La Parashat Chayyè Sarah si apre con la morte di Sarah e si chiude con la morte di Avraham. Nel secondo versetto il Patriarca stesso ci insegna le due azioni che costituiscono lo scopo del lutto per la perdita di un congiunto: “e Avraham venne a commemorare (lispod) Sarah e a piangerla (we-li-vkotah)” (Bereshit 23,2). Nell’insegnamento dei nostri Maestri ciò trova particolare espressione durante i primi sette giorni del lutto “stretto” (avelut) in cui i dolenti si astengono da molte attività per concentrare la propria attenzione sulla presa di coscienza della perdita e sul rimpianto di chi non è più. Nella parola we-livkotah la lettera kaf è scritta più piccola delle altre.
Secondo una spiegazione si vuole far così risaltare meglio la bet precedente, altrimenti le due consonanti, simili per grafia, potrebbero scambiarsi e anziché livkotah (“per piangerla”) si leggerebbe we-likhbotah (“per spegnerla”).
Perché allora non ingrandire addirittura la prima, piuttosto che rimpicciolire la seconda? Per insegnarci che il lutto non si deve mai esprimere in forma smodata ed esagerata, ma deve seguire, nei limiti del possibile, regole precise. Oltre che per il coniuge, il lutto con i suoi rigori è previsto solo per la morte dei consanguinei: i genitori, i figli, fratello e sorella.
Dai tempi del Talmud, inoltre, vi è l’obbligo per i figli di recitare il Qaddish per la morte dei genitori ogni giorno nel corso del primo anno e successivamente ogni anno nel loro anniversario. La recitazione costituisce un merito che ritorna a favore del defunto per il giudizio della sua anima ed è una sorta di ricompensa in sede ultraterrena per ciò che il genitore ha compiuto in vita a vantaggio dei figli: se non altro il fatto di averli generati. Alcuni Decisori sono stati perciò interrogati se questi doveri incombono anche dove il rapporto genitori-figli trova espressione in modo speciale: nel caso dei figli adottivi e nel caso di genitori non ebrei.
Il tema dell’adozione pone in realtà la controversa questione se e in che misura il “figlio” può essere considerato tale in rapporto al suo genitore adottivo. Sotto il profilo della Halakhah la questione è rilevante per molteplici aspetti che non è possibile qui nemmeno accennare. Per quanto riguarda il lutto il Resp. Be-Mar’eh ha-Bazaq 5, 91 ritiene che benché non sussista alcun obbligo in tal senso, se tuttavia il figlio adottivo lo desidera egli può osservare il lutto alla morte di coloro che lo hanno allevato e si sono dedicati a lui. Trattandosi peraltro di un obbligo non definito deve stare attento a non venir meno a precetti positivi che si troverebbero in contrasto con la sua scelta. E’ noto per esempio che durante la settimana di lutto è proibito persino lo studio della Torah, perché “i precetti di H. rallegrano il cuore” (Tehillim 19). Ebbene lo studio della Torah è altrimenti così importante nella vita di tutti noi (“vale quanto tutti gli altri precetti messi assieme” – Mishnah Peah 1,1) che nel suo caso non deve essere accantonato per effetto del lutto da lui osservato. Similmente il primo giorno del lutto vi è una discussione sull’obbligatorietà o meno dei Tefillin, perché essi costituiscono una sorta di ornamento. Il figlio adottivo sarà comunque tenuto a indossarli perché la sua scelta personale di osservare il lutto non prevale su questa Mitzwah quotidiana di fondamentale importanza per la vita ebraica. Mi sento di aggiungere che anche la lacerazione dell’abito (qeri’ah) non va osservata nel suo caso, perché contrasta con il divieto più generale di sprecare e distruggere tutto ciò che è utile (bal tashchit): ne consegue che si lacera il vestito solo se siamo certi che il lutto sia strettamente obbligatorio.
Del permesso di recitare il Qaddish in memoria di genitori non ebrei tratta un altro responsum del Rav ‘Ovadyah Yossef (Resp. Yechawweh Da’at 6,60) ed è di fatto similare. In generale la Halakhah non dà alcun valore giuridico ai legami famigliari con il mondo non ebraico: “colui che si converte all’ebraismo è una nuova creatura” a ogni effetto. Ma sul nostro argomento ci sono molti elementi per giustificare un atteggiamento diverso. Anzitutto, sebbene il Qaddish sia un obbligo particolare dei figli, nulla vieta che lo reciti per qualsiasi defunto anche una persona diversa dal figlio, come per esempio se non ne avesse lasciati. Se anche affermassimo dunque che nel caso di un genitore non ebreo la paternità non è riconosciuta dalla Halakhah, al figlio che lo desideri è senz’altro consentito di recitare il Qaddish comunque. Ci sono almeno tre fonti che autorizzerebbero senz’altro la recitazione di preghiere per non ebrei, soprattutto se hanno manifestato vicinanza alla Torah e all’Ebraismo. La Torah racconta che Avraham pregò per Avimelekh, re dei Filistei. Nella Tefillah di Purim menzioniamo fra i personaggi della Meghillah degni di ricordo anche Charvonah pur non essendo ebreo, per il fatto che aveva fatto impiccare Haman sulla forca da questi predisposta per Mordekhay, imprimendo una svolta agli eventi (Est. 7,9). Infine la Mishnah ci racconta che Rabban Gamliel accettò le condoglianze per la morte del suo fido servo non ebreo Tavì, affermando che si trattava di un uomo kasher (Mishnah Berakhot 2,7; in Sukkah 2,1 lo definisce addirittura Talmid Chakham! Cfr. anche Wayqrà Rabbà 33,1).
E’ dunque lecito pregare per il proprio genitore non ebreo, tanto più se è stato quest’ultimo a richiederlo in vita, cosa che mostra in lui di avere avuto fede in H. (cfr. Yalqut Yossef, 7, p. 38). In tal modo trova espressione la gratitudine del figlio nei suoi confronti per avergli dato la Vita di questo mondo. Nel caso del gher che prega per il suo genitore vi è un buon motivo ulteriore. Si deve evitare che il figlio possa rimproverarsi di essere passato “da una Qedushah superiore ad una inferiore”: da una religione in cui avrebbe potuto pregare per lui ad una in cui questa possibilità gli viene negata.