Un albero viene sradicato da un’alluvione e va a finire nel campo, di un altro proprietario, dove attecchisce e fa frutti. Domanda: i frutti di chi sono, del primo o del secondo proprietario? A prima vista andrebbero divisi, ma bisogna fare una distinzione. Vanno divisi se l’albero è arrivato con le radici coperte dal terreno originale, cosa che gli ha consentito per un certo tempo l’autonomia, ma se le radici erano nude, è solo la terra del secondo proprietario che ha consentito l’attecchimento, la crescita e ha dato il nutrimento; quindi il secondo proprietario deve al primo solo il valore dell’albero spoglio. È un caso tipico discusso e codificato da secoli nella legge rabbinica, in parallelo a casistiche analoghe di altri sistemi legali.
Oggi si propone un caso per alcuni aspetti analoghi. Un ovulo fecondato è stato impiantato per errore in un utero diverso da quello della donna cui era stato prelevato l’ovulo, ha attecchito ed è cresciuto. Di chi è il prodotto del concepimento? Lasciato a sè stesso non gli sarebbe stata possibile una crescita autonoma, che invece ora c’è stata grazie all’ospite che lo sta portando in grembo. Tra la storia dell’albero e quella dell’ovulo fecondato vi sono tante differenze, da una parte un vegetale, dall’altra un essere umano, da una parte una situazione essenzialmente economica, dall’altra un sistema di relazioni con sentimenti, rischi e passioni. Eppure nel minimo che accumuna le due situazioni, se fosse lecito un confronto tra i due casi, la conclusione sarebbe che il feto è di chi porta avanti la gravidanza salvo rifusione del valore dell’embrione, valore ben difficile da calcolare, ma che dovrebbe comprendere almeno le spese in senso lato (mediche, stress, ore di lavoro perso) che sono state necessarie per produrlo. Sempre che sia eticamente lecito, e la cosa è notoriamente controversa, fissare un prezzo per questo tipo di “prestazioni” biologiche umane.
L’esempio dell’albero è solo uno dei tanti casi proposti dalla tradizione classica che vengono portati sul tavolo della discussione su questo tipo di problemi. La complessità e la gravità delle questioni impongono di allargare lo spettro della casistica a cui ispirarsi. In ogni caso l’esempio -molto parziale- di questo ragionamento mostra il metodo scelto per analizzare e decidere in una situazione di grande difficoltà: rispondere a problemi assolutamente nuovi posti dal progresso scientifico, quando si vuole rimanere legati ad una tradizione giuridica, una cultura e una saggezza che ha una anzianità di 35 secoli.
Ma perché dovremmo farlo? Se per un momento ci distacchiamo dalla discussione sul singolo problema che ci appassiona, e proviamo a vedere le cose da fuori, c’è un dato che va preso in considerazione. Il progresso scientifico tumultuoso che pone ogni giorno problemi nuovi grazie a possibilità tecniche fino a poco fa impensabili va in parallelo a modificazioni sociali e culturali radicali dovute anche a queste possibilità tecniche. Si pensi solo all’evoluzione del modello famigliare, della sessualità riproduttiva, alla contrazione della natalità, al ritardo progressivo dell’età del primo parto. La scienza fa saltare gli schemi tradizionali di famiglia e la cultura sociale, giuridica e religiosa che li ha accompagnati per secoli e millenni entra in crisi. Per arrivare a determinate strutture culturali l’umanità ha impiegato molto tempo. Oggi basta poco per scardinare tutto. Nella storia di tante culture non vi sono stati grandi dubbi su come definire chi è la madre; ma oggi abbiamo una madre genetica e una gestante, tra un po’ forse non ci sarà la gestante, sostituita da chissà cosa. E allora come si fa a costruire di corsa un nuovo sistema di valori che sia il più possibile condiviso, dovendo decidere in poco tempo ciò che prima veniva stratificato sull’esperienza di millenni? La risposta dei mondi religiosi, come quello ebraico, è di non staccare il legame con il passato ma di trovare il modo di un’evoluzione coerente. Questo dà ad ogni decisione autorevolezza, condivisione, sicurezza e, per chi ci crede, sacralità. E la solidità di una decisione presa con rigore logico e buon senso non va certo imposta alla collettività ma potrà essere un modello nella discussione generale, anche se collegata a fonti di una tradizione specifica, particolare e minoritaria.
Per quanto riguarda l’ebraismo e il caso in discussione c’è anche da far presente che la complessità della domanda e la natura stessa della struttura decisoria rabbinica, in mancanza di una autorità unica e centrale, apre la strada a risposte differenti; per cui le autorità di oggi sono schierate su due fronti opposti, tra chi sostiene la maternità genetica e chi la maternità gravidica. Ma se poi si dovesse decidere a chi affidare il neonato, l’antica saggezza biblica fornisce con una storia esemplare una linea guida. Il re Salomone davanti a due donne che si contendevano un neonato, in assenza di test genetici, chiese di portare una spada per dividerlo in due. Al che una donna rispose di sì mentre la vera madre disse che avrebbe rinunciato al bambino purchè potesse vivere. E questo bastò per accertare la verità. Ma si osserva che l’intento di Salomone era non tanto quello dell’accertamento di maternità ma quello di tutelare gli interessi del bambino, da affidare a chi veramente lo avrebbe protetto e amato. Dovendo oggi definire linee antropologiche, bioetiche e giuridiche su chi è la madre, la storia di Salomone inserisce davanti al dubbio una certezza prioritaria: l’interesse del bambino.
* Rabbino Capo di Roma
(Pubblicato nell’inserto culturale de Il Sole 24 Ore del 6 luglio 2014)