Tempio di Via dei Gracchi a Milano
Due animali non kasher sono nominati nella Parashah odierna a proposito dell’Uscita dall’Egitto: questa caratteristica ci vuole porre un problema. L’asino è menzionato nel contesto della Mitzwah del riscatto del figlio primogenito (Pidyon ha-Ben). E’ l’unico animale tamè (impuro) il cui primogenito veniva a sua volta riscattato, al pari dell’essere umano (Shemot 13,13). Rashì spiega questo fatto con il merito di questi animali che hanno aiutato gli Ebrei a trasportare le loro masserizie. Il cane è nominato altresì a proposito della piaga finale della morte dei primogeniti egiziani. Il versetto attesta infatti che invece “per i figli d’Israele nessun cane abbaiò” (11,7).
C’è un altro testo in cui asini e cani sono presentati uno dopo l’altro. E’ un famoso Midrash all’inizio del trattato Berakhot (3a). Il Talmud discute a proposito dei tempi della lettura serale dello Shemà’ in quante veglie sia divisa la notte e presenta l’opinione di R. Eli’ezer, il quale sostiene che le veglie notturne sono tre. Non solo: ai tre turni di guardia sulla terra corrispondono altrettanti intervalli in cielo. Delle tre veglie celesti il Midrash dà i segni: nella prima un asino raglia (chamòr no’èr), nella seconda i cani latrano (kelavim tzo’aqim) e nella terza “il neonato succhia dal seno di sua madre e la moglie conversa con il marito”. E’ un testo molto profondo di cui sono state date molte interpretazioni.
Il No’am Elimelekh, commento chassidico opera di R. Elimelekh di Lizensk discepolo del Ba’al Shem Tov, lo mette in relazione con un altro passo talmudico: precisamente con l’affermazione di Ravà alla fine del trattato Mo’ed Qatan (28a). Ravà dice che “vi sono tre cose che non dipendono (soltanto) dai meriti di una persona, ma anche dalla sua fortuna (mazalà nell’originale aramaico): quanti figli avrà (banè), quanti anni vivrà (chayyè) e quale sarà il suo status economico (mezonè). Spiega il No’am Elimelekh che la prima veglia, quella dell’asino che raglia (chamòr no’èr), corrisponde alla fase della generazione e dell’educazione dei figli (na’ar). Non a caso la Torah parla dell’asino a proposito del figlio primogenito. Inoltre l’asino è ancora nominato nella Torah nel capitolo della ‘Aqedat Itzchaq, dove il termine na’ar appare più volte (Bereshit 22). Il sacrificio di Itzchaq simboleggia a sua volta lo tza’ar ghiddul banim, la sofferenza di “tirare su” i figli. La seconda veglia, quella dei cani che latrano, rammenta un ulteriore passo del Talmud in cui si dice che quando i cani abbaiano senza motivo apparente significa che l’Angelo della Morte è in circolazione (Bavà Qammà 60b). Il fatto che la Torah affermi che i cani non avrebbero abbaiato per gli Ebrei durante la piaga della morte dei primogeniti egiziani significa che i primogeniti ebrei ne furono immuni e godettero di lunga vita. Infine il neonato che succhia dal seno materno corrisponde alla fase dei mezonot, del benessere economico.
Nel pensiero dei nostri Maestri la notte simboleggia l’esilio e le sue diverse fasi nel difficile processo che porterà alla Gheullah. Anche la nostra vita è il processo di Gheullah della nostra anima che a questo scopo è stata mandata sulla terra. La prima preoccupazione in ordine cronologico nel processo vitale di un uomo adulto, ci viene insegnato, devono essere i figli, ovvero il matrimonio. Nella seconda fase ci preoccupiamo di quanto a lungo potremo ancora vivere, cioè della nostra salute. Nella terza fase soltanto arriviamo a darci pena di quanti mezzi economici avremo per il nostro sostentamento. In questa visione, dunque, la preoccupazione economica è relegata per ultima, forse in connessione con l’età della pensione in cui non potremo più lavorare.
E’ pur vero che in una visione d’insieme questi tre “benefits” sono legati a loro volta al mazal, anzi, mazalà in aramaico. Mazalà ha lo stesso valore numerico di mèlach (= “sale”) e la Torah dice: “su ogni tuo sacrificio offrirai sale” (Wayqrà 2,13). Già si è parlato del Sacrificio di Itzchaq. Diremo a questo punto che tutte tre le fasi della vita richiedono sacrifici “salati”, ma proprio come il Sacrificio di Itzchaq ebbe un lieto fine, così anche i nostri “sacrifici” avranno un buon esito assicurato. Di più, osserviamo anche che mèlach è l’anagramma di lèchem (=”pane”), a voler significare che la preoccupazione per il pane non è soltanto legata all’età più matura e alla fase finale dell’esistenza, ma informa e condiziona in realtà tutta quanta la nostra vita. Possiamo concludere dunque che mentre sull’importanza del mazòn (= “cibo, benessere economico”) è più che mai aperta la discussione, rispetto agli altri due valori, banè (=”figli”) e chayyè (=”longevità”), la visione dei Maestri è chiara. Non si deve attendere chayyè per fare banè. Non aspettiamo di essere troppo avanti con gli anni per sposarci!