidere è uno dei divieti più gravi, ma anche salvare una vita o curare un malato è una mitzvà (precetto religioso). Se si è troppo rigorosi in un caso, si rischia di essere troppo facilitanti nell’altro.
È interessante ricordare che, a supporto dell’opinione che accetta la morte cerebrale come criterio valido, è riportato anche un brano del commento talmudico scritto da Rabbi Yehudà Aryè di Modena, noto come Leon (da) Modena, famoso rabbino veneziano (1571-1648). Spiegando un passaggio dell’Eyin Yaaqov (che è una collezione dei brani non legali del Talmud), il Rav di Venezia fra l’altro scrive (in trad. ital.): “Non c’è discussione sul fatto che il fondamento della vitalità risieda nel cervello e che se non c’è respirazione la vitalità del cervello è indubbiamente sparita” (vedi in Amar Ha-Bonè, Yomà 85a). Ovviamente queste parole non furono scritte pensando a un trapianto: il problema in discussione nel Talmud è come assicurarsi che qualcuno sia veramente morto, ma ciò è rilevante anche per il nostro dilemma. Ed è notevole che il commento talmudico di Leon da Modena, dopo tre-quattro secoli, sia tuttora letto e studiato e citato dai massimi esperti di bioetica ebraica contemporanei, come il Rav Prof. Avraham Steinberg, rabbino e neurologo, nell’Entziclopedia Hilkhatit Refuit (vol. 6, pp. 34-35, n. 60; trad. ingl. Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, Feldheim 2003), opera per cui ha ricevuto il prestigioso Israel Prize nel 1999.
rav Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano e CNR
https://moked.it/blog/2011/05/22/cuore-o-cervello-il-dilemma-della-vita/